IV.

Adesso il signor Antonio è nella stanza al pianterreno, seduto allo scrittoio, e sbriga la sua corrispondenza, adoperando certi grandi fogli a quadretti che, scritta con la sua nitida e sobria calligrafia la lettera, egli piega in modo da formare una busta e questa ferma e sigilla con certe piccole ostie colorate che sono una delle altre attrazioni di Cosima. La corrispondenza riguarda quasi tutta affari abbastanza ingenti; una delle lettere è indirizzata a uno spedizioniere della costa, che si occupa di caricare su un battello mercantile partite di carbone vegetale e di cenere spedite dal signor Antonio; un’altra per un proprietario che vuol vendere un bosco, appunto per il taglio da ridurre a carbone e cenere; un’altra ad un capomacchia dell’Appennino pistoiese, che deve arrivare con un nucleo di operai sul posto, specializzati per la lavorazione delle carbonaie. Ma c’è anche una lettera di amicizia, per il signor Francesco, possidente, di un paese distante cinque ore di viaggio a cavallo dalla piccola città. Da tanti anni il signor Antonio e il signor Francesco sono amici, anzi compari, poiché il secondo ha tenuto a battesimo la piccola Cosima; adesso l’amico gli scrive per annunziargli la nascita dell’ultima bambina, e lo invita per la nuova festa battesimale.
Poi cominciarono ad arrivare le visite. Dapprima fu don Sebastiano, il fratello della puerpera. In quel tempo i preti sceglievano la loro carriera per non saper che altro fare; ma lo zio Sebastiano, sebbene di famiglia povera, aveva scelta la sua per vocazione sincera. Era un uomo intelligente e anche colto, che sapeva di lettere e di latino, tanto che una volta, essendo stato a Roma, con un sacerdote polacco che non conosceva l’italiano si erano perfettamente intesi nella lingua di Cicerone. Al contrario dell’altro prete di famiglia, don Ignazio, fratello del signor Antonio, egli amava la povertà, era di umore allegro, e l’unica sua debolezza era di mandar giù, fin dalla mattina, bicchierini di acquavite e di vino buono.
Fu Cosima a riceverlo, poiché il padre finiva le sue lettere: egli sedette a gambe aperte, nella stanza da pranzo, tirando su la sottana sui pantaloni neri sui quali pendevano due larghe tasche colme di carte, di libri e di altre cose; mise il cappello sulla sedia accanto e il suo viso roseo e sodo, col naso corto, s’illuminò di gioia quando la serva gli portò un calice di vino bianco. Anche la manina piccola gli si era avvicinata con confidenza, e tirava una di quelle tasche misteriose che attiravano a lui i fanciulli come comandava Gesù: anzi, la manina di lei s’introdusse nella spaccatura di quella specie di bisaccia, e ne trasse un piccolo dolce schiacciato nel suo involucro di carta velina. Cosima volle sgridarla; le diede un colpettino sulla mano, ma avrebbe voluto frugare anche lei, e più a fondo, nelle tasche dello zio. Egli lasciava fare, ridendo; poi prese entrambe le bambine fra le sue gambe e le strinse piuttosto forte, mentre traeva dolci, frutta secche e giuggiole dalla profondità delle saccocce. Ne trasse anche due numeri della Unità cattolica, il giornale listato a nero per il lutto del perduto potere temporale del pontefice, e li porse al signor Antonio, entrato in qual momento. Era il solo giornale che essi leggevano, passandoselo uno con l’altro; e anche quella mattina discussero l’articolo di fondo di don Margotti, e poi la critica acerba che si faceva alla moglie di un ministro del Governo usurpatore; poiché la signora era intervenuta ad una festa da ballo con un vestito che si diceva costasse la favolosa somma di venti mila lire.
Poi andarono tutti, comprese le bambine che si attaccavano alla sottana dello zio come a quella di una donna, a vedere la puerpera. Fu, quello, un inverno lungo e crudelissimo[1], quale mai non s’era conosciuto. Prima venne una gran neve che seppellì i monti e i paesi; davanti alla casa si alzò, in una notte, oltre un metro e si dovette praticare una scia, in mezzo, per poter passare senza affondarsi. I ragazzi, sulle prime, erano felici, specialmente quelli che avevano la scusa di non andare a scuola. Andrea fece nell’orto una grande statua monumentale, con due castagne per pupille e un berretto di pelo in testa: Santus invece tentò di andare a scuola, ma dovette tornare indietro perché le Scuole erano in un antico Convento al limite estremo della cittadina e la neve era così alta che non ci si poteva arrivare. Allora lo studente si chiuse nella camera alta, con un freddo siberiano, e si mise a studiare. Quella che più si divertiva era Cosima. Per la prima volta vedeva la neve in tutta la sua terribile bellezza, e le cose le sembravano infinitamente grandi, trasformate in nuvole.
Un altro spettacolo per lei meraviglioso era il fuoco. Tutti i camini erano accesi e anche il focolare centrale della cucina; pareva che la fiamma scaturisse naturale dal pavimento, piegandosi di qua e di là curiosa e quasi desiderosa di staccarsi e correre intorno; il fumo saliva verso il soffitto e verso ogni apertura, ma tornava indietro come respinto dal freddo di fuori, e allora si faceva dispettoso e annoiava la gente. Per fortuna un servo era tornato il giorno prima dal seminerio, cioè dai campi ove seminava il grano, e adesso, bloccato dalla neve, restava in casa e si rendeva utile in cento modi: spezzava la legna sotto la tettoia, badava al cavallo confinato nella stalla, al maiale e alle galline rattrappite dal freddo, attizzava il fuoco, attingeva l’acqua dal pozzo, e infine andò anche in cerca di un po’ di carne per fare il brodo ai padroni. Le altre provviste erano tutte in casa, e non c’era da aver paura anche se la neve durava per settimane intere. Verso sera infatti ricominciò a cadere, fitta e incessante; furono chiuse e sprangate porte e finestre, quasi contro un nemico, e nel silenzio profondo le voci della casa vibrarono come in un rifugio di montagna.
Nella stanza da pranzo, c’era anche un braciere intorno al quale sedevano la madre e le bambine: Cosima cercò di prender posto fra le sorelle, ma le due, al solito, la respinsero e la punzecchiarono, nonostante i rimproveri della madre: paziente e silenziosa ella si ritrasse e se ne andò in cucina. Lì si stava forse meglio, sebbene il fumo continuasse a velare l’ambiente. La serva sedeva davanti al camino e già sonnecchiava, mentre il servo stava lontano dal fuoco, poiché un uomo forte non ha e non deve avere freddo, e, per spirito d’imitazione, Andrea gli sedeva accanto, entrambi su due seggioline basse. Cosima a sua volta sedette a fianco della serva e le posò la testa sul grembo un po’ grasso e tiepido.
Il servo era un uomo dei paesi: si chiamava Proto; basso e tozzo, con una gran barba rossiccia quadrata e gli occhi verdognoli, aveva un aspetto quasi fratesco; e infatti era molto religioso e semplice, di una innata bontà francescana; raccontava sempre storie di Santi, sebbene Andrea e la stessa Cosima preferissero leggende o racconti briganteschi: ma questi egli li lasciava all’altro servo, che era amico dei latitanti ed anche dei banditi: per contentare i padroncini Proto sceglieva una via di mezzo e narrava certe lunghe favole che sembravano romanzi.
– Questa, – diceva quella sera, – non è inventata: è proprio vera, ed è accaduta quando io ero bambino. Al mio paese l’inverno è più lungo e rigido di questo, perché stiamo sui monti, e i pastori devono scendere con le greggie a svernare in pianura, le donne non escono mai di casa, i mufloni scendono dalle cime in cerca di cibo.
– Anche i lupi? – domanda Andrea.
– No, lupi non ce ne sono. Siamo gente buona, noi, e anche le bestie sono buone. Non c’è animale più dolce del muflone, che è una specie di capra selvatica, ma più bello e agile della capra; e assolutamente innocuo. I cacciatori che lo prendono, e vengono anche molto di lontano per questo, sono più crudeli del più selvatico di essi. Una volta, dunque, uno di questi buoni animali, spinto dalla fame, scese fino all’ultima casa del paese e vi si aggirò intorno tutta la notte. Ora dovete sapere che in quella casa viveva una fanciulla il cui fidanzato, ricco pastore di pecore, era un mese avanti partito per i pascoli del sud: ma durante il viaggio si era ammalato, di polmonite, e adesso giaceva in un paese lontano, mentre i suoi servi continuavano il viaggio col gregge. Il dolore più grave opprimeva la ragazza: avrebbe voluto raggiungere il fidanzato, ma i genitori non lo permettevano. Quindi piangeva sempre e alla notte non dormiva. Sentì dunque il lieve fruscìo che il muflone destava intorno alla casa. Sulle prime si spaventò, credendo fossero i ladri; poi pensò che forse il fidanzato era morto e il suo spirito, ritornato nei luoghi della loro felicità, la cercasse.
Allora si alzò e aprì la finestra. La notte era fredda, ma serena e senza neve. La luna illuminava la china del monte, che scendeva fino alla casa: e in quel chiarore la ragazza vide il muflone, che frugava qua e là in cerca di cibo: era una graziosa bestia, col pelo color rame lucidato dal freddo, gli occhi grandi e dolci scintillanti alla luna. Ella pensò: è certamente il suo spirito, che ha preso questa forma e viene a salutarmi prima di andarsene all’altro mondo. Scese al pian terreno e socchiuse la porta: la bestia, però, fuggì. Allora lei si mise il cappuccio e andò verso una muriccia sotto la china del monte: il muflone non tornava, ed ella si persuase che non era lo spirito. Rientrò in casa, e mise fuori della porta un canestro con fieno ed orzo: e poco dopo sentì il ruminare del muflone affamato. La notte dopo fu la stessa cosa. La terza notte ella lasciò la porta aperta e mise il canestro sulla soglia. Seduta accanto al focolare, vide la bestia avanzarsi, tornare indietro, avanzarsi ancora e mangiare. Alla quarta notte mise il canestro nell’interno della cucina, accanto alla porta spalancata: e la bestia si fece coraggio ed entrò. Così, un po’ alla volta, divennero amici; ed ella si affezionò talmente al suo protetto, che provò quasi sollievo alla sua pena. Lo aspettava tutte le notti, come un innamorato, e se esso tardava s’inquietava per lui. Non raccontava a nessuno l’avventura, per timore che qualcuno molestasse la bestia: la raccontò solo al fidanzato, quando tornò, guarito, in primavera; e Alessio, così si chiamava il giovine, divenne stranamente geloso. Ma il muflone, adesso, non scendeva più dai monti: non aveva più fame; inoltre, nel tempo bello la gente stava fuori e poteva dargli la caccia. La fanciulla credette di non rivederlo più: si sposò in autunno; e ai primi d’inverno lo sposo dovette ripartire con la greggia, i servi, i cani.
Ed ecco, la notte stessa, freddissima notte di gelo, il muflone ritornò: ella lo sentì battere le corna alla porta e scese ad aprire col cuore che le pulsava come per un appuntamento clandestino. La storia ricominciò: il muflone si aggirava famigliarmente nella cucina, come un cane, si avvicinava al fuoco; e la sposa gli raccontava sottovoce tutte le sue vicende. Ella non era superstiziosa; non credeva, come altre donne del paese, che gli spiriti e spesso anche gli uomini vivi si trasformino in bestie, specialmente di notte: ci aveva creduto un momento, al primo apparire del muflone, quando si sentiva infelice per la malattia del fidanzato; ma adesso che era felice pensava che la bestia per sé stessa era una creatura straordinaria, sì, ma semplicemente bestia, che le voleva bene. E anche lei gliene voleva; avrebbe voluto tenerselo in casa; le dispiaceva però tenerlo prigioniero e così, dopo la solita visita, gli riapriva la porta.
E adesso viene la cosa importante. Per Natale tornò lo sposo. Ella fu incerta se raccontargli o no la sua avventura: però non nascose una certa inquietudine, e, come nelle prime notti, mise il canestro col fieno e l’orzo fuori della porta. Il mattino dopo lo trovò intatto: segno che la bestia non era venuta. E non tornò, per tutte le notti che lo sposo restò in paese. Allora un senso di superstizione riprese la giovine donna. Si, certo, il muflone doveva avere qualche cosa di umano: dimostrava troppa intelligenza per essere solamente un animale selvatico. D’altra parte ella pensava che potevano averlo ucciso, e ne provava un vago dolore. Lo sposo se ne accorgeva, e non sapeva se riderne o irritarsi: poiché qualcuno gli aveva riferito che una voce correva in paese: cioè che la sposa, sebbene da così poche settimane maritata, apriva la notte la porta a un uomo misterioso, venuto di lontano, che correva in modo da non lasciarsi distinguere.
Ed ecco il giovane marito riparte; la casetta rimane di nuovo triste senza di lui; il paese è coperto di neve. La sposa veglia; aspetta il suo amico, ma senza troppa speranza di rivederlo. Invece il muflone, come avvertito da un istinto sovrannaturale, ritorna: ella lo accoglie tremante, lo nutre, lo accarezza, lo sente palpitare e ansare, quasi aspetta di sentirlo parlare. E osserva che la bestia, questa volta, non ha fretta di andarsene. E ancora ella è tentata di tenerselo in casa; che male ci sarebbe! Finalmente si decide a riaprire la porta, e l’amico riparte: un minuto, e di dietro dalla muriccia bianca di neve parte un colpo di fucile: la bestia cade; nel silenzio grande si sentono i cani abbaiare e qualche finestrina si apre: la sposa ha un presentimento; aspetta che tutto sia di nuovo quieto; esce; al chiarore della neve si avanza fino alla muriccia e trova il muflone ucciso, con gli occhioni spalancati che brillano ancora di dolore. Ella lo coprì di neve, con le sue mani; poi tutta la notte pianse. Non si accennò all’avventura; e quando le nevi si sciolsero e fu ritrovata la spoglia del muflone lo si credette morto di fame e di assideramento. Non se ne parlò più; neppure col marito, quando egli fu di ritorno; ma una cosa terribile accadde. In settembre nacque alla giovane sposa un bambino: era bello, coi capelli color rame e gli occhi grandi e dolci come quelli del muflone: ma era sordomuto.
La storia piacque a Cosima. Col capo appoggiato al grembo della serva, credeva di sognare: vedeva il paese di Proto, con le case coperte di assi annerite dal tempo, e i monti scintillanti di neve e di luna; ma sopra tutto le destava una impressione profonda, quasi fisica, il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, l’eterna storia dell’errore, del castigo, del dolore umano.


  1. Fu, quello, un inverno lungo e crudelissimo. A ricordo dei vecchi, veramente eccezionale. Vedi Comincia a nevicare… in Il dono di Natale (1930) pp. 17-20. Fu l'inverno del 1880.