7 Palestina: un popolo senza diritti

a cura di Gennaro Panozzo - ANPI Regionale Lombardia

La “tragedia” dei palestinesi, cui la Sezione Anpi Seprio ha deciso di dedicare questo incontro di approfondimento, affonda le sue radici nella notte dei tempi ed è perpetuata da quel rimanere prigionieri del passato che ha impedito e impedisce alle popolazioni ed agli Stati direttamente coinvolti (in primo luogo palestinesi e israeliani, in secondo luogo i paesi arabi vicini e infine “gli azionisti di maggioranza dell’ONU”) di giungere alla stipula di quel Trattato di pace che concretizzi finalmente la Risoluzione ONU n. 181 del 29 novembre 1947 “due Stati per due Popoli” con una spartizione del territorio: 56% e 44%.

I relatori che mi hanno preceduto hanno ricostruito la storia di questa tragedia, addossandone tutte le responsabilità al “sionismo” che nel corso degli anni che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, ha finito per connotare la politica dello Stato di Israele, al punto da spingere i suoi governanti a costruire il “Muro della vergogna” ed a mettere in atto una serie di azioni finalizzate a cacciare i palestinesi anche da quel lembo di terra finora “scampato” all’invasione Israeliana, oltre che dalla stessa Israele. Questa ricostruzione della vicenda non mi trova d’accordo, non per la giusta denuncia che condivido del ruolo assolutamente negativo giocato dal “sionismo” la cui forza distruttiva non è inferiore a quella del fondamentalismo islamico, ma per la sua “unilateralità” e per l’assenza di ogni riferimento alle responsabilità degli altri attori coinvolti: i palestinesi tutt’ora divisi tra trattativisti e guerrafondai, i paesi arabi che ancora hanno come obiettivo la distruzione dello Stato di Israele, le grandi potenze e la stessa Unione Europea, che non hanno saputo o voluto spegnere dall’inizio la miccia che ha originato ed esteso un conflitto che nel corso degli ultimi 70 anni ha portato dalla pacifica convivenza tra arabi e israeliani, alla situazione attuale.

Nel censimento del 1920 su un totale di 752.048 abitanti la Palestina, gli ebrei erano 83.790. Nel 1947 gli ebrei residenti sono diventati 610.000 e questo numero è andato mano a mano crescendo dopo la costituzione dello Stato di Israele e anche a seguito della politica dei rimpatri degli ebrei intrapresa dall’URSS. Oggi lo Stato d’Israele (nato il 15 novembre 1948) occupa più o meno il 90% del territorio palestinese al di qua del fiume Giordano.

Prima di chiederci cosa fare oggi per restituire ai palestinesi dignità e diritti, dobbiamo interrogare il passato.

Io vedo almeno tre responsabilità fondamentali:

l’attendismo colpevole dei paesi arabi di fronte alla risoluzione 181 dell’Onu. Un attendismo determinato dal rifiuto della sostanza di quella risoluzione con riferimento sia alla nascita dello Stato di Israele che alla nascita di uno Stato Palestinese. Gli arabi non volevano che in mezzo a loro nascesse uno Stato “tanto diverso da loro, per tradizioni, cultura, religione, sponsorizzazioni internazionali, etc.). Ma non volevano neppure che i loro “cugini” palestinesi avessero uno Stato proprio, che probabilmente ne avrebbe impedito un utilizzo in chiave anti-israeliana. Anziché spingere i palestinesi all’accettazione “concreta” di quella risoluzione, anziché aiutare i palestinesi a proclamare il loro Stato, li illusero da un lato con la prospettiva di una Palestina tutta per loro se si fosse impedita la creazione di uno Stato “nemico a prescindere” come quello Israeliano, e dall’altro con gli aiuti umanitari, con l’addestramento alla guerra e con la fornitura del materiale bellico che doveva servire a contrastare con la strategia della tensione i nuovi insediamenti ebraici e la costituzione del loro Stato. Quando poi si trattò di affrontare le tre guerre che ci furono con gli israeliani, gli Emirati arabi (Arabia Saudita in testa), il Marocco, la Tunisia, l’Algeria e il Libano se ne tennero fuori e gli altri, sconfitta dopo sconfitta si divisero tra Egitto e Giordania che stipularono la pace e tutti gli altri che invece continuarono e continuano a non riconoscere Israele. Nella cartella che ci è stata consegnata, c’è il lungo elenco dei “soprusi” commessi da Israele contro i palestinesi. Manca l’elenco delle ostilità, degli attentati compiuti dai palestinesi nei confronti degli Ebrei e dei morti a causa di questa guerriglia continua. Non si tratta di misurare la realtà con il bilancino delle azioni ostili reciproche, ma di riflettere sul fatto che dall’odio non può germogliare la pace, ma solo la guerra.

Gli errori compiuti da ambo le parti nei tentativi che sono stati fatti per arrivare a un accordo di pace. La prospettiva di un approdo positivo della Risoluzione dell’ONU (più volte richiamata), ha visto il suo momento di gloria sotto l’amministrazione americana di Bill Clinton. Con gli accordi di Camp David, (settembre 1978 – interlocutori: Clinton, Rabin ed Arafat) venne restituito all’Egitto il Sinai e venne riconosciuta l’autonomia ai palestinesi nella Striscia di Gaza e nella parte della Giordania a Ovest del fiume omonimo. Il Presidente egiziano Sadat, fù la prima vittima: venne assassinato nel 1982. Nel 1993 Rabin ed Arafat si incontrano nuovamente a Washington, dove si riconoscono reciprocamente e avviano il negoziato per la creazione dello Stato di Palestina, che sfocia sei mesi dopo nel famoso accordo di Oslo. Il Presidente Rabin venne assassinato da un israeliano il 4 novembre 1995 nella piazza di Tel Aviv mentre sul palco festeggiava con il movimento Peace Now, i progressi di pace. Il suo successore Shimon Peres (ex capo dell’Istadrhut) – che io ho conosciuto personalmente quando nella FLM mi sono occupato delle Relazioni internazionali), continuò l’opera di Rabin. Nelle elezioni politiche della primavera del 1999, venne eletto Barak, anche Lui Laburista, ma di idee un po’ diverse dai suoi predecessori. L’anno seguente Clinton riconvocò le parti a Wash., ma senza risultati. I colloqui si bloccarono sulla questione dello status di Gerusalemme. Clinton propose allora la divisione della città in due parti: quella Est ai palestinesi e quella Ovest agli israeliani. Ma neppure questa idea riuscì a salvare il negoziato, per l’opposizione di Arafat che voleva Gerusalemme capitale del suo Stato e per l’opposizione di Barak che non aspettava altro per chiudere le porte. Il 16 e 17 ottobre sempre del 2000, a Sharm el-Sheik Clinton convocò un nuovo vertice allargato al Re di Giordania, agli Egiziani e al Presidente dell’Onu, che si concluse senza nessun accordo, anche perché nel frattempo la maggioranza del Knesset aveva approvato la legge che impediva ogni cessione di sovranità di Gerusalemme. Nel gennaio 2002 ci riprovò George Bush senior con la riunione di Toba, dove le parti arrivarono vicinissime a un accordo, ma non riuscirono a concluderlo. Alcuni storici hanno sostenuto che se Arafat avesse accolto la proposta di Clinton su Gerusalemme, forse la vicenda avrebbe preso una piega diversa! È un’ipotesi e come tutte le ipotesi resta tale. Dopo Taba, in Israele cambia la musica nel senso che al governo salgono i falchi e in Palestina gli Islamisti di Hamas il 25/01/2006 vincono le lezioni e mettono in minoranza i seguaci dell’Olp. In Israele la maggioranza della popolazione oggi sostiene la linea dura di chiusura e di ostracismo verso i palestinesi ivi compresi i residenti sul territorio Israeliano. Com’è noto quanto volano i falchi, le colombe si ritirano. E questa è la situazione di oggi.

La terza responsabilità ricade sull’allentata pressione internazionale. Gli americani si sono dedicati all’Afganistan ed all’Irak e oggi guardano alla Siria. I Russi hanno sempre pensato più a rinsaldare i rapporti con i paesi arabi, piuttosto che ad aiutare la causa dei poveri palestinesi. La Cina si occupa dell’Africa. E l’Europa? L’Europa, in quanto figlia dell’economia, è orfana della politica e dunque non esiste. Hanno incaricato della questione Tony Blair, ma nessuno, a cominciare dai diretti interessati se n’è accorto. Ma sui Paesi Europei pesano le pesanti responsabilità che stanno all’origine della tragedia attuale. Sull’Inghilterra in primis e poi sulla Francia, pesa l’eredità delle loro politiche coloniali, della spartizione a tavolino dei territori del medio-oriente e della gestione assolutamente maldestra della vicenda palestinese e Israeliana. Sulla Germania e Italia pesa ancora la colpa delle persecuzioni e dello sterminio, subiti dagli ebrei nel ventennio nazi-fascista. Finchè gli Europei non faranno i conti con questo passato, difficilmente potranno liberarsi dalla “subordinazione” alle scelte di Israele, e dalla pratica “caritatevole” nei confronti dei palestinesi. E infatti noi ci comportiamo come gli altri paesi arabi: aiuti economici e quando andiamo da quelle parti per non far torto a nessuno, e metterci a posto con la coscienza facciamo visita prima agli Israeliani e al Monumento alle vittime dell’Olocausto e poi ai palestinesi dell’Olp, promettendo di far pressioni su Israele: promesse di cui ci dimentichiamo non appena saliti sull’aereo di ritorno. La pace non si può imporre, ma si può sicuramente porre sul tavolo come “condizione sine qua non” per fare o non fare affari insieme! Cosa lo impedisce? Probabilmente il petrolio arabo da un lato, il senso di colpa per la Shoa e i condizionamenti che la potenza economica e finanziaria della Lobby ebraica esercita su una serie di Nazioni, a cominciare dagli Usa, soprattutto alla vigilia delle elezioni politiche.

Concludendo, l’Anpi, per l’esperienza di cui è custode e per la missione che intende esercitare in un Paese, l’Italia che non ha mai fatto seriamente e fino in fondo i conti con il suo passato e per questo “ha assolto tutti” con la conseguenza che se durante il ventennio i fascisti costituivano la maggioranza della popolazione, oggi il loro posto è stato preso dagli a-fascisti, non può che insistere sul valore fondante della democrazia rappresentato dal riconoscimento e dal rispetto dei diritti universali di cittadinanza, di libertà e di dignità (dove dentro c’è il lavoro) per tutti i popoli, della lotta per far prevalere le ragioni della pace su quelle dell’odio e della guerra. Israele sostiene di essere un paese democratico, circondato da una serie di nazioni arabe rette da regimi sottoposti al vincolo del fondamentalismo più o meno aggressivo della religione islamica. Non c’è dubbio che Israele è uno stato democratico, come non c’è dubbio che il suo approccio alla questione palestinese è completamente sbagliato. Non ci si difende dalla “diversità” rappresentata da chi non la pensa come te, che ha tradizioni-costumi e fedi religiose diverse dalle tue, che giustamente reclama il diritto ad avere un suo territorio e un suo Stato: costruendo il Muro della vergogna lungo più di 730 km. Per impedire ai palestinesi ogni contatto con gli ebrei, per rinchiuderli in una sorte di carcere all’aperto come fecero i comunisti della DDR per impedire che i suoi sudditi potessero scegliere di trasferirsi nell’altra parte della Germania. Quel Muro (io l’ho visto dal lato Giordano, non mi sono potuto avvicinare più di tanto, ma sono rimasto a lungo in silenzio a riflettere sulla stupidità umana al tempo della globalizzazione, quando si aprono i mercati, cadono le barriere tra le nazioni e purtroppo c’è ancora qualcuno che pensa di difendere meglio la sua casa chiudendo porte e finestre ai vicini). La mia sofferenza aumentò con la constatazione del fatto che quel monumento all’odio venne deciso e iniziato da Ehud Barak un membro del partito Laburista che sta nell’Internazionale Socialista! Ebbi modo, prima della costruzione di quel Muro di visitare per due volte Israele e una volta di soggiornare nel Kibbuz “Leon Blum” situato proprio sotto le alture del Golan. Da quel kibbuz potevo vedere i cannoni Siriani puntati su di noi. L’offesa chiama sempre la risposta della difesa! Nell’uno e nell’altro caso si sa dove si comincia, ma non si può sapere mai in anticipo dove si va a parare. Nel nostro paese sono in atto una serie di iniziative a carattere umanitario per l’educazione alla Pace, quali “adotta un conflitto”, “percorsi di non violenza”, etc: molti dei quali riferiti ai palestinesi. Queste iniziative vanno continuate e potenziate. Ma non bastano. Noi dobbiamo premere sulle nostre Istituzioni nazionali ed europee, sui nostri Parlamentari in Italia e al Parlamento Europeo, per l’associazione “non solo economica, ma anche politica” di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, Palestina e Israele compresi, alla Comunità Europea, andando oltre gli accordi bilaterali esistenti. Naturalmente questo processo va sviluppato, avendo ben presenti le situazioni diverse esistenti e i percorsi contorti che caratterizzano i tentativi di conquistare quella laicità dello Stato finora negata dal fondamentalismo religioso. Penso a un Piano Europeo, gestito non dai singoli Paesi, ma dalla Comunità sull’esempio del Piano Marshall per la ricostruzione di quei Paesi e per incentivare un utilizzo delle risorse ricavate dalla vendita del petrolio per sviluppare l’istruzione, economia, il lavoro, anziché costruire solo grattacieli, etc. Mi chiedo infine se l’embargo sia uno strumento utilizzabile solo contro i “cattivi” e non anche una leva da usare per aiutare quelli che smarriscono la strada della pacifica convivenza, praticano l’abuso nei confronti dei più deboli e innalzano i Muri della Vergogna, come sta facendo Israele. So bene quanto pesa la lobby ebraica sulla vita politica Americana. So bene quanto pesano i sensi di colpa sulla politica degli Stati e dell’Unione Europea. Ma da qualche parte bisogna pure cominciare se non vogliamo fermarci alla denuncia. Il prossimo anno ci saranno le elezioni per il Parlamento Europeo. Perché non inseriamo la questione palestinese nell’agenda della campagna elettorale, chiedendo ai candidati l’assunzione di impegni precisi?