XI.

Questo sogno, da allora, non l’abbandonò mai più. Quando nelle sere d’inverno, accanto al braciere e alla luce di due lampadine ad olio (qualche volta ne accendeva anche tre), o nei mattini di primavera, nell’orticello fiorito di rose e ronzante di mosconi, e poi d’estate nella camera su in alto col paesaggio sonnolento dei monti alla finestra, poteva aver fra le mani una rivista illustrata, ne studiava a lungo le figure, specialmente le riproduzioni fotografiche di strade, monumenti, palazzi di grandi città. Roma era la sua mèta[1]: lo sentiva. Non sapeva ancora come sarebbe riuscita ad andarci: non c’era nessuna speranza, nessuna probabilità: non l’illusione di un matrimonio che l’avrebbe condotta laggiù: eppure sentiva che ci sarebbe arrivata. Ma non era ambizione mondana, la sua, non pensava a Roma per i suoi splendori: era una specie di città santa, Gerusalemme dell’arte, il luogo dove si è più vicini a Dio, e alla gloria.
Come giungessero fino a lei i giornali illustrati non si sa: forse era Santus, o lo stesso Andrea a procurarli: il fatto è che allora, nella capitale, dopo l’aristocratico editore Sommaruga, era venuto su, da operaio di tipografia, un editore popolare che fra molte pubblicazioni di cattivo gusto ne aveva buone, quasi fini, e sapeva divulgarle anche nei paesi più lontani della penisola. Arrivavano anche nella casa di Cosima; erano giornali per ragazzi, riviste agili e bene figurate, giornali di varietà e di moda. Sicuro, l’Ultima Moda, coi suoi figurini di donna dall’alta pettinatura imbottita, la vita sottile e il paniere prominente, l’ombrellino grande a merletti come quello del Santissimo Sacramento, e i ventagli di piume simili a quelli del Sultano, era la gioia, il tormento, la corruzione delle ragazze. Nelle ultime pagine c’era sempre una novella, scritta bene, spesso con una grande firma: non solo, ma il direttore del giornale era un uomo di gusto, un poeta, un letterato a quei tempi notissimo, della schiera scampata al naufragio del Sommaruga e rifugiatasi in parte nella barcaccia dell’editore Perino.
E dunque alla nostra Cosima salta nella testa chiusa ma ardita di mandare una novella al giornale di mode, con una letterina piena di graziose esibizioni, come, per esempio, la sommaria pittura della sua vita, del suo ambiente, delle sue aspirazioni, e sopra tutto con forti e prodi promesse per il suo avvenire letterario. E forse, più che la composizione letteraria, dove del resto si raccontava di una fanciulla quasi simile a lei, fu questa prima epistola ad aprirle il cuore del buon poeta che presiedeva al mondo femminile artificiosetto del giornale di mode, e con il cuore di lui le porte della fama. Fama che come una bella medaglia aveva il suo rovescio segnato da una croce dolorosa: poiché se il direttore dell’Ultima Moda, nel pubblicare la novella presentò al mondo dell’arte, con nobile slancio, la piccola scrittrice, e subito la invitò a mandare altri lavori, in paese la notizia che il nome di lei era apparso stampato sotto due colonne di prosa ingenuamente dialettale, e che, per maggiore scandalo, parlavano di avventure arrischiate, destò una esecrazione unanime e implacabile.
Ed ecco le zie, le due vecchie zitelle, che non sapevano leggere e bruciavano i fogli con le figure di peccatori e di donne maledette, precipitarsi nella casa malaugurata, spargendovi il terrore delle loro critiche e delle peggiori profezie. Ne fu scosso persino Andrea: i suoi sogni sull’avvenire di Cosima si velarono di vaghe paure: ad ogni modo consigliò la sorella di non scrivere più storie d’amore, tanto più che alla sua età, con la sua poca esperienza in materia, oltre a farla passare per una ragazza precoce e già corrotta, non potevano essere del tutto verosimili.
L’estate era certamente la stagione più bella, per Cosima sopra tutto. Grande era il caldo, a giorni, ma un caldo secco, che alla notte si placava in un senso di straordinaria dolcezza. Arrivavano allora, dalla valle e dai campi mietuti, odori di stoppia, di cespugli aromatici; e le voci delle donne accoccolate nella strada a godere il fresco risonavano con bassi accordi musicali. Lunghi erano i vesperi, rossi, glauchi, violetti sopra la montagna, e se la luna spuntava sopra le roccie il suo chiarore si fondeva con quello dell’ultimo giorno in un crepuscolo quasi orientale.
E poi era la stagione in cui Antonino tornava per le vacanze. Cosima aspettava questo ritorno come altri aspettano la primavera o il fare del giorno. Quell’anno, poi, alla sua attesa si mischiava una vaga paura: paura che Antonino avesse saputo la grande novità, che anche lei era diventata una scrittrice, una candidata alla gloria, e che sorridesse di lei, con quel suo ironico sorriso di famiglia, velato però, in lui, da una finissima melanconia, come quella dei grandi, dei veramente grandi e forti, per i piccoli e deboli. In fondo non le importava gran che, ferma nella sua ambiziosa sicurezza di non aver bisogno di forze diverse dalle sue per andar diritta nella strada che Dio stesso le aveva tracciata: e da Antonino non sperava niente, non solo, ma non voleva niente, neppure che egli sospettasse del suo amore per lui. Amore. La parola era finalmente sbocciata, nel cuore e sopra tutto nella coscienza di lei, da quel giorno sulle rocce: come sboccia la rosa rossa e fragrante che basta a illuminare un giardino desolato.
Eppure il corpo di Antonino non esisteva per lei; e neppure il lontano desiderio, neppure per istinto, di un solo bacio di lui, le vibrava nel sangue. Di lui non conosceva che la linea, una linea quasi azzurra, poiché egli vestiva quasi sempre di colore turchino chiaro, quasi soffusa del chiarore della lontananza in cui egli le appariva, anche se in realtà la sua figura spuntava in fondo alla strada solitaria. Egli doveva attraversare per forza quella strada, per scendere dalla sua casa al centro del paese: ella lo sapeva, e lo aspettava alla finestra, ma appena la figura di lui appariva ella si nascondeva.

Ma questa volta ella lo vede sotto una luce diversa, su uno sfondo che ha del fantastico. Era andata, con la sorella Pina, a trovare le loro amiche, cugine di Antonino. La serva le ha accompagnate, consegnandole alla signora Lucia, con la promessa che sarebbe andata a riprenderle verso sera. È poco, eppure è una festa per Cosima, che può respirare l’aria del cortile e della vigna di Antonino. Come si è detto, le case delle quattro famiglie si aprono tutte su questo grande cortile arioso, lastricato bene, con panchine di granito poggiate al muro, accanto alle porte. Quella della signora Lucia è a un solo pianterreno, ma le stanze sono comode, e c’è anche il salotto, col tavolino rotondo in mezzo, e il sofà con la spalliera ricoperta da una trina all’uncinetto. Le ragazze vi si raccolgono e cominciano a pigolare: anche l’amica di Cosima e quella di Pina, della stessa età, sono piccoline, brune, intelligenti e lingue lunghe. Finito di parlar male delle comuni conoscenze, cominciano a punzecchiarsi scambievolmente, con istintive malignità e derisioni. Le due ragazze M. vestono bene, perché il padre è impiegato al Tribunale ed ha una sorella a Sassari, dove spesso le ragazze passano qualche settimana e apprendono le eleganze cittadine. Oggetto della loro beffa sono quindi i goffi vestitini delle altre due, fatti dalla sarta paesana. Giallo, con guarnizioni rosse, quello di Cosima, che parrebbe ridicolo e pure dà risalto al suo viso pallido e ai folti capelli neri.
– Sembri una ciliegia che comincia a maturare, – le dice l’amica Lenedda, e Cosima arrossisce e tace, ma la sorella Pina, squadrando il vestito verde e nero dell’altra, ribatte:
– E tu sembri una vipera.
L’altra ride; dice:
– Non mi ricordavo che ti hanno tagliato il filo della lingua.
Infatti era vero: da piccola Pina balbutiva poiché lo scilinguagnolo sotto la sua lingua era eccessivamente corto: e le fu tagliato; cosa che tutti, per il resto della vita, le rinfacciarono.
– A te non occorreva tagliartelo, il filo della lingua: anzi bisognerebbe ricucirlo.
Risero, le ragazze, perché in fondo erano allegre e si divertivano delle loro stesse malizie: fu portato il caffè, e si riprese a parlar male delle altre cugine, le sorelle di Antonino, che spiavano dalle finestre di faccia, ma non si degnavano di venire a salutare le piccole borghesi. Poiché esse vestivano in costume, sì, ma in modo sfarzoso, ed erano più ricche delle altre, in modo che la loro madre diceva convinta:
– Per le mie figlie occorrono uomini in alto, fieri e potenti.
Invece la maggiore, molti anni più tardi, sposò un possidente paesano, e la minore un ricco commerciante.
Quel giorno, esse non si unirono alla compagnia delle nostre ragazze neppure quando, verso il tramonto, le quattro amiche uscirono nella vigna attigua alla casa. Bellissimo era il luogo in pendìo sopra la valle, in faccia ai monti arrossati dal sole calante: un muricciuolo lo separava dal sentiero che andava a perdersi verso i pendii di un’altra valle, a nord, e su questo muricciuolo, di contro uno sfondo di cielo abbagliante come una lamina d’oro, sedeva, con un giornale in mano, l’agile Antonino.
Quando dal fondo del vialetto della vigna Cosima lo vide, si piegò in avanti come dovesse cadere, chiudendo gli occhi quasi con angoscia. Ella non sapeva che era tornato, come del resto non lo sapevano neppure le cugine di lui, che lo guardarono con curiosità insolente e gli corsero incontro senza salutarlo battendogli i pugni sulle ginocchia. Egli le respinse, preoccupato solo per la piega dei suoi pantaloni, e non avrebbe neppure smesso di leggere senza la presenza delle altre due ragazze. Stentò un po’ a ricordarsi chi erano, ma quando ebbe riconosciuto bene Cosima balzò in piedi e la salutò, con quel suo sorriso dolce, stanco e beffardo che gli sollevava il labbro sopra i denti luminosi. Tutto era luminoso, in lui, in quel momento, e la luce d’oro del tramonto pareva scaturisse dai suoi occhi, dal suo viso bruno, dai capelli raggianti. Per tutta la sua vita Cosima lo ricordò così: e basta ancora che pensi a lui per sentire una gioia misteriosa, fatta di luce e di angoscia, come si prova soltanto al primo rivelarsi della vita cosciente, anche se l’immagine della vita sorrida come in quell’attimo sorrideva Antonino. Eppure, in fondo al suo pensiero rimaneva il ricordo delle sue prime esperienze d’arte, e aspettava con orgoglio che il giovane accennasse alla sua novella, pronta a difendersi se gliela derideva. Ma pareva ch’egli non sapesse nulla: o almeno non accennò nulla. Domandò solo di Santus, e disse che sarebbe andato a trovarlo. Cosima arrossì; egli se ne accorse e non insisté. Poi le due ragazze minori essendosi allontanate, rimasero accanto al muricciuolo le due maggiori, e Lenedda cominciò a stuzzicare Antonino, permettendosi di pigliarlo in giro, per il modo con cui vestiva, e perché i capelli gli lucevano troppo.
– Ti sei messo l’olio di lentischio, come le donne di Oliena. A chi vuoi piacere, in questo paese di selvaggi? Qui, dame non ce ne sono.
Cosima abbassava gli occhi. La speranza ch’egli volesse rispondere alla cugina, sull’argomento scottante, le faceva battere il cuore: ma egli non badava a Lenedda più che alle pietre del muro sul quale si appoggiava: però si passava la mano bianca, con le unghie che riflettevano l’oro del tramonto, sui capelli divisi da un lato da una sottile scriminatura candida, e se li tormentava come per dimostrare che non erano lucidi per artifizio.
– E poi, perché non hai il corpetto? L’hai perduto? La tua camicia sembra la camicetta di una donna.
Cosima taceva, mortificata e offesa per lui, e provò una gioia cattiva quando egli allungò il giornale e lo sbatté più volte sulla testa della cuginetta insolente: ma non fu tutto: allorché Lenedda, con un piccolo salto felino tentò di tirargli i capelli, egli l’afferrò per un braccio, la fece girare intorno a sé come una trottola, la spinse costringendola a scendere di precipizio nel vialetto in declino. Ella strillava come una ghiandaia, e lui non rideva, tutt’altro, anzi stringeva un po’ crudelmente i denti, e continuava ad agitare il giornale, come avesse un gran caldo. Cosima stava lì quasi tramortita, e avrebbe voluto non assistere a quella scena. Poiché il suo idolo si scomponeva alquanto; eppure se egli avesse fatto su di lei lo scempio toccato alla cugina, ne sarebbe stata paurosamente felice. Egli però le mostrava, pur con la sua indifferenza, il massimo rispetto; non solo, ma ella aveva l’impressione che la lezione data a Lenedda fosse in suo omaggio, per non essere diminuito agli occhi di lei. Ad ogni modo ella respirò quando egli, dopo averla salutata con un lieve cenno del capo se ne andò senza far più caso degli strilli della cugina.
Ma ella doveva incontrarlo ancora in condizioni più felici, insperate e quasi favolose. Sopra la piccola città, che era già a seicento metri sul livello del mare, sulla cima dell’Orthobene, sovrastante fra boschi di lecci e rocce di granito, poco distante dalla proprietà della famiglia di Cosima e da dove per la prima volta ella aveva veduto il mare lontano, sorgeva una piccola chiesa detta appunto Madonna del Monte, su uno spiazzo sollevato e recinto di massi. Piccole stanzette erano addossate alla chiesa, sotto lo stesso tetto, e una specie di portichetto si apriva davanti alle due porte, una a mezzodì l’altra a ponente, con sedili in muratura tutto intorno. Nelle stanzette dimoravano i fedeli, durante il periodo della novena e della festa della piccola Madonna. La leggenda raccontava che un vescovo, forse di Pisa, nel viaggiare per la sua visita pastorale nell’isola, colto da tempesta, aveva promesso, se il naviglio si salvava, di erigere un santuario sulla prima cima di montagna apparsa all’orizzonte. E immediatamente il mare si era calmato, e una cima rocciosa era emersa fra le nuvole sopra l’isola. Lo zio di Cosima, il tabaccoso prete Ignazio, che aveva una parrucca rossa con la chierica, fungeva da cappellano della chiesetta. La sorella Paola lo accompagnava: avevano per loro uso, oltre la piccola sagrestia, nel cui armadietto zia Paola nascondeva i dolci per sottrarli all’avidità dei ragazzi, una stanzetta pulita per il prete, con una branda e il materasso, e una vasta grezza stanza col pavimento sterrato e tanti piuoli fissi al muro per attaccarvi le robe.
In questo primitivo ambiente, che aveva della capanna e della caverna, e riceveva luce solo dalla porticina aperta sul bosco, Cosima quell’anno, poiché la zia Paola l’aveva invitata con le sorelle a trascorrere con lei il tempo della novena, passò i giorni più belli della sua vita. Fu proprio un sogno, bello, completo, pieno di cose misteriose, come i veri sogni.
Il viaggio, circa due ore di salita per un sentiero appena tracciato fra i dirupi, gli avvallamenti, il basco, fu attraversato a piedi dalle ragazze pazzamente felici ed ebbre di quella meravigliosa mattina di agosto, mentre un carro tirato da buoi e carico di masserizie e provviste, le seguiva traballando sui sassi e gli sterpi. La prima sosta, breve, fatta non per stanchezza ma per divertimento, fu al cominciare del bosco fitto, sotto una strana pietra poggiata su altre e detta la tomba del gigante. Sembrava una grande bara, di granito, coperta da un drappo di musco, solenne nella vasta solitudine del luogo. Un tempo, diceva la leggenda, i giganti abitavano la montagna, e uno di essi, a turno, vigilava l’ingresso della foresta: l’ultimo, si stese per morire sulla pietra di confine, che si richiuse su di lui e ancora custodisce il suo corpo. Era davvero, quello, l’ingresso al mondo degli eroi, dei forti, di quelli che non possono concepire pensieri meschini; e Cosima toccò il masso, come in altri luoghi, abbelliti di leggende sacre, si tocca la pietra dove si sia riposato qualche santo.
Il sogno confuso della fanciulla era già illuminato da un desiderio, oltre che di purezza, di cose grandi, al di sopra delle difficoltà quotidiane: e le sembrava davvero, riprendendo a salire il sentiero tra le felci e le chine già morbide di capelvenere e di sottilissime erbe di montagna, all’ombra dei grandi elci patriarcali, di evadere dal suo piccolo mondo e ritrovarsi fra i giganti che vivono alti sino quasi al cielo, compagni dei venti, del sole e degli astri.
Una seconda tappa fu alla sorgente d’acqua pura e luminosa come il diamante, che scaturiva in una piccola conca di pietre e si spandeva modesta e quasi furtiva fra l’erba calpestata e fangosa, in un cerchio di lecci qua e là arrampicati sulle cime azzurre. Già si sentiva il grido delle ghiandaie, e l’aria sembrava un liquore profumato di menta.
Le ragazze s’inginocchiarono sulla pietra e si protesero a bere nella fontana: e nel piccolo specchio d’onice dell’acqua in ombra Cosima vide i suoi occhi che le parvero della stessa miracolosa luce: luce che scaturiva dalla profondità della sua terra e aveva un giorno riflesso davvero l’anima assetata di divinità dei suoi avi pastori e poeti.
La realtà doveva consistere nell’abitazione che, simile alla capanna scavata fra le rocce dai medesimi avi, aspettava questa nuova tribù di fanciulle che anelavano allo spazio del mondo lontano, alle città affollate e rumorose. E le sorelle di Cosima si rivoltarono, sul principio, nel vedere che il giaciglio, in comune con la zia Paola, era steso per terra, fatto di uno strato di felci, di coperte, cuscini e grosse lenzuola; che gli armadii erano i piuoli e, per lavarsi, c’era in un angolo, su una panchina di pietra, accanto alla brocca per bere, un vaso di creta; e per ribellarsi, ma anche divertirsi, cominciarono a rotolarsi sul giaciglio, scovarono la parrucca dello zio Ignazio, che viveva nella stanzetta accanto, e ne fecero scempio. Ma poi uscirono nel bosco e si confortarono con lo sfarzo del meraviglioso luogo pieno di recessi, di divani coperti di musco, di quadri e broccati mai visti così belli, dei quali erano ricchi gli sfondi.
Solo Cosima non era disillusa: anzi l’interno dell’abitazione, col suo odore di umido e di felci, coi suoi arnesi trogloditici, con quella porticina coperta dalla tenda sul verdone del bosco, quei sedili di pietra grezza, quell’anfora di creta e i recipienti pastorali fatti di sughero e di corno, le diedero uno strano senso di ricordanze remote, come quello che provava da bambina incosciente nel veder apparire la piccola nonna materna, – la nonnina che partecipava della natura delle fate nane della tradizione locale, che abitavano nelle casette di granito in mezzo ai monti e sugli altipiani rocciosi: – e prima di raggiungere le sorelle si diede da fare per rendere più abitabile la primordiale dimora. Cominciò con l’appendere i pochi vestiti suoi e delle sorelle ai piuoli, coprendoli con uno scialle per preservarli dalla polvere e dalla curiosità degli estranei; stese davanti al giaciglio, dalla parte dove avrebbero dormito loro, a mo’ di tappeto, un lungo sacco di lana che invero ne aveva lo spessore; nascose le scarpe in un cestino, e infine, con un piccolo specchio e una mensoletta che aveva previdentemente portato da casa sua, preparò la toeletta. Intanto, fuori, il servo di zia Paola costruiva una capanna di frasche, abbastanza alta e larga, che doveva servire da cucina. Avevano portato un fornello a mano e un sacco di carbone; ma la serva volle dietro la capanna, in un angolo riparato, una specie di focolare di pietre e dichiarò che avrebbe cucinato col fuoco di legna. E queste non mancavano davvero a portata di mano, quali erano e pronte ad accendersi come torcie. Anche alcune sedie e un tavolo erano stati portati sul carro; e il tavolo avrebbe dovuto servire per i pasti e per scrittoio a prete Ignazio, ma egli non intendeva perdere neppure un minuto per impugnare la penna; e così il tavolo fu collocato nella stanza grande, accanto alla luce della porta e servi, sì, per i pasti, ma anche da scrittoio a Cosima. Oh, e ben il calamaio ella aveva portato, avvolto in uno straccio nero e ficcato dentro una scarpa perché nel transito non si rovesciasse; e trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si servì per deporvi il calamaio, la penna, il suo scartafaccio e alcuni libri, formandone così un altarino per i suoi misteri d’arte.
Poi raggiunse le sorelle nel bosco; e furono ore e poi giorni di appassionata gioia. Non fu tutto un sogno? Uno di quei sogni che bastano a illuminare una vita, anche negli angoli più ombrosi, come il sole e la luna illuminavano, in quei favolosi giorni di agosto, la boscaglia di elci intorno alla miracolosa chiesetta. Che importava l’umiltà e la rozza accoglienza della capanna? Serviva di rifugio solo nella notte, e a Cosima nelle ore delle sue scritture; il rumorio del bosco la copriva col suo suono di organo, e la luna col suo drappo d’argento. E le ragazze dormivano cullate da quella musica che non aveva l’eguale poiché era la musica della fanciullezza che risuona una sola volta nella vita. Ma per Cosima era qualche cosa di più grande e trepido: era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come se ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elci e dalle roccie fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine.
E tutto questo, oltre la reale dolcezza del soggiorno, allietato dalla libertà e dallo spazio del luogo, dalla bellezza del paesaggio e delle lontananze e dai semplici svaghi della poca gente che dimorava intorno alla chiesetta, dipendeva dalla presenza, in una delle stanze verso la parte opposta di quella del cappellano, della famiglia di Antonino. Egli non c’era, ma doveva pure qualche giorno venirci, come tutti gli altri giovani della città, che anche se i loro parenti non erano lassù, combinavano gite e passavano anche la notte nel luogo incantevole, accendendo grandi fuochi, combinando cene e balli, bivaccando sotto gli alberi e facendo la corte alle ragazze; doveva arrivare; e la sola speranza di vederlo, anche alla sfuggita, in quello sfondo che era lo sfondo stesso della Poesia, riempiva l’animo di Cosima di una gioia senza limiti.
Ma ella non andava mai dalla parte ove la famiglia di lui abitava, e ne sfuggiva le sorelle come per paura che indovinassero il suo segreto e la sbeffeggiassero, o semplicemente perché il suo segreto era per lei grande e sacro come un tabernacolo che nessuno doveva profanare. Ed ecco egli arriva davvero, un giorno: è solo, a piedi, con una fronda in una mano e il cappello di paglia nell’altra. Cosima, che vigilava sempre sul sentiero dall’alto di una roccia, lo vede salire un po’ stanco, frustando le felci con la sua fronda: le sembra scontento e disincantato, e pensa che, certo, il luogo, per quanto pittoresco, non è degno di lui: per lui occorrono i parchi coi viali lisci come il velluto, le scalee e le terrazze delle ville principesche, le fontane e le grotte artificiali dei giardini settecenteschi, come ella li ammirava nelle riviste illustrate. E sentì quasi pietà di lui, decisa a nascondersi per non aumentargli il malumore che doveva provare. Eppure la sola idea che egli era lì, nell’umile portico dove le sorelle gli servivano il caffè, illuminava ancora di più, se era possibile, il paesaggio intorno: e le felci toccate da lui scintillavano come palme dorate, e il cielo era più vasto e azzurro.
Incantesimi della fanciullezza, che nel ricordo dànno un’idea di quello che debba essere un giorno, per l’anima che ci crede e lo aspetta in ricompensa degli innumerevoli disinganni della vita, il regno di Dio sulla terra.


  1. Roma era la sua mèta… Quante volte, nei romanzi anche dopo che la D. di fu incontinentata, ritorna come motivo di racconto questo fascino di Roma: Cenere, Nostalgie ecc. Scriveva a Epaminonda Provaglio nel febbraio 1895: “Il mio più bel sogno è sempre di poter venire a Roma per conoscere un po' di questo mondo che tutti vogliono farmi credere brutto, mentre a me invece pare bellissimo. Ma chi sa quando ciò sarà, che sa quando? Non ho nessuno che possa accompagnarmi; e poi c'è un'altra cosa: io vorrei viaggiare con lusso e fare un po' di figura…”.