a cura di Vera Pegna, Sezione Internazionale Fondazione Lelio e Lisli Basso
Parlare delle radici storiche e culturali della questione palestinese ci porta ben oltre la terra di Palestina perché il seme da cui è nato il progetto sionista, il quale ha determinato la questione palestinese, quel seme era europeo, come europee sono state le discriminazioni, le persecuzioni, i pogrom e infine l’eccidio di milioni di ebrei da parte del regime nazista. Non è questa la sede per analizzare tali eventi, ma, considerando l’importanza che riveste il contesto culturale in cui maturano gli eventi storici, mi sembra opportuno ricordare come, per secoli, le cristianissime monarchie europee hanno alimentato l’antisemitismo e perseguitato gli ebrei con il sostegno oscurantista della Chiesa cattolica, formando così l’humus sul quale hanno attecchito le perverse teorie razziali naziste; l’humus culturale svolge sempre e comunque un ruolo significativo per giustificare la politica delle classi dominanti e ottenere il consenso dei cittadini. Alla stessa stregua, per capire le logiche insite nell’impresa sionista volta a creare una patria per tutti gli ebrei del mondo, è indispensabile ricordare l’orizzonte ben più ampio in cui il progetto sionista è nato, quello dell’Europa degli Stati nazione e del colonialismo, un’Europa imbevuta del senso della propria superiorità rispetto ai popoli considerati inferiori. Ebbene, tali logiche condizionano tutt’ora non solo i rapporti fra israeliani e palestinesi, bensì fra gli israeliani ashkenaziti, ossia bianchi e di origine europea che compongono l’establishment di Israele e gli israeliani più scuri di pelle provenienti dai paesi arabi. Inoltre, è bene ricordare che lungi dall’appartenere ad un utopico Occidente, Israele fa parte integrante del Medio Oriente sia per la sua collocazione geografica sia per la sua composizione demografica. Infatti, la sua popolazione è composta per il 20% da palestinesi (musulmani e cristiani) e per circa il 50% da ebrei provenienti dai paesi arabi; nei territori occupati vivono altri 5 milioni di arabi e, in Giordania, i palestinesi sono il 40% della popolazione.
Avrete notato che, accennando alle radici storiche a culturali della questione palestinese, ho menzionato l’impresa sionista e il progetto sionista, ma non il sionismo come tale. Ho usato cioè il linguaggio delle vittime del sionismo, dei palestinesi in primo luogo, ma anche degli ebrei provenienti dai paesi arabi dei quali i media e i politici occidentali non parlano mai; allo stesso modo evitano con cura di parlare del progetto sionista, preferendogli il più generico e astratto sionismo. Così facendo si evita di toccare argomenti delicati come, per esempio, precisare quali sono i confini dello Stato di Israele oppure che cosa intenda Netanyahu quando esige che Israele sia riconosciuto come stato ebraico. Invece, parlare del progetto sionista significa capire perché i palestinesi sono stati cacciati dalla loro terra, perché nel 1948 dopo la decisione dell’ONU di spartire la Palestina le bande sioniste sono partite alla conquista di territori a loro non assegnati e hanno subito raso al suolo 400 villaggi palestinesi, perché i governi israeliani continuano ad impossessarsi di parti sempre più estese dei TO, perché impediscono ai palestinesi di accedere alle falde acquifere, perché li affamano impedendo loro di lavorare, perché hanno tagliato oltre un milione dei loro ulivi, perché versano rifiuti anche radioattivi sul loro territorio e via elencando; senza contare le distruzioni di case, le punizioni collettive, le uccisioni mirate, i bombardamenti, le infinite violazioni del diritto internazionale.
Dunque stiamo parlando del progetto sionista. Da quando è formalmente nato, ossia dal primo congresso sionista mondiale del 1898 a oggi, tale progetto ha conosciuto diverse versioni, tutte però identiche su due punti: il primo è la conquista della maggiore parte possibile della Palestina mandataria (chiamata terra promessa con la solita ginnastica perversa fra realpolitik e miti biblici), o con l’annessione pura e semplice come nel caso di Gerusalemme Est e delle alture del Golan, oppure esercitando varie modalità di controllo, da quelle proprie di ogni occupazione (disciplinate dal diritto internazionale, ma che i governi israeliani violano sistematicamente) a forme di controllo insolite, ma rispondenti ad un’annessione strisciante come la costruzione, in territorio palestinese, di strade riservate alle auto con targa israeliana; strade che servono ai coloni per accedere ai loro insediamenti, ma interrompono la continuità territoriale del futuro stato palestinese (ormai diventato una favola) rendendo impossibile ogni gestione unitaria e razionale del territorio. Per non parlare del muro della vergogna condannato dalla Corte dell’Aja mentre la Corte Suprema d’Israele ha giudicato illegale la parte edificata in territorio occupato. Questi sono altrettanti esempi delle radici storico-politiche della questione palestinese.
Il secondo punto fermo che ritroviamo in tutte le versioni del progetto sionista consiste in ciò che alcuni storici israeliani chiamano pulizia etnica[1], ovvero l’espulsione dei non ebrei dalla Terra d’Israele (così i sionisti chiamano il loro stato) che dev’essere ebraica. Ebraica quanto l’Inghilterra è inglese, affermò Weizman, primo presidente dello Stato d’Israele. E Netanyahu ne fa una rivendicazione politica esigendo che Israele sia riconosciuto come stato ebraico.
Chi non aveva peli sulla lingua a questo proposito era Golda Meir, laburista, primo ministro di Israele dal 69 al 74 che dichiarò: Non ci sono palestinesi. Non è come se ci fosse un popolo palestinese in Palestina che si considera un popolo e come se noi fossimo venuti a buttarlo fuori e a prendere il suo paese. Non esistono.[2]
Ciò a conferma dello slogan fondante del progetto sionista: Un popolo senza terra per una terra senza popolo. In altre parole il popolo palestinese va negato nella sua esistenza o espulso.
Qui faccio un inciso di carattere personale che contribuisce a spiegare la mia visione della questione mediorientale, alquanto diversa da quella ufficiale sionista pedissequamente ripetuta dai nostri media.
Sono nata in Egitto in una famiglia di origine ebraica. La mia famiglia paterna era fuggita dalla Spagna a causa dell’Inquisizione e, dopo essere rimasta per alcune generazioni a Livorno, si era stabilita definitivamente ad Alessandria d’Egitto. I miei consideravano l’ebraismo una religione e non certo un popolo o una razza, ma, non volendo negare la loro ascendenza, si dicevano di origine cultuale ebraica. Per noi che vivevamo in Egitto, era chiaro che lo slogan Un popolo senza terra per una terra senza popolo costituiva una doppia impostura. Mio nonno mi aveva spiegato che Theodor Herzl – autore nel 1876 de “Lo Stato ebraico” e ideatore del progetto sionista – era un miscredente come lui e che il popolo ebraico nel cui nome diceva di parlare non esisteva: si trattava di un sotterfugio inventato per potere accampare il diritto di creare uno Stato. La moltitudine di comunità ebraiche sparse per il mondo non formavano di certo un popolo – mi diceva – poiché non avevano nulla in comune al di fuori della religione. E infatti l’espressione popolo ebraico si trova soltanto nell’Antico Testamento e non risulta che nessuno l’abbia mai usata, se non in senso biblico, fino alla nascita del progetto sionista alla fine dell’800. L’inganno di Herzl stava dunque nell’avere contrabbandato, con un acrobazia storica, un mito biblico per una realtà vivente; mentre la terra senza popolo, la Palestina, lo aveva sì un popolo, altrimenti chi produceva le arance di Giaffa e l’olio d’oliva di Nablus che il nonno ci portava al ritorno dei suoi frequenti viaggi di affari in Palestina? E commentava: questi poveri ashkenaziti, dopo tante sofferenze in Europa, non capiscono che se continuano a prendersi dei pezzi di Palestina con l’aiuto degli inglesi e a fare finta che i palestinesi non esistono finiranno per creare lì il più grande ghetto della storia. Oggi penso con quale gioia avrebbe letto L’invenzione del popolo ebraico[3] dello storico israeliano Shlomo Sand, professore all’Università di Tel Aviv; trattasi di una rigorosa documentazione che smantella il mito nazionalista del popolo ebraico e di una formidabile polemica contro la pretesa sionista secondo la quale Israele ha il diritto morale di definirsi uno stato esplicitamente ed esclusivamente ebreo nel quale i cittadini musulmani e cristiani (20%) vengono discriminati. Sand scrive: È vero che esiste un “popolo ebraico” omogeneo, costretto all’esilio dai Romani nel primo secolo, un gruppo etnico la cui purezza è sopravvissuta a due millenni, una nazione finalmente tornata nella sua patria perduta? Nulla di tutto ciò: in realtà, gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni del Medioriente e dell’Europa orientale.
Dunque per realizzare il progetto sionista di stampo nazionalista era necessario trasformare tutte quante le comunità israelitiche del mondo in un unico popolo; progetto assai anomalo visto che di solito sono i popoli a creare gli stati, ma nel caso di Israele è lo stato che crea un popolo, non solo in senso metaforico, ma letteralmente, nel senso che pianifica e organizza il trapianto di popolazioni risiedenti in varie parti del mondo e, per quanto possibile, fa loro assumere una identità diversa, quella del nuovo ebreo, dell’israeliano moderno e sicuro perché non più minacciato di persecuzioni, però sempre circondato da nemici i quali illustrano bene lo scontro di civiltà: da un lato gli ebrei europei moderni e democratici, dall’altro i palestinesi arretrati e terroristi. Ancora oggi la cultura dominante in Israele è impregnata di questi binarismi letali di selvaggi contro persone civili, est contro ovest, arabo contro ebreo.
Però c’è un elemento di forte disturbo in questa narrativa tutta europea di un unico popolo omogeneo, sempre e ovunque perseguitato, che anela al ritorno alla terra promessa. Mi ci dilungo perché è fondamentale per capire il passato e, mi auguro, per costruire un futuro di pace fra israeliani e arabi. Questo elemento di disturbo sono gli arabi di religione ebraica, un milione circa di persone appartenenti a quell’antica civiltà giudeo-islamica che tanti letterati, filosofi, medici, uomini di stato ha dato al mondo e la cui storia è stata ben diversa da quella che l’Europa riservò ai propri ebrei; ebbene essi sono praticamente assenti nella storiografia ebraica ufficiale ed erano ignorati persino dal fondatore del sionismo. Pare infatti che Herzl non conoscesse neppure la parola sefardita. Tale ignoranza è ascrivibile all’humus culturale di cui dicevo prima, ovvero alla nascita del sionismo in piena epoca coloniale e l’estensione a tutti gli arabi, anche a quelli di religione ebraica del disprezzo che i dirigenti sionisti nutrivano per i palestinesi, come facevano tutte le potenze occupanti rispetto ai popoli che colonizzavano. Ben Gurion considerava sia i palestinesi che gli ebrei arabi human dust, polvere di uomini, ma, nonostante ciò, per lui un ebreo era sempre un ebreo tant’è vero che sosteneva:
Perfino l’immigrante del nord Africa, che sembra un selvaggio, che non ha mai letto un libro in vita sua, neanche un libro sacro, e non sa neanche dire le sue preghiere, consciamente o no ha dentro un patrimonio spirituale di migliaia di anni[…][4]
Perché gli ebrei orientali disturbavano fortemente il progetto sionista? Perché pur essendo indispensabili alla sua realizzazione rappresentavano una minaccia, anzi due: la prima era la levantinizzazione di Israele vista come una iattura dalla classe dirigente bianca ed europea e la seconda era la pericolosa intesa con i palestinesi resa più che possibile sia per le loro affinità culturali, sia perché entrambi vittime del progetto sionista.
Gli echi delle vicende dolorose vissute degli arabi ebrei, in balìa delle politiche di conquiste territoriali dei dirigenti sionisti, non sono arrivati in Europa perché era necessario mantenere viva qui anche più che altrove la metanarrativa del sionismo salvifico, della ricomposizione del popolo eletto, della speranza di un futuro radioso per tutti gli ebrei del mondo, altrimenti destinati a essere comunque e ovunque discriminati e perseguitati. Una metanarrativa indispensabile per convincere quanti più ebrei fosse possibile a sostenere Israele sia politicamente sia con le loro donazioni.
Dunque, una volta conquistati i nuovi territori e ripuliti il più possibile dai loro abitanti, si poneva il problema del loro popolamento, il che significava far arrivare altri ebrei e ciò anche in vista delle nuove guerre rese necessarie per l’ulteriore espansione territoriale, anch’essa prevista dal progetto sionista. L’immigrazione dall’Europa essendo ormai pressoché esaurita, l’attenzione si rivolse alle comunità israelitiche orientali, composte dagli arabi di religione ebraica e dagli ebrei sefarditi, coloro che la cattolicissima Isabella di Castiglia cacciò dalla Spagna nel 1500; un gran numero di essi trovò rifugio nei paesi arabi della riva sud del Mediterraneo, dove ingrossarono le comunità israelitiche che da tempo immemorabile vivevano in armonia con le popolazioni musulmane locali. Ne condividevano la lingua e la cultura, il cibo, la musica e perfino taluni riti religiosi, a cominciare dalla circoncisione, in Europa fonte di sospetto e di repulsione. In comune avevano anche talune festività e veneravano gli stessi santoni come il mistico Sidi Abu Hasira la cui tomba, in Egitto, è rimasta un luogo di pellegrinaggio per i fedeli di entrambe le religioni. I nomi Moussa (Mosè) e Issâ (Gesù) erano comuni anche fra i musulmani. Talune di queste comunità erano fiorenti, altre povere come il resto della popolazione. Seppure nel corso dei secoli la convivenza non fu sempre esemplare e non mancarono discriminazioni né isolati casi di violenza, gli arabi di religione ebraica non conobbero persecuzioni, ghetti o pogrom. Lo conferma l’inesistenza di parole dal significato equivalente nella lingua araba. Mentre nella cultura popolare dei paesi cattolici gli ebrei venivano percepiti come “perfidi” o “popolo deicida”, la cultura popolare araba è priva di epiteti negativi nei loro riguardi.
Che ebrei e musulmani fossero legati da un passato e da una sorte comune lo afferma in termini autorevoli il gran rabbino di Alessandria Moise Ventura nel 1942 quando l’immigrazione ebraica in Palestina andava intensificandosi; disse il noto studioso ed esponente dell’ebraismo egiziano:
Dopo il deplorevole fallimento della civiltà occidentale, tocca di nuovo all’Oriente assumere una parte importante nella vita culturale della nazioni. L’oriente significa Egitto, Palestina, Siria, Iraq; più precisamente, i semiti – ebrei e arabi – sono di nuovo chiamati insieme a svolgere un ruolo vitale sulla scena della storia…Qualsiasi persona sana di mente deve riconoscere che oggi i nemici degli ebrei sono anche i nemici degli arabi – cioè i nemici della civiltà”.[5]
Dal canto suo il rettore dell’università Al Azhar del Cairo, Sheikh al-Maraghi scrisse del pericolo che il sionismo stava preparando per tutte le comunità ebraiche del Medio Oriente, poiché la conquista di terre musulmane in Palestina avrebbe finito con il coinvolgere gli ebrei iracheni ed egiziani nella generale ostilità antiebraica del mondo islamico.
Infatti, con l’inizio dell’impresa sionista la convivenza fra ebrei e musulmani si incrinò. Nei paesi arabi si andavano sviluppando i movimenti nazionalisti e, quando si seppe che degli ebrei europei si stavano insediando nei luoghi sacri dell’Islam con l’aiuto della potenza coloniale britannica, alle comunità ebraiche venne chiesto per chi intendevano parteggiare. In Egitto come in altri paesi arabi erano all’opera agenti del Mossad per convincere gli ebrei, con le buone o con le cattive, a partire per Israele cui dovevano lealtà per il fatto che appartenevano al popolo ebraico. Ricevettero un’accoglienza assai tiepida. Per quelle comunità israelitiche il secolare attaccamento a Gerusalemme era simile a quello che provavano i cristiani e i musulmani per quegli stessi luoghi anche ad essi sacri: un attaccamento puramente religioso; la Palestina non rappresentava un mito come per gli ebrei europei anche perché bastava prendere il treno delle 9.45 per andarci, come faceva spesso mio nonno. Io mi trovavo ad Alessandria quando ad un agente del Mossad scoppiò in tasca la bomba che si apprestava a mettere in un cinema molto frequentato dagli ebrei par fomentare un clima di terrore che li spingesse ad abbandonare l’Egitto. Lo stesso metodo fu adottato a Baghdad dove c’era una comunità israelitica fiorente. I giovani ebrei aderivano in larga parte al partito comunista e l’Alleanza comunista ebraica anti-sionista vendeva 6.000 copie del suo quotidiano a Baghdad.[6] Verso la fine di agosto 1942, Moshe Dayan arrivò a Baghdad con tre valigie piene di armi.
Scrisse:
Le armi consistevano di granate, le note bombe Mills e un altro tipo chiamato “bombe polacche” e fatte nelle nostre officine. Esitavamo a spedirle perché se fossero state trovate dagli investigatori sarebbe stato facile risalire alle loro origini.[7]
Emigrarono in massa dal Marocco, dall’Egitto, dall’Irak e dallo Yemen. Fin dal primo giorno del loro arrivo furono oggetto di disprezzo e di discriminazione. Erano arabi e andavano trattati come tali. Ecco come un ebreo sefardita descrive la loro sorte in Israele: Come conseguenza dell’immigrazione di massa in Israele e delle politiche attuate dal movimento sionista e dallo Stato di Israele, le comunità ebraiche sefardite… sono state totalmente sradicate. Hanno perso il loro paese, le loro proprietà, il loro folklore, le loro usanze e la loro lingua – in altre parole l’intero loro patrimonio culturale. Hanno perso il loro status economico e sociale e la somma totale di tali deprivazioni ha condotto a una perdita di identità e di auto-stima. Vengono infarcite delle forme più feroci di nazionalismo europeo e degli aspetti più grossolani dell’americanismo… I paesi arabi hanno prodotto un grandissimo numero di medici, ingegneri, scrittori, docenti, funzionari pubblici di alto livello ecc. fra gli ebrei e in Europa e in America gli “orientali” non hanno avuto problemi. Chiediamo al governo israeliano quanti figli di questi ebrei, nati e educati in Israele negli ultimi vent’anni hanno conseguito uno status simile.[8]
Negli ultimi decenni sono usciti numerosi libri ad opera di ebrei israeliani di origine araba. Molti sono stati tradotti in inglese e, anche se in numero minore, in francese. In italiano va segnalato Ebrei arabi: terzo incomodo?[9] Libri di analisi, di denuncia delle ingiustizie e delle discriminazioni subite, ma anche – e mi ricollego alla questione palestinese – dell’intransigenza con la quale i governi israeliani hanno sempre escluso i cittadini ebrei provenienti dai paesi arabi da ogni colloquio e trattativa di pace. Eppure, il formidabile desiderio di pace degli ebrei orientali veniva manifestato nelle dichiarazioni pacifiste delle loro élite, le quali predicavano il “coraggio di fare la pace”, reclamavano la partecipazione degli orientali “ponte naturale per l’intesa col mondo arabo” alle trattative.
Recentemente, un gruppo di loro scrisse ai giovani che occupavano piazza Tahrir al Cairo: ci rivolgiamo a voi, nostri coetanei nel mondo arabo e musulmano… Siamo parte della storia religiosa, culturale, linguistica del Medioriente e del Nordafrica. La cultura del mondo islamico, i legami multi generazionali e l’identificazione con questa regione sono componenti essenziali della nostra identità. Seguivano espressioni di solidarietà con i palestinesi di Israele e dei territori occupati.
Non dobbiamo dimenticare che il progetto sionista, ovvero la radice storica della questione palestinese, non avendo ancora raggiunto il suo obiettivo dichiarato, non si può considerare compiuto. Infatti, non è un caso che nessun dirigente israeliano se ne sia mai dissociato, tranne i pochissimi aderenti all’ininfluente partito comunista e al piccolo partito Matzpen che anni addietro coniò lo slogan Sionismo o pace, la scelta è vostra. Fra le rare voci dell’antisionismo israeliano la più autorevole e tenace è stata quella di Israel Shahak, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, professore universitario e presidente della lega israeliana per i diritti dell’uomo. Shahak denunciò le discriminazioni cui erano sottoposti per legge i cittadini palestinesi di Israele spiegando come ciò fosse la conseguenza inevitabile della natura stessa dell’ideologia sionista ispirata al mito biblico del popolo eletto e della terra promessa. Shahak distingueva nettamente le critiche al sionismo provenienti dall’occidente dall’antisionismo in paesi come la Russia e la Polonia. che talvolta copriva un antisemitismo sempre vivo.
Essere antisionisti è raro e difficile anche da noi. Si viene subito bollati di antisemitismo, accusa infamante che chiude la bocca ai più. A questo proposito scrive il rabbino Moshe Menuhim (padre del grande violinista Yehudi): la macchina sionista diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori.[10]
Purtroppo duole constatare che anche il nostro Presidente della Repubblica ha più volte affermato che l’antisionismo è una forma di antisemitismo. Forse non conosce una delle pagine più nobili dell’ebraismo italiano: l’opposizione recisa al progetto sionista, già dal suo inizio, manifestata dalle comunità ebraiche che riaffermavano il loro indiviso senso di appartenenza nazionale. Nel luglio 1897 il rabbino Flaminio Servi, alla guida dei rabbini italiani opposti al sionismo, scriveva che: ricostituire il popolo ebreo come entità nazionale, non solo era antipatriottico, ma andava contro i superiori ideali del messianismo giudaico. In seguito affermò che il sionismo favorisce l’antisemitismo, perché accredita l’accusa mossa agli ebrei di dover dividere la loro fedeltà e di essere inassimilabili[11].
Per non offuscare l’immagine del progetto sionista era quindi necessario tacitare le numerose voci discordanti e di condanna, anche e soprattutto quelle ebraiche e bisognava, a maggior ragione, occultare per quanto possibile il suo agire più crudele. I nostri politici e i nostri media si sono adeguati a tale politica e, ancora oggi, se a volte vengono condannati gli eccessi dei governi israeliani, ci si guarda bene dal collocarli nella logica del progetto sionista di cui fanno organicamente parte.
Ebbene, al contrario, io ritengo che tali critiche e tali condanne vadano rese note a voce alta perché il progetto sionista e i suoi effetti criminali non riguardano solamente gli ebrei, ma chiunque abbia a cuore i diritti umani e nazionali del popolo palestinese, la legalità internazionale, la pace nel martoriato Medio Oriente. E riguardano altresì lo stato di Israele la cui sicurezza sarà garantita quando accetterà di diventare la Repubblica d’Israele, una vera res publica di cittadini uguali davanti alla legge, una legge che sia però uguale per tutti.
- Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi editore ↵
- Sunday Times, 15 giugno 1969 ↵
- Shlomo Sand L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, 2011 ↵
- Tom Segev, 1949: The First Israelis, Henry Holt & Co. Inc, New York 1986 ↵
- Ammiel Alcalay, After Jews and Arabs, remaking Levantine Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1993 ↵
- Rachel Shabi, We look like the enemy, Walker & Co, 2008, New York ↵
- Moshe Dayan, Story of my life, Weidenfeld and Nicolson, London 1976, in Marion Woolfson, Prophets in Babylon, Jews in the Arab World, Faber & Faber, London, 1980. ↵
- Ezra Ben Hakham Eliyahu, Middle East International, March 1978, in Woolfson, op.cit. ↵
- Susanna Sinigaglia, a cura di, Ebrei arabi: terzo incomodo? Zambon, 2012 ↵
- Moshe Menuhin, Jewish Critics of Zionism and the Stifling and Smearing of a Dissenter, Association of Arab-American University Graduates, Information Papers No.16, 1976. ↵
- Andrew M. Canepa, in Comunità, ed.174, 1975 ↵