VI.

Gli altri anni di scuola passarono presto: tre in tutto, poiché la quarta classe fu ripetuta, ed ella ebbe facilmente il primo premio, consistente in un libro del Tommaseo con la copertina bianca fregiata di oro. Adesso aveva dieci anni, e la sua precocità gliene accresceva qualcun altro.
Due bizzarre famiglie, disordinate e forestiere tutte e due, erano intanto venute ad abitare nel piccolo quartiere; una era quella di un armaiolo, cacciatore infaticato, che quando era in casa faceva rintronare i dintorni con gli urli contro la moglie e le figlie giovinette. Da queste ragazze, che già avevano girato un bel po’ di mondo, Cosima apprese i misteri che fanno della donna e dell’uomo un essere solo: non ne fu molto turbata, perché i suoi sensi erano chiusi ancora in un boccio che la vita castissima della sua famiglia non tendeva certo a far fiorire. Ma le cose, specialmente della natura, le apparvero già in un barlume nuovo, come di aurora che segue l’incerto biancore dell’alba. Ecco, più che le confidenze a bassa voce delle sue amichette straniere, la colpiscono i diversi profumi del piccolo orto; quello dei gigli, sopra tutto, e delle rose; ella chiude gli occhi nel piegare il viso sui fiori appena sbocciati, e quel misterioso senso subcosciente di una vita anteriore, che prova nel vedere la nonnina, la riprende più forte. Già ella ne capiva qualche cosa, e tentava di spiegarsela, vagamente, come si cerca d’interpretare i sogni. Anche leggendo già di nascosto i libri del fratello maggiore, e quelli che esistevano in casa, pensava a una vita lontana, diversa dalla sua, e che pure le sembrava di aver un giorno conosciuto. Così, a quell’età, lesse i primi romanzi: uno dei quali era I Martiri di Chateaubriand, che lasciò nella sua fantasia una traccia profonda.
Non è detto però che anche nel suo ambiente la vita non cominciasse a mostrarle la faccia della realtà, e gli avvenimenti non prendessero, a volte, colori e movimenti insoliti.
Uno dei fatti più impressionanti e dolorosi fu la scoperta fatta un giorno dal padre, di denari che mancavano dal suo cassetto chiuso a chiave. Egli non si ingannò un attimo solo: chiamò il figlio Andrea, che allora aveva sedici anni, e lo interrogò a lungo. Andrea era rimasto un ragazzo basso e robusto, senza voglia di studiare, e frequentava altri ragazzi di famiglie paesane, benestanti e prepotenti. Alcune donne di malaffare, appollaiate in certe casupole del quartiere di San Pietro, il più schiettamente popolare della cittadina, attiravano questi giovanetti esuberanti di vita e abbandonati a se stessi.
Il signor Antonio, un po’ tardi, si avvedeva di aver dato anche lui troppa libertà al ragazzo, buono e generoso in fondo, ma con tutti gli istinti di una razza ancora primitiva. Un furore muto, alimentato di rimorso, di paura per l’avvenire, di propositi di fermezza e di repressione ad ogni costo, lo sostenne nel lungo interrogatorio che fece ad Andrea. Il giovane negava di aver preso i denari: allora il padre lo perquisì; gli trovò alcune monete e la chiave che apriva il cassetto. Andrea continuava a negare. Allora il signor Antonio prese una corda e la lanciò ad una trave della cucina: chiuse le porte e le finestre, mandò fuori le donne. Disse con calma:
– Vedi, Andrea: io stesso farò giustizia immediatamente, se tu non riconosci la tua colpa. Ti impiccherò con le mie mani.
E l’altro confessò.
Tutto parve cancellato: eppure un’ombra rimase sopra la famiglia: poiché padre e figlio erano d’improvviso apparsi in una luce di terrore e di morte. La madre si fece ancora più triste: Cosima si piegò come uno dei suoi gigli sciupati dal vento.
Ma il giovane parve immediatamente emendarsi. Dichiarò che non voleva proseguire inutilmente gli studi, e desiderava lavorare. Allora il padre pensò di associarlo ai suoi affari: lo mandò a sorvegliare le lavorazioni di carbone e di cenere che aveva sui boschi della montagna, non solo, ma lo fece partire per un viaggio d’istruzione commerciale, con lettere di presentazione e raccomandazioni ai suoi corrispondenti di Napoli e di Livorno.
Anche Santus era fuori: già da due anni frequentava il liceo di Cagliari, e prometteva di diventare un bravo dottore in lettere o in medicina. Preferì quest’ultima, pure non abbandonando i suoi studi e i suoi gusti letterari. Quando tornava per le vacanze era un ampio respiro di nuova vita che animava la casa. Portava libri e regali, ed era vestito con modesta ma accurata eleganza. Ed era bello, col viso fine che sembrava quello di una razza diversa dalla sua, i grandi occhi chiari, trasparenti di intelligenza e di bontà. Non parlava molto, ma parlava bene, e aveva già una cultura larga e profonda, aiutata da una memoria straordinaria. E quello che più stupiva in lui era la serietà, quasi l’austerità dei costumi: non fumava, non beveva, non guardava le donne: studiava sempre, anche durante le vacanze.
Qualche volta veniva a cercarlo un suo compagno di studi; Antonino, si chiamava, un bellissimo giovane bruno dall’aria un po’ beffarda, vestito inappuntabilmente alla moda di allora, – cappellino di paglia con nastro di tulle e veletta all’estate, mantello azzurro d’inverno, drappeggiato con eleganza dannunziana, – (almeno così Antonino dava ad intendere, chiamando fraternamente col solo nome di Gabriele[1] il giovanissimo poeta che aveva degnato di una sua visita il paese di Cosima).
Anche lui, Antonino, apparteneva ad una famiglia mista, fra borghese e paesana: la madre e le sorelle vestivano in costume, mentre lui e i fratelli, tutti studenti, avevano quasi un’aria aristocratica. Il padre, veramente, era esattore d’imposte, un uomo rude, taciturno, poco pratico della lingua italiana (come i maggiori signori del resto), di mirabile animo e nobiltà. Ben caratteristica era la loro abitazione, l’ultima del paese, costituita da fabbricati bassi che davano su un cortile chiuso, e dove, oltre la loro famiglia, vivevano altri parenti, con numerosi ragazzi: una specie di clan, ma di gente incivilita, anzi, intelligentissima. I ragazzi studiavano tutti, ed erano caustici, osservatori, beffardi. Una bella vigna che guardava sulla valle e verso i monti a nord, in dolce pendìo, era attigua alla casa: più tardi il padre di Antonino costruì in un angolo di questa vigna una casina alta, dove lo studente, nelle poche settimane che rimaneva in paese, viveva come in una torre d’avorio, studiando, o fingendo di studiare.
Fu il primo, il lungo amore di Cosima. Quando egli veniva a cercare Santus, ella si nascondeva, presa dal terrore che egli potesse rivolgerle un semplice sguardo. Ma non c’era pericolo: egli passava accanto a lei e alle altre ragazze anche maggiori e più belle ed esperte di lei, senza neppure vederle; e se veniva a cercare Santus era perché con lui poteva parlare delle cose e delle persone conosciute nella città dei loro studi; e perché Santus, poi, lo attirava con la sua singolare intelligenza e la sua originalità.
Adesso, poi, il futuro medico, si dedica insolitamente ad altre cose all’infuori dei suoi studi. Costruisce, per esempio, un pallone volante, come li chiamavano allora, e riesce a meraviglia: nessuno conosce il segreto del suo apparecchio; ma è certo che il pallone, di carta-seta, per il cui finanziamento Santus è riuscito a farsi dare qualche sussidio dalla madre, un bel giorno sale dal cortile della casa, leggero e colorato come una grande bolla di sapone; vola sopra il paese, richiamando l’attenzione e l’ammirazione di tutti, sparisce, non ritorna. Qualche giorno dopo si seppe che era sceso, senza incendiarsi, in un angolo della montagna. Alcuni piccoli pastori di capre lo avevano veduto librarsi sopra le roccie, illuminato dal tramonto, credendolo una cosa sovrannaturale, e, nel vederlo scendere, si erano inginocchiati presi da terrore superstizioso, gridando: “È lo Spirito Santo, è lo Spirito Santo”.
Lusingato da questo successo, lo studente ne tentò un altro. Costruì una ruota pirotecnica, che doveva innalzarsi come il pallone e accendersi con fuochi artificiali di sorprendente effetto. Alcuni razzi di prova riuscirono bene: guizzarono in alto, una sera di agosto, si aprirono in meravigliosi getti di fiori incandescenti: ma quando si trattò di issare e far funzionare la ruota, questa s’incendiò, con grande spavento della famiglia, e il giovine inventore ne ebbe una mano e un braccio gravemente ustionati. L’insuccesso e il male lo avvilirono: dovette mettersi a letto, e per placargli le sofferenze e farlo dormire, il dottore gli ordinò una miscela alla quale era mescolato del cognac. Egli si addormentò; ma come se gli avessero propinato una bevanda magica, si svegliò stordito, e quando le sofferenze della sua scottatura lo tormentavano, si preparava la bevanda e ricadeva in sopore. Il suo umore cambiò: divenne irascibile e pigro, trascurò i suoi libri, si assentò per intere giornate da casa senza dire dove andava. Solo la compagnia di Antonino pareva piacergli: si chiudevano per lunghe ore nella camera alta della casa, e se Cosima, con la forza della curiosità e della passione, riusciva a mettersi in ascolto nel pianerottolo li sentiva leggere ad alta voce e commentare e discutere di cose letterarie. Antonino recitava i versi ultimi del suo diletto poeta: una mattina la sua voce risonò più alta del solito, e nell’umile sereno silenzio della piccola casa patriarcale, si diffuse come una musica che raccontava di città lontane, luminose di fontane, di statue, di giardini, popolate solo di amanti, di donne bellissime, di gente felice.

 

Quante volte, in su’ mattini
chiari e tiepidi io l’aspetto!
Ella ancora ne’l suo letto
ride ai sogni mattutini.

Su la piazza Barberini
s’apre il ciel, zaffiro schietto.
Il Tritone del Bernini
leva il candido suo getto.

 

Intorno a quel tempo morì la nonnina[2].

L’estate era certamente stagione più felice. C’erano giornate caldissime, ma era un caldo fermo, quasi lucido, e l’azzurro del cielo, un po’ basso, sembrava quello dei quadri di Zuloaga. Qualche servo tornava dalla mietitura, abbrustolito come da un incendio, e si buttava, febbricitante di malaria, su una stuoia nell’angolo della tettoia: in cambio le donne che, all’ombra del cortile, spezzavano mucchi di mandorle che un incettatore veniva tutti gli anni a comprare, ridevano e cantavano stornelli paesani che facevano un contrasto ben curioso coi rondò preziosissimi recitati da Antonino nella camera di Santus. Erano gridi di passione, profonda e ardente come quel cielo sopra la terra bruciata dal sole: e chi, di quelle donne giovani e brune che non pensavano ad altro che all’amore, si lamentava di “vivere in mezzo alle spine, per un solo innamorato”: chi diceva all’amante:

 

a cara bellu ja ses,
traitore che a Zudas:

 

“bello di viso, traditore come Giuda”; chi invitava un altro a succhiarle il sangue vivo dal cuore; qualche volta la voce di una donna disillusa si alzava però ad ammonire le appassionate, e allora il coro femminile taceva, con una pausa quasi spaventata. L’ammonimento diceva:

 

Su sordadu in sa gherra
nan chi s’est, olvidadu;
no s’ammentat, de Deus.
Torrat, su corpus meu,
pustis chi es, sepultadu,
a sett’unzas de terra.

 

Il soldato, nella guerra, – dicono che si è dimenticato, – non si ricorda di Dio. – Ritorna il corpo mio, – dopo che è seppellito, – a sette oncie di terra[3].


  1. Gabriele d'Annunzio, accompagnato da Cesare Pascarella e da Edoardo Scarfoglio, giunse a Nuoro il 28 maggio 1882. “A Nuoro”, scrive Scarfoglio (Libro di Don Chisciotte), “ci giunsero le prime cinque copie del Canto nuovo” [finto di stampare in Roma il 5 dello stesso mese]. Un ricordo del viaggio in Sardegna d'Annunzio rievocherà nel 1909 nella Prefazione alla traduzione italiana di Osteria di Hans Barth, e farà un cenno, oltre che del “nepente d'Oliena”, delle Casa delle fate rievocate in Cosima a [pagina 13] e delle Tombe dei Giganti, a [pagina 91].
  2. Quarto rondò dell'“Intermezzo melico” di Isaotta Guttadauro di G. d'Annunzio: primamente appeso coi tipi della “Tribuna”, Roma, Natale 1886. Su d'A. citato dalla D. vedi Tipi e paesaggi sardi, nella “Nuova Antologia” del 16 dicembre 1901. Nel romanzo Colombi e sparvieri (1912) il protagonista adolescente parla, cap. VII, delle sue letture dannunziane: “I romanzi e le novelle di G. d'A. ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piene di fiori velenosi e di frutti proibiti… In quel tempo rileggevo Terra vergine e sognavo grandi fiumi luminosi, tutto un paesaggio caldo e fantastico, con isole coperte di canne e di giunchetti ombreggiate da boschi di salici e di pioppo, velato di vapori rosei e popolati di donne belle e voluttuose: e queste donne le vedevo coperte anch'esse di veli fluttuanti, coi capelli sciolti e gli occhi in color di viola come il cielo del crepuscolo. Il mondo reale intorno a me era invece nitido e duro; un mondo di rocce e di macchie dai rami contorti… e le donne erano vestite di nero e di giallo, di panno ruvido…”. La D. nutrì sempre una viva ammirazione per il grande scrittore abruzzese. Da ragazzetta era innamorata del De Amicis. Avrebbe voluto avere (Frammenti di memorie infantili, nel volume Nell'azzurro, raccolto nel 1890) “la penna d'uno dei nostri più grandi scrittori - del De Amicis, per esempio - per scrivere le memorie della mia infanzia”. Ma poco più tardi, in Fior di Sardegna (pag. 218), con maggiori ambizioni, “oh, la penna, la penna di Victor Hugo per un'ora sola, per descrivere queste lotte interne, queste tempeste in un cranio…”. Sulle prime simpatie letterarie della giovinetta Grazia vedi Stella d'Oriente in “Avvenire di Sardegna”, Cagliari 1889: vi si fanno i nomi di Moore, Byron, Hugo, Dumas, Sue (“gran romanziere glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica di un'ardente fanciulla”), Cavallotti. Più tardi lesse Balzac, Amiel, Scott, Manzoni, Grossi, Guerrazzi, Pellico, Metastasio, Goldoni; poi s'accostò ai contemporanei: Fogazzaro, Verga, Stecchetti, d'annunzio, Ada negri, Aurelio Costanzo, poi ad altri stranieri: Carmen Sylva, Elena Vacarescu, Turgheniev, Gogol, Tolstoi, Gorki. Più tardi ancora si appassionò di Dostoievschi.
  3. Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovane Gavina di Sino al confine (1909), “col solo motivo malinconico e primitivo ch'ella sapesse ripetere”. In quest'ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a [pag. 114]