XVIII.

Quella notte, nel letto ben riparato della sua camera alta, Cosima sognò la nonnina. La nonnina era viva, tale quale s’era lasciata vedere l’ultima volta, col suo bei visino di santa, tutta agghindata piccola come una nana. Come una nana. Anche nel sonno Cosima ricordava l’offesa; e ricordava insieme, nitidamente, l’avventura di quel giorno e i suoi propositi eroici di non profittare mai del tesoro equivoco di Elia. Si vedrebbe se era una nana o una gigantessa. Verso la nonnina Cosima aveva un rimorso. L’ultima volta che era venuta a far visita in casa, ella non le aveva dato il caffè, non l’aveva quasi neppure salutata: adesso, nel sogno, si affaccendava a preparare la bevanda prediletta dalla cara vecchina, ma l’acqua bollente rigurgitava dal cuccuma e spegneva il fuoco. “Lascia, bambina”, diceva la nonna, con le manine intrecciate sul grembo, i grandi occhi color nocciola e la piccola bocca circondati da raggiere di rughe; “oramai non ho più bisogno di nulla”.
E d’un tratto, voltandosi, Cosima vide che la nonnina era vestita da sposa con un costume di orbace, scarlatto e broccato: il grembiale era ricamato a vivi colori, sulle punte davanti del corsetto verdeggiavano due foglie di palma. La benda che avvolgeva la piccola testa, bianca e un po’ inamidata, pareva di antico bisso.
“Come sei bella, nonnina; adesso, sì, sembri davvero una fata”.
Ma perché la vecchina era vestita così?
“Ho ritrovato il nonno Andrea, e adesso siamo contenti, in Paradiso, sposi in eterno”.
Il nonno Andrea, Cosima non lo aveva conosciuto, ma sapeva che anche lui era un giorno arrivato di lontano, chi diceva da Genova, chi diceva dalla Spagna, e s’era messo a lavorare la terra; e, anche dopo sposato, stava sempre in campagna, a lavorare i campi, in una valle aspra piena di macchie e di bestie selvatiche. Anche lui era selvatico, ma tanto buono che gli uccelli gli si posavano sul braccio, le serpi accorrevano al suo fischiare, quando alla sera si riposava davanti alla sua capanna e guardava le stelle, Anche i gatti selvatici gli facevano compagnia. La gente diceva che era un po’ matto; ma con questo nome la gente spiega il mistero degli uomini diversi dalla normalità.
Chissà che cosa vedeva il nonno Andrea, che conosceva altre terre e altri mari, negli occhi dei gatti selvatici, nelle piume iridate delle cornacchie, nella pelle argentata delle biscie che si sollevavano incantate dal suo fischio. Forse gli stessi fantastici riflessi che anche lei vedeva negli occhi degli animali, nelle foglie, nelle pietre. Adesso, nel sogno, si spiegava d’un tratto molte cose; lo stesso senso di vertigine, dello spalancarsi e richiudersi rapidissimo di un mondo anteriore, subcosciente, che la vista della nonnina viva le destava, adesso le appariva chiaro: era l’apparizione dello spirito sognatore del nonno, di cui la vecchina ancora innamorata portava l’immagine nella pupilla, e che era anche l’immagine di lei, di Cosima sognatrice.
Ma nessuno le aveva mai raccontato chiaramente donde egli era venuto; pareva che neppure la madre lo sapesse con precisione. E nel sogno confondeva il passato del nonno con quello del vecchie Elia, provandone un’angoscia paurosa: ma il nonno, questo ella lo sapeva benissimo, era morto povero in canna, lasciando nella sua capanna una famiglia di leprotti addomesticati; e questo la confortava. Tuttavia volle domandare alla nonnina notizie di lui.
“Tutte fandonie”, disse la vecchina, senza scomporsi: “egli non è venuto né da Genova né dalla Spagna: ci saranno venuti i suoi avi, forse, ma lui no. Egli arrivava da un paese di mare, sì, dove la gente è buona, e suo padre era pescatore: Andrea però non amava il mare, perché troppo sovente si cambia in mostro e divora gli uomini vivi: e aveva anche pietà dei pesci che vengono venduti e divorati anch’essi quasi vivi: certo, era un po’ sempliciotto, ma buono, cristiano e dolce. Giunse dunque qui, in cerca di lavoro, perché amava la terra che non tradisce e dà all’uomo le erbe e i frutti innocenti. Persino dei fiori egli aveva compassione; e gli uccelli e tutte le bestioline della valle, persino le bisce, persino gli scorpioni, gli diventavano amici. Questa è la sua vera storia”.
E questa storia, sebbene così semplice e raccontata in sogno, fece a Cosima un’impressione profonda, quasi come quella che le aveva lasciato il passaggio della coccinella sulla sua persona: più che tutte le storie di tesori, di passioni e di guerre fra i popoli.
Spesso si domandava se era religiosa, o superstiziosa, o visionaria e d’animo debole: ma sentiva in fondo che la sua rettitudine era una cosa superiore a tutte le forze sovrapposte dall’educazione e dalla crudeltà della vita. Si nasce, con questo dono di Dio, come gli uccelli nascono con la loro potenza di volo: e se ne rallegrava, pur senza leggere gli Evangeli e le laudi al Signore.
Quell’inverno, rigidissimo inverno, la fortuna parve un po’ sorridere alla famiglia così serena in apparenza, così travagliata in realtà. Beppa era allora assai fanciulla: era intelligentissima anche lei spregiudicata, allegra e lingua lunga. Trovava il lato ridicolo di tutti, cominciando da Cosima, e i suoi giudizi sul prossimo erano spietati. La madre le rinfacciava di averle tagliato il filo della lingua. Ma era bella, bianca, i capelli d’un castaneo dorato e gli occhi azzurri. Dava l’impressione di un fascio di fiori: rose e gigli, fioralisi e narcisi. E aveva spasimanti più che Cosima: tutti però alla larga, sempre per la triste ragione dei fratelli.
Quell’inverno però le capitò un adoratore più serio degli altri. Era niente meno che il direttore della Scuola Normale, pezzo grosso per la piccola città; un bell’uomo alto, roseo, già un po’ calvo ma ancora possente, con una parlantina che incantava anche i più imperterriti attaccabottoni del luogo. Organizzava poi feste da ballo, rappresentazioni, concerti e conferenze, per divertire e istruire i suoi giovani allievi, che lo adoravano. In una di queste riunioni vide Beppa, che vi era andata per un caso straordinario con la madre di uno degli studenti, e ne rimase colpito. Era un tipo diverso dalle altre ragazze del luogo: quasi sembrava della razza di lui, e forse fu questa specie di affinità che lo attiro. D’un colpo, con una facilità che rasentava la leggerezza, strana in un personaggio che rappresentava l’educatore, il guidatore dei futuri maestri di scuola, dichiarò a Beppa il suo amore e le chiese se voleva sposarlo. Ella rimase stordita: l’uomo non le piaceva, anzi le destava quasi ripugnanza così massiccio e carnale com’era, emanante dal viso, dal petto, dal ventre, già un po’ prominente, un calore animalesco: ma d’altronde l’occasione era ottima; il grande sogno di poter lasciare un giorno la piccola città per una più grande e la vanità di vendicarsi dei malevoli concittadini; e sopra tutto il pensiero di dare un conforto alla madre sempre melanconica e preoccupata. D’altronde la fanciulla considerava anche lei la cosa con leggerezza, e senza troppo consultare i parenti accettò la proposta.
L’uomo venne in casa a far visita: portò libri, mandò regali. Lo ricevevano le ragazze, e ridevano quando egli raccontava storie allegre, non troppo adatte per loro. Andrea avrebbe desiderato una domanda ufficiale fatta con regola, magari per mezzo di un autorevole paraninfo, come d’uso nel luogo; ma non osava opporsi alla progettata vicenda, e in fondo sperava che tutto andasse bene. Solo minacciava di bastonare le sorelle se per un attimo avessero lasciati soli i curiosi fidanzati. Neppure Cosima era contenta: ma anche lei provava un certo piacere per gli acri commenti delle famiglie del paese, per le invidie, i pettegolezzi, le maldicenze, che la fortuna di Beppa destava nell’intera contrada.
Si cominciò a dir peste del signor Direttore: che era un libertino, che teneva in casa una bella ragazza mora, che la faceva camminare carponi sui pavimenti e l’aizzava come una bestia: e, infine, che si burlava delle povere signorine che non avevano altra difesa che quella del selvatico fratello. L’uomo invece pareva innamorato sul serio: faceva regali, complimentava la futura suocera, congedò la cameriera mora per far cessare le chiacchiere, fissò lui stesso la data delle nozze. In ottobre, al ritorno dalle vacanze. E tutta la rendita di quell’anno, dai pascoli sul Monte all’olio del frantoio, dalle mandorle al sughero, fu, con volontario sacrifizio di Andrea, dedicata al corredo. Cucivano e ricucivano, le tre sorelle, tessendo sogni candidi come i fiori delle tovaglie e delle lenzuola. Ma un giorno il grosso fidanzato, che passava le vacanze nel suo lontano paese alpino, scrisse che era stato traslocato, che in ottobre non sarebbe tornato, sibbene più tardi, per le nozze. Poi le sue lettere si fecero rade: infine un giorno si presentò alla signora Francesca un avvocato, che era stato in relazione con lui per certi affari della scuola, e domandò a quanto ascendesse la dote di Beppa. Fu un colpo: ma questo era l’uso dei paesi del fidanzato. E, dopo tutto, la piccola dote che per l’eredità paterna spettava alla fanciulla, se la sarebbe goduta lei con la sua futura famiglia, Risposta: sarà assegnata a Beppa la sesta, mettiamo pure la quinta parte del patrimonio: circa venticinquemila lire in terreni poco redditizi. Torna, dopo otto giorni di grigiore e d’attesa, il messaggero flemmatico: il fidanzato si lamenta, dice che la vita è difficile, che non vuol fare cattive figure, né provocare privazioni alla futura sposina: bisogna che la dote sia almeno di cinquantamila lire, non solo, ma che ventimila siano in titoli garantiti.
Andrea fu preso da un furore sanguigno. Quel bestione, dunque, quel porco grasso e vile, non era entrato in casa delle sorelle per amore, ma per interesse, e adesso tentava quasi un ricatto, poiché sapeva che il matrimonio andato a monte avrebbe maggiormente screditato le povere ragazze. Parlò di andare a scovarlo, di ammazzarlo con la lesina come un maiale vero; ma la madre piangeva, e Cosima dichiarò che avrebbe ceduto alla sorella la sua parte di eredità. Si cercò di vendere qualche cosa, ma le offerte erano irrisorie, e d’altronde non poteva spogliare l’intera famiglia, già tanto impoverita e quasi bisognosa.
Fu allora che Cosima, visto l’avvilimento della madre e della stessa Beppa che deperiva per l’umiliazione e la delusione, fu raggirata dal demonio. Pensò al tesoro di Elia, all’offerta di lui, alla possibilità di accettarla: ma poi il solo pensiero l’atterrì. Mai, mai: avrebbe voluto flagellarsi per scacciare anche il semplice ricordo del maledetto tesoro. Eppure la tentazione, in fondo, non l’abbandonava: le diceva: “Sei una stupida, una che nella vita non avrà mai bene, e mai potrà procurarlo a chi ama. E chi dice, del resto, che i denari del vecchio non siano suoi? Va, cerca di saper meglio, indaga, cerca, cerca…”.
Le sembrava di essere aizzata come un cane alla caccia della selvaggina: ma non si moveva, più che mai ferma nel proposito di tener la promessa fatta al vecchio, di non rivelare a nessuno il segreto di lui. Se egli era colpevole, lo era davanti a Dio, e potevano intendersela fra di loro. Per sfuggire meglio alla tentazione, rinunziò anche di andare quell’anno alla vendemmia: persino la madre, tormentata dai pensieri della triste faccenda, stette appena tre giorni nella vigna. Il fidanzato non scriveva più, l’avvocato non si faceva vedere: il corredo già pronto venne chiuso in una cassa, come un morto. Andrea era cupo, preoccupato, più che per il dispiacere, per il discredito della famiglia: quando veniva in casa, le sorelle si nascondevano quasi con paura, come colpevoli delle cose accadute.
Ai primi di novembre Cosima rivide in sogno la piccola nonna: era sempre vestita da sposa, col rosario di madreperla fra le mani di bambina. E Cosima aveva sempre il rimorso di non averle dato il caffè, l’ultima volta che era venuta, e si affaccendava a prepararlo: ma la bevanda rigurgitava dalla caffettiera e spegneva il fuoco “Lascia stare”, disse la nonnina: “noi, di lassù non abbiamo bisogno di nulla. Sono venuta solo per un salutino, e ti porto anche i saluti di Francesco”.
Francesco era il nome del fidanzato di Beppa: pareva che la nonnina scherzasse crudelmente; ma poi si seppe che proprio quella notte, poco prima dell’ora del sogno di Cosima, il commendator Francesco era morto, dopo appena tre giorni di polmonite. Così secondo la misericordia divina, prendeva anche lui parte alla famiglia: e le cose questo mondo erano appianate.
E fu proprio in quei giorni che Dio parve compensare Cosima in altro modo più consolante. Una grande rivista straniera domandava la traduzione del romanzo Rami caduti e offriva una discreta somma. Inoltre desiderava notizie biografiche della scrittrice, perché la traduzione doveva essere preceduta da una nota critica. Ad occhi chiusi sempre con l’impressione di sognare, Cosima accettò. Aveva persino paura della sua fortuna: non avrebbe dovuto scontarla con altri guai? Ed ecco arrivare la somma, e alla posta le viene pagata in monete d’oro, simili e quelle del tesoro di Elia. Ella le guardava quasi spaventata e non osava toccarle; fece cambiare in biglietti di banca, e parte le depositò in un libretto postale: ma quando la madre vide il denaro lo guardò quasi torva: le sembrava frutto di un peccato mortale.
– Ebbene, – disse Cosima, – lo spenderò non voglio mettere più da parte niente; e i miei guadagni se ne vadano come foglie al vento.
Ed ecco l’occasione presentarsi: una sua ammiratrice, che dirigeva una rivistina letteraria nella città di ***, sul mare, la invitò ad andare ospite in casa sua: ed ella vi andò, nonostante i terrori della madre ed i brontolii di Andrea, che volle almeno accompagnarla per un tratto del viaggio, in ferrovia, e quando la lasciò gli parve di averla imbarcata sull’Atlantico.
In fondo anche lei si sentiva smarrita. Dove andava? Che voleva? Come Cappuccetto Rosso in mezzo al bosco aveva l’impressione d’incontrare il lupo; ma in fondo sperava di cavarsela bene, poiché aveva la coscienza tranquilla, e l’ombra del male era simile a quelle grandi ombre di nuvole già invernali che salivano dai monti scuri e lambivano le valli solitarie lungo le cui coste correva il trenino che sembrava un giocattolo. Il cielo era grande, di un azzurro carico, e le nuvole correnti, spinte da un caldo vento di scirocco, lo facevano apparire più alto, più turchino A Cosima, affacciata al famigliare ballatoio del treno, sembrava un cielo straniero, inospitale, mentre la terra, sotto di lei, aveva ancora l’aspetto ma terno, ch’ella ben conosceva: le stesse chine coperte di erba tremula, le macchie, le pietre, le quercie indurite dal dolore dei secoli e dalla loro resistenza al tempo e agli elementi. I piccoli villaggi neri, accovacciati come cornacchie sui loro nidi di roccie apparivano e sparivano nella luce cangiante della lontananza: qualche pastore con la sua greggia si profilava sull’orlo verde di un ciglione, e le pecore si spostavano come l’ombra delle nuvole al passare del treno: e Cosima aveva l’impressione che tutto il paesaggio si movesse per la sorpresa di veder lei a muoversi ad andare verso una nuova vita.
A misura che si scendeva verso le pianure marine il clima mutava completamente: si era ancora ai primi di autunno, laggiù; il cielo, sgombro di nuvole, si faceva chiaro, verdognolo, e d’un tratto Cosima lo vide riflesso in uno specchio d’acqua che le ricordò la vasca della vigna: era uno stagno. Uccelli mai veduti, grandi, con le ali iridate, si sollevarono dallo stagno, come sgorgassero dall’acqua e disegnarono sul cielo una specie di arcobaleno: forse un miraggio: a lei parve lieto auspicio.
E la prima persona che vide,[1] quando il treno si fermò in una stazione che pareva, col suo giardino di palme e in fondo un arco di quel luminoso cielo smeraldino, un’oasi civilizzata, fu un giovine vestito di un color marrone dorato, con due meravigliosi baffi dello stesso colore e gli occhi lunghi orientali. La guardò come se la conoscesse, e anche a lei parve di averlo già veduto in qualche posto: dove? non sapeva; e dopo tanti anni provò ancora quel misterioso senso di vertigine che nell’infanzia e meno spesso nell’adolescenza le destava la presenza della nonna.
Ma una piccola folla invadeva il marciapiede, e l’uomo scomparve. Una signora vestita in modo quasi buffo, tutta volanti e frangie, con un cappellino a sghimbescio sui radi capelli gialli, balzò verso la fanciulla, la prese quasi a volo sul predellino del vagone, la strinse al suo petto scarno, le coprì il viso di baci: i suoi occhi di un azzurro di porcellana erano stillanti di lagrime che le colavano sul naso aquilino e si confondevano con la saliva che le schizzava dalla bocca. E con un singhiozzo convulso chiamava a voce alta la fanciulla col suo nome e cognome, tanto che Cosima si vergognò: la gente la guardava, qualcuno doveva già conoscere quel nome e quel cognome, e salutava, fra il rispetto per lei e la beffa per la sua chiassosa ospite. Avrebbe voluto risalire sul treno e tornarsene a casa: ma era destino che quel giorno ella dovesse cominciare a conoscere le tribolazioni della celebrità, perché all’arrivo nella casa dell’ospite, – un grazioso palazzo tutto balconi, di fronte a un giardino e a una chiesa, – lungo la scala di marmo con la ringhiera ornata di tralci verdi, vide con mite terrore una fila di bambine e giovinette, quasi tutte vestite di bianco, con mazzolini di fiori in mano. Sembrava la scala del Paradiso, vigilata da angeli senza ali, e mentre il facchino scaricava dalla carrozzella la modesta vecchia valigia di Cosima, reliquia di famiglia, e la stessa donna Maria , l’ospite palpitante, s’incaricava di portarla di sopra come un prezioso tesoro, le ragazzine intonarono un coro che pareva insegnato loro da un’abile maestra. La maestra era stata donna Maria[2], e gli angioletti erano tutte le fanciulle che abitavano nel palazzo.
A questo punto bisognava assolutamente mostrarsi commossa, e, potendolo, fare, dall’alto della rampata della scala, un discorso di ringraziamento, Cosima si coprì il viso col fazzoletto, ma non poté piangere né parlare. E del coro, composto in suo onore, non le rimase in mente che il motivo monotono e quasi triste, che si confondeva con un rumore lontano, da lei non ancora mai bene inteso, che le pareva quello del pino nella vigna. Era il rumore del mare.
Era lì, il mare, in fondo alla larga strada, che costeggiava una fila di case nuove bianche abbaglianti.[3] Cosima aveva sempre più l’impressione di trovarsi in una città orientale: palmizii, cactus ed altri alberi esotici si movevano pesanti su quel cielo caldo, sullo sfondo turchino del lido. Sui balconi fiorivano i garofani; un odore di erbe aromatiche scendeva dalla collinetta coperta di pini che chiudeva l’orizzonte di fronte alla strada. E la gente era tutta fuori, come nelle sere d’estate; e canti e suoni di mandolino continuavano, di fuori, il coro in onore di Cosima: così a lei sembrava, ma invece di orgoglio ne provava quasi paura.
Dopo averla rimpinzata di dolci e bevande, la sua ospite, che continuava a baciarla e quasi a leccarla come un cane che ha ritrovato il padrone, la lasciò sola nell’appartamento ov’ella abitava col paziente marito che era impiegato in un’azienda privata. Aveva destinato a Cosima la camera più bella, col balcone, quella appunto donde si vedeva il mare: e le lasciava libero anche il salotto, pieno di fiori di carta, di vasi incrinati, di tovagliette, di oggetti di cattivo gusto.
– Qui potrai ricevere i tuoi amici, i tuoi ammiratori.
Ma Cosima non aveva amici, e si atterriva al solo pensiero di averne uno solo. Di ammiratori, poi, non ne voleva: le pareva di esser già, per lunga esperienza, scottata da loro. Eppure d’un tratto sentì suonare alla porta dell’ingresso, e senza pensarci su tanto aprì. Era il garzone di un fioraio, che portava un grande mazzo di rose rosse, avvolte nella carta velina. Per lei? Proprio per lei: ma non si sapeva da parte di chi. Ella stette a guardarle quasi con la sorpresa paurosa con cui aveva guardato nel pugno di Elia le monete d’oro: e il profumo quasi violento delle rose, e il loro colore, le parvero vivi, caldi, sanguinanti: più che dal coro delle fanciulle e dal ronzio delle musiche della strada, sentì da quell’alito quasi carnale venirle incontro la vita: ma quando si decise a prendere il mazzo dalle mani del garzone che la guardava con occhi maliziosi, si sentì pungere da una spina acuminata: e pensò che la vita anche sotto l’illusione delle cose più belle e ricche, nasconde le unghie inesorabili.
Mise le rose in uno dei vasi del salotto, e tornò al balcone: sì, era come d’estate; una grande luna rosea saliva dai pini dell’altura, e il cielo e il mare, fra due palmizi che luccicavano come le palme dorate dalla stagnola, usate per la Pasqua nel paese di Cosima, si confondevano in un colore di smeraldo azzurro. I bambini, nella strada ancora bianca, giocavano al gioco dell’ambasciatore venuto a domandare una sposa: ed ella si sentiva trasportata nel loro cerchio, come la piccola sposa richiesta dall’ambasciatore per un misterioso grande personaggio.


  1. E la prima persona che vide. “Viso fresco, capelli castani ondulati, occhi pieni di gioia furbesca ma schietta”. Vedi tale incontro voltato in romanzesco ne Il paese del vento. Nella realtà, Palmiro Madesani, “continentale” in età allora di 35 anni. Le sarà presentato qualche giorno dopo l'arrivo a Cagliari, alla fine d'ottobre del 1899, in teatro, dal prof. Luigi falchi. Si fidanzarono ai primi del novembre successivo e sposarono ai primi di gennaio del 1900. Fidanzamento e matrimonio sono narrati in modo assai vicino al vero ne Il paese del vento. Si stabilirono a Roma nel marzo dello stesso anno. Di quel tempo è un breve “poema” in otto componimenti in versi dei quali fu pubblicato solo il penultimo nella “Piccola rivista”, Cagliari, 12 marzo 1900, col titolo A Palmiro (dalla Luna di miele di prossima pubblicazione). [I fidanzati e La partenza dopo le nozze; L'aurora; Le ricordanze; Ancora le ricordanze; Il presente; La pineta e Verso l'ignoto, sciolti]. Sul fidanzamento vedi anche la lettera-prefazione alla traduzione tedesca di Tentazioni di E. Muller Roder, Ed. Bibliot. Univ., Lipsia, 1903. Sui versi, in genere della D. vedi Stanis Ruinas in “Giornale di Genova” del 20 febbraio 1925 e in Scrittori di Sardegna, Ed. Campitelli 1928, e Adolfo faggi in Il paesaggio in Sardegna in “Marzocco” del 22 gennaio 1928; e particolarmente la recente pubblicazione di Antonio Scano: G. D., la piccola poetessa: estratto dalla “Cultura moderna”, N. I del 1937, Vallardi, Milano. Ma delle sue poesie d'amore la D. non voleva sentirne parlare.
  2. Donna Maria Manca, direttrice di “Donna sarda”, rivista cagliaritana della quale la D. era collaboratrice, con versi e prose, da parecchi anni. L'ospitale grazioso palazzo sorge tuttora in via S. Lucifero.
  3. Lettera alla scrittrice Bisi Albini. Lettura, agosto 1911. “Sofia, sono stata quaranta giorni a Cagliari, la luminosa nostra capitale, una graziosa città moresca il cui mare ardente, dai tramonti meravigliosi, fa sentire la vicina Africa. Mi hanno fatto festose accoglienze e mi sono riposata e divertita assai…” (dicembre 1899).