V.

La neve durò parecchi giorni; più disastroso fu un periodo di pioggie torrenziali che per quattordici giorni diluviarono ininterrottamente, accompagnate da raffiche di scirocco quasi calde. Adesso il fumo non tentava neppure di uscire dalla cucina; la pioggia penetrava dalle finestre, sgocciolava dai tetti; una vera sorgente scaturì dalla cantina e il signor Antonio dovette in fretta far costruire dal fabbro-stagnaio un tubo di ferro e prendere due uomini per scaricare l’acqua della cantina nella strada. Anche la strada era diventata un torrente; l’orto uno stagno: si aveva l’impressione di essere in una barca che faceva acqua da tutte le parti.
Poi le ragazze si ammalarono: anche Cosima si sentì stringere la gola, fu assalita da una febbre altissima e cominciò a sognare le cose più strane e spaventose. Giaceva nel letto della camera a pian terreno, e nei momenti di lucidità vedeva il viso pallido della madre[1] piegarsi sul suo e ne provava un senso di frescura come se una ninfea umida la sfiorasse: ma un giorno, il giorno di Sant’Antonio, grosse gocce di rugiada parvero cadere da quel fiore: era ardente, però, quella rugiada; e Cosima ne sentì anche il sapore salato: il sapore del più grande dolore che possa colpire una donna.
Venne una parente, per domandare come stavano le ragazze; entrando, per non dimostrare inquietudine, domandò con voce allegra:
– Oggi è la festa del padrone di casa: farete banchetto: dov’è il porcellino di latte?
– Il porcellino per la festa è su, in camera delle bambine, – disse la madre, con voce rauca. E la parente andò a vedere: era morta Giovanna, la più bella di tutte le cinque sorelline.
Dopo la morte di Giovanna, l’umore della mamma cambiò. Era stata sempre seria; adesso diveniva melanconica, taciturna, chiusa in un mondo tutto suo; badava ai figli e alle cose domestiche, ma con una freddezza quasi meccanica, con scrupoli di un dovere dal quale non si aspetta nessun premio. Era giovane ancora, bella, ben fatta, sebbene di piccola statura; ma a volte sembrava vecchia, piegata, stanca. Forse il mistero della sua tristezza derivava dal fatto ch’ella si era sposata senza amore, ad un uomo di venti anni più vecchio di lei, che la circondava di cure, che viveva solo per lei e la famiglia, ma non poteva darle la soddisfazione e il piacere dei quali tutte le donne giovani hanno bisogno. Ed ella non poteva procurarseli fuori del recinto domestico: non poteva, per dovere innato. Aveva una volta amato? Si diceva che, sì, prima di sposarsi, avesse corrisposto ad un giovine povero: nessuno sapeva però chi era, e forse neppure esisteva. Ci sono mole donne che vivono del ricordo di un amore fantastico; e l’amore vero è per esse un mistero grande e inafferrabile come quello della divinità.
Inoltre la famiglia della mamma era tutta un po’ strana. Il padre, d’origine straniera, chi diceva genovese, chi addirittura spagnuolo, aveva fatto un po’ tutti i mestieri: in ultimo, proprietario di una casa e di un piccolo podere nella valle, si era ritirato in questo, in una capanna, e viveva da eremita, coltivando la poca terra e allevando uccelli e gatti selvatici. Eppure i figli erano venuti su bene, perché la loro piccola madre li educava santamente: uno era prete, l’altro segretario comunale in un paese del circondario: le figlie sposate: ma tutti avevano un carattere diverso da quello degli abitanti del luogo; mattoidi, li chiamavano, questi altri abitanti beffardi e scrutatori, mentre i figli dell’eremita erano distratti e sognatori e quando parlavano dicevano sempre parole di tagliente verità.
Fra questa gente e in questo ambiente è cresciuta dunque la piccola Cosima: adesso ha sette anni e va anche lei a scuola, con la sorella maggiore che ripete la quarta elementare. Il viaggio, per arrivare al Convento che serve da scuola, è tutto avventuroso per lei: bisogna scendere per strade anguste male selciate, attraverso casette di povera gente, fino alla piazza, dove è il quartiere aristocratico, con case alte, balconi, tende inamidate alle finestre. Siedono per terra, in un lato della piazza, le erbivendole coi loro cestini di verdura: per lo più sono serve, che vendono i prodotti degli orti dei loro padroni, e raccontano i fatti di questi; a volte c’è anche un carro che viene dai paesi della costa, carico di pesce, o di cocomeri e di melloni; allora è un accorrere di compratori golosi, e lo stesso signor Antonio, se gli capita, acquista un chilogramma di cefali o un popone fragrante e lo porta a casa dentro il fazzolettone a scacchi.
Dalla piazza lo stradone provinciale, che attraversa il paese, prende il nome di Via Maggiore: c’è un lungo palazzo signorile, che con le sue logge e i suoi cornicioni forma la meraviglia di Cosima; c’è, più giù, il caffè con le porte vetrate e, dentro, gli specchi e i divani, altra meraviglia di Cosima: e qua e là negozi e mercerie, botteghe di panno e botteghe di commestibili: ma quella che più interessa la nostra scolaretta è la libreria del signor Carlino, dove si vendono i quaderni, l’inchiostro, i pennini; tutte quelle cose magiche, insomma, con le quali si può tradurre in segni la parola, e più che la parola il pensiero dell’uomo. Qualcuno di questi segni straordinarii Cosima lo sa già tracciare, perché lo zio Sebastiano glielo ha insegnato; in modo che ella non va alla prima, ma addirittura alla seconda elementare. Il Convento ha due ingressi, uno per i maschi e l’altro per le femmine: a questo si sale per una breve scaletta esterna, e si entra in un lungo corridoio chiaro e pulito sul quale si aprono le aule: piccole aule che sanno ancora di odore claustrale, con le finestre munite d’inferriata, dalle quali però si vede il verde degli orti e si sente il fruscìo dei pioppi e delle canne della valle sottostante. Uccellini verdognoli si posano sui davanzali, le nuvole color di rame dei primi giorni di ottobre passano sul ciclo basso di un azzurro intenso eppure luminoso, e la voce della maestra risona nel silenzio come quella del mandriano che su una china alpestre richiama le caprette sbandate. E delle caprette dai grandi occhi liquidi di un colore azzurrognolo, le ragazzine, una quindicina in tutto, hanno la voglia di evadere dal recinto, ove si pascola l’erba del sapere, per precipitarsi nei meandri della valle e arrampicarsi sui pioppi lungo il torrentello ancora asciutto. Sono quasi tutte ragazzine un po’ selvatiche, sebbene alcune, come Cosima, di famiglie benestanti e quasi signorili: le sue compagne di banco sono però figlie una di pastori, l’altra di un fabbro che venuto da un paese lontano sulle prime dovette, per la sua grande povertà, prendere alloggio in una grotta poco distante dal paese, poi a poco a poco fece fortuna e adesso ha una bella casa e un’officina che lavora giorno e notte. Anche la maestra non è del luogo; anzi viene di molto lontano, d’oltre mare, e la chiamano appunto la Continentale: è una donna ancora bella, coi capelli biondi crespi, ma irascibile e nervosa. Cosima sola ha da lei una accoglienza buona e gentile: la bambina però, istintiva, prova subito un senso di diffidenza per quella signora dalla voce grossa e gli occhi vuoti, e rimane ferma, rigida, al suo posto accanto alla finestra.
Per nove mesi dell’anno ella occupò quel posto, profittando delle lezioni più di ogni altra scolaretta; era una delle più piccole, ma la più brava, e quando veniva l’ispettore era sempre lei l’interrogata. E faceva bella figura, sebbene l’uomo, con una grossa testa carducciana, scuro il viso, le destasse un brivido di spavento: ma anche di ammirazione: poiché egli era l’arca santa del sapere, colui che davvero poteva interpretare le carte scritte e le pagine stampate come i sacerdoti i libri sacri. E Cosima aveva una gran voglia di sapere: più che i giocattoli l’attiravano i quaderni; e la lavagna della classe, con quei segni bianchi che la maestra vi tracciava, e che aveva per lei il fascino di una finestra aperta sull’azzurro scuro di una notte stellata.
Fu promossa senza esame: la maestra le consegno una letterina per il signor Antonio, con la fausta notizia; ed ella la portò a casa sventolandola ogni tanto come una bandiera di trionfo; tanto che la sorella maggiore le dava, per il dispetto, pizzicotti e spintoni; ma quando il padre aprì il messaggio rimase piuttosto freddo, ed anzi un sorriso sarcastico gli strinse le labbra sottili: poiché la signora maestra, il cui marito era un noto ubriacone, e anche lei, si diceva, non sdegnava qualche bicchierotto di vino buono, gli chiedeva denari in prestito.
Questa fu una delle prime commediole tragiche della realtà che diede a Cosima una lezione pratica della vita.


  1. Sul carattere della madre, vera “mater doloris”, sopra le fatiche da lei sostenute nella direzione della casa vedi Pane casalingo, in “Corriere della Sera” del 19 gennaio 1936. Aiutar la mamma a fare il pane era, per le ragazze, una insigne fatica.