Articolo scritto da Mimma Rossanda per la Rivista del Manifesto n. 13, gennaio 2001.
Sono tornata in Palestina alla metà di novembre, dopo cinque anni di assenza. Nonostante la nostalgia, salute e impegni mi trattenevano a Roma, e comunque, dagli accordi di Oslo in poi, non ero più motivata. Pensavo: i palestinesi hanno fatto la loro scelta, e se anche questa non mi convince, hanno diritto e magari buone ragioni per averla fatta, auguri di cuore, spero di sbagliarmi. Purtroppo non mi sbagliavo o almeno non interamente.
Non mi sbagliavo nel senso che il processo di pace si è trascinato per sette anni tra accuse e rinvii, e nel frattempo i governi israeliani hanno lavorato a creare situazioni di fatto compiuto, in barba agli accordi, consolidando e ampliando l’occupazione, mentre gli amici occidentali si beavano delle parole di pace. Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gaza (definite aree C negli accordi) si sono ampliati e moltiplicati, si è estesa una rete stradale diretta a collegarli con Israele e fra di loro, mentre i percorsi tra le città passate al controllo palestinese (aree A) erano sempre più disagiati. Nelle aree intermedie (aree B) il controllo era di fatto di Israele. Si è così progressivamente estesa la linea di confine e d’attrito tra le due popolazioni, solidamente tenuta dall’esercito israeliano e dai coloni armati, di forza preponderante rispetto alla polizia palestinese. Gli attriti sanguinosi in realtà non sono mai cessati, e, benché i giornali israeliani siano pieni di lagnanze sulla insicurezza dei propri cittadini, gli attacchi sono stati, in grande maggioranza e nel silenzio della stampa europea, condotti da coloni o soldati ai danni di palestinesi nelle aree di attrito. Dove, come a Hebron, era stata introdotta una ‘forza d’interposizione’ questa non aveva alcun potere effettivo. Secondo il Children defence international (Cdi) solo a Hebron e solo nel 1998 (due anni prima della nuova sollevazione) sono state più di 100 le incursioni di coloni e soldati, alcune con esiti tragici. Inoltre le questioni di fondo dell’acqua e dello statuto di Gerusalemme, per citare i problemi più grossi sul tappeto, restavano irrisolte.
Mi sbagliavo invece sottovalutando gli effetti politici del riconoscimento formale di un popolo negato per mezzo secolo dal progetto sionista, del suo controllo su alcune città, dell’occasione non sprecata di porre basi – benché fragili – per la nascita di uno Stato palestinese. Ci sono ministeri che hanno lavorato bene, specie nei campi praticamente accessibili, come educazione, affari sociali e sanità; si sono moltiplicati i centri di studio delle donne, le istituzioni per la difesa dei diritti; studiosi si cimentano nello studio di progetti, i legami con le organizzazioni non governative sono diventati permanenti; se non si è realizzato il massiccio piano di finanziamenti lasciato intravedere all’inizio dagli organismi finanziari internazionali, e se errori seri ed episodi di corruzione ci sono stati da parte palestinese, tuttavia alcune infrastrutture sono state realizzate (l’aeroporto di Gaza, edifici pubblici, sezioni ospedaliere moderne, nuove aree universitarie). Uffici dell’Organizzazione mondiale della sanità, boicottati o controllati prima da Israele, si sono consolidati, il CDI ha la sua sezione palestinese, e, col rapporto consegnato alla inviata dell’ONU per i diritti umani Mary Robinson sulle uccisioni e ferite di minorenni, ha provocato la sua protesta indignata e ‘shockata’. Professionisti, docenti, esponenti politici palestinesi hanno intensificato i loro rapporti con i corrispondenti europei, e dei paesi arabi in particolare, con regolare presenza in incontri internazionali. Resta la grave sofferenza nell’economia e nel lavoro, campi nei quali l’occupazione israeliana ha creato vincoli così stretti da impedire azioni incisive; quindi disoccupazione, povertà e disuguaglianze sociali pesano su umori e speranze. Ma qualche cosa si muoveva.
È probabile che la destra israeliana, dotata di un cospicuo potere di ricatto anche sui governi laburisti, abbia stimolato il “partito dei coloni” e altri gruppi oltranzisti a intensificare, man mano che si rendeva visibile la pur faticosa crescita dell’autonomia palestinese, le provocazioni, culminate nella famosa visita di Ariel Sharon alla spianata delle moschee. L’intifada di al-Aqsa, esplosa dopo la sanguinosa repressione della protesta palestinese, potrebbe essere stata provocata e ricercata dalla destra come pretesto per mettere in atto reazioni violente, trascinare i palestinesi esasperati a scegliere essi stessi la via delle armi, nonostante la gigantesca sproporzione di forze, e tentare così di giustificare un’azione militare diretta all’annessione dei territori; sarebbe così morta sul nascere la stessa autonomia palestinese. Mentre ero laggiù questa ipotesi non sembrava fantasiosa. Tuttavia le proteste arabe – forse per la potenza simbolica di Gerusalemme tra i loro popoli irrequieti, forse per timore dell’ulteriore crescita di egemonia israeliana nell’area – furono più unitarie e inquietanti del previsto per Israele. Il progetto sembrava rallentato alla mia partenza, mentre arrivavano numerosi in Palestina i testimoni della stampa estera e di associazioni europee, e la stessa economia israeliana accusava qualche colpo.
Le contraddizioni insite in questa situazione erano iscritte nella nuova immagine che ho registrato della Palestina nello scorso novembre. Strade in parte nuove nel percorso tra l’aeroporto di Tel Aviv e Gerusalemme. Gli insediamenti intorno alla città contesa avevano divorato vaste parti della incantevole campagna. Se i ricordi del fascino della vecchia città trovavano consolazione nei quartieri vicini alla Porta di Damasco, via Salah-ed-Din e fino alla salita di Sheikh-el-Jarrah, poco cambiati, bastava avviarsi a nord verso Ramallah, teoricamente chiusa dall’assedio, per entrare in un paesaggio mutato. La superstrada proveniente dagli insediamenti del Nord tagliava la zona delle ville dei consolati, rasentando una nuova area sportiva, un parco intitolato alla “Riunificazione di Gerusalemme” e nuovi quartieri. Più a nord ancora, cantieri sempre più estesi accanto ai sobborghi e campi di rifugiati palestinesi, fino ad aree di terra rossa sconvolta dalle ruspe e sassosa, senza quasi più ulivi, con vista su insediamenti ampliati, al di qua di una campagna ormai lontana, evocata dalla memoria.
Per sentieri scoscesi si arrivava lentamente a Ramallah, aggirando il posto di blocco sulla strada asfaltata, sobbalzando nei pulmini-service carichi di viaggiatori più rassegnati che tranquilli. Ma a Ramallah si trovava una città palestinese; pur sapendo che era attaccabile – e attaccata la sera e la notte – da terra e dall’aria, non aveva l’aspetto della città occupata. Piena di bandiere e targhe palestinesi su edifici e veicoli pubblici, con pochi e non invadenti poliziotti palestinesi, caotica ma piena di gente pronta a indicare la strada, un monumento bruttino con quattro leoni donati dalle quattro famiglie di notabili palestinesi, una periferia in via di espansione con borgate residenziali gradevoli alte sulle colline un po’ spelacchiate. Bel panorama, peccato che qui arrivassero ogni tanto i colpi sparati da coloni o soldati da 1 o 2 km di distanza.
A Hebron era peggio; vi si arrivava per sentieri da capre perché la strada normale era ‘msakkara’, chiusa dal posto di blocco, gridavano le poche donne circolanti. Ci siamo arrivati rinunciando a Betlemme e Beit Jala dove nemmeno la macchina delle Nazioni Unite era ammessa e l’aggiramento impraticabile. A Betlemme le feste per Natale sono state cancellate dalle autorità cristiane, salvo la stretta liturgia religiosa. Dentro Hebron la frontiera tra le zone H1 e H2, previste dagli accordi che hanno accettato di mantenere l’insediamento ebraico nella città vecchia, si presentava nuda e minacciosa, una breve strada in terra di nessuno era percorsa da scolaretti spaventati perfino dalla nostra presenza. A un passo, nel cuneo di zona israeliana, al mattino era il deserto, per il pomeriggio erano attesi i soldati mandati a difendere pochi coloni: andavano anche sul tetto di una casetta abitata da una tenace donna palestinese, i cui figli cresciuti erano ben sistemati altrove. Sul terrazzo, i soldati avevano disposto nidi di sacchetti di sabbia per meglio sparare sui dintorni. Ma sulle case palestinesi arrivavano la sera anche colpi di mezzi anticarro, perforando tubi di ferro, staccando cornicioni, rompendo vetri: una sera hanno spaccato la testa a un padrone di casa andato incautamente a rispondere al telefono.
Nella zona della città vecchia dove vivono armatissimi 400 coloni, erano sotto rigido coprifuoco fin dall’inizio della nuova intifada 20.000 (chi dice 40.000) palestinesi senza più accesso a scuole o ambulatori. Un altoparlante stava annunciando il permesso di andare per una o due ore a un punto medico di emergenza aperto dall’UNRWA in una scuola chiusa. I visi dei ragazzi, delle donne e degli anziani in coda parlavano di miseria e tensione. Non lontano era un ambulatorio regolare UNRWA, con residui di gas lacrimogeno, donne incinte che se ne riparavano in fretta, per timore di abortire, un neonato dal respiro ancora disturbato (vari neonati sono ammalati o morti per questo). Nell’ospedale al-Ahli, moderno, alla ricezione una giovane con velo e computer sotto il ritratto di Arafat e manifesti dell’ intifada ; dentro, vari feriti, tra cui una ragazzina in risveglio da un coma grave, con il cranio fratturato da un proiettile “di gomma”, in realtà d’acciaio rivestito di gomma, di quelli che usati con malizia hanno ucciso o accecato vari bambini. La malizia non stava nella cattiveria di singoli soldati, ma negli ordini ricevuti, documentati da una giornalista israeliana di “Haaretz”, Amira Hass, nell’intervista a un tiratore scelto dell’esercito. Gli ordini erano di sparare anche ai ragazzi, purché di almeno 12 anni e con l’aria pericolosa. L’analisi delle ferite e le circostanze delle uccisioni descritte da varie fonti hanno confermato la volontà di sparare per uccidere. Il Cdi ha pubblicato sul suo sito internet una lista dettagliata di 95 minori uccisi tra il 28 settembre e il 30 novembre 2000 (30 sotto i 15 anni). Ci sono liste di feriti sotto i 14 anni, quasi 500 a Gaza, più di 200 in Cisgiordania.
Nablus e tutto il Nord della Cisgiordania erano inaccessibili per sparatorie anche diurne, che hanno crivellato tra l’altro una macchina dell’Onu. A Gaza fu ammessa solo la mia compagna di viaggio in quanto giornalista, e anche lei solo nella metà palestinese, mentre quella degli insediamenti controllata da coloni e soldati era zona di guerra. Così anche il nuovo ospedale donato dall’UNRWA a Khan Yunis era al momento off limits. I rifornimenti di alimenti, farmaci, carburanti erano bloccati alla frontiera con l’Egitto, tenuta sotto tiro dai cecchini israeliani.
A Gaza volavano sassi, invettive e pianti per gli shahid (i martiri), qualche sparo, mentre procedeva una vita quotidiana testarda, come in tutti i territori occupati, impegnati in una sollevazione ‘per l’indipendenza’, sfidati a una guerra che non potrebbero vincere e i più saggi non vogliono, per ora senza guerra e senza cedimenti.
Domani chissà.