XII.

Adesso Cosima è di nuovo nella sua casa melanconica, dove ogni cosa, dopo il ritorno dalla montagna, ha preso un aspetto più triste, quasi di decadenza, o meglio di appassimento, un colore umido di autunno, un odore funebre di crisantemi. Ella ha freddo, nell’alta stanza dalla cui finestra si vede il Monte, già anch’esso coperto di nebbia: il grido dei corvi annunzia l’inverno. Ma ancora ci sono, per lei, momenti nei quali il cielo torna a spalancarsi, e un tepore primaverile le scalda il sangue. Ella scrive: piegata sul suo scartafaccio, quando le sorelle tengono a bada la madre, e Andrea è fuori in campagna, e Santus dorme uno dei suoi soliti terribili sonni, ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono per i viali dei giardini, o vanno a un luogo loro proibito; se possono, a un convegno d’amore.
Anche lei, nelle sue scritture, combina convegni di amore: è una storia, la sua, dove la protagonista è lei, il mondo è il suo, il sangue dei personaggi, la loro ingenuità, le loro innocenti follie sono le sue. Il titolo del libro non può essere che quello che è: Rosa di macchia.[1] E un giorno, quando è finito, ella lo sente palpitare vivo fra le sue mani fredde, come un uccello che le sguscia fremente fra le dita e vola a batter le ali contro i vetri chiusi della finestra.
Ella non esita a cercare il modo di liberarlo, lasciarlo andar via per gli spazi infiniti. Scrive all’editore della rivista di mode, e l’uomo, che ha l’intelligenza istintiva e il cuore grande del lavoratore sbocciato dal popolo, capisce con chi ha da fare. Risponde che gli mandi il manoscritto.
Cosima si stacca con dolore ed orgoglio dalla famiglia dei suoi personaggi, e la manda per il vasto mondo. Il plico del manoscritto è accuratamente involto in tela e carta, con una rete di spaghi che deve resistere al lungo viaggio di terra e di mare: ed è anche raccomandato: tutte spese che Cosima non può sopportare col suo scarno bilancio personale composto dai pochi centesimi che la madre le dà ogni domenica. Ma poiché è necessario andare avanti a tutti i costi, ecco che la scrittrice, la poetessa, la creatura delle nuvole, scende in cantina e ruba un litro d’olio: è facile, questa ladroneria, perché lei e le sorelle, quando la madre e la serva sono occupate in cucina, e qualche donna viene a comprare olio o vino, non sdegnano di servirla. Arriva dunque la donna di servizio della famiglia del cancelliere del Tribunale, che abita da pochi giorni la casa della zia Paola, in fondo alla strada, e compra un fiasco d’olio: Cosima riceve la somma, in piccole monete di argento da mezza lira l’una: a lungo, andata via la donna, ella tiene quei semi bianchi entro il pugno, fino a scaldarli; ha scrupolo, ha paura, anche un po’ di vergogna; ma poi pensa che un familiare non esita a intascare metà del fitto del bosco e del provento delle mandorle, per sprecarlo col gioco e con le donne, e divide anche lei le monete: metà alla casa, metà alla gloria. È vero che poi rivelò il peccato al confessore, dicendo di aver rubato, senza però riferirne il motivo: e per penitenza digiunò il venerdì e il sabato.
Presto arrivarono le bozze di stampa del romanzo. Cosima non sapeva con precisione di che si trattasse: credette che l’editore le mandasse un campione, e si meravigliò che le pagine fossero lunghe come le colonne di stampa dei giornali. Le tenne lì, trovando buffo e quasi allucinante quel trasformarsi del suo lavoro. Il suo nome, in cima, sovrastante al titolo, le dava quasi soggezione: le pareva fosse troppo esposto alla curiosità del lettore. Non vedendo ritornare le bozze l’editore scrisse quasi seccato, richiedendole corrette. Allora Cosima si decise a correggere i molti errori di stampa, e sentì la prima tortura di ricercare le doppie lettere sul frusto vocabolario che era appartenuto a suo padre e ancora aveva odore e macchie di tabacco da naso: ma le correzioni ella le fece in un modo nuovo, mai veduto, cioè non sul margine del foglio, sibbene sul corpo stesso delle parole errate; talché ne germogliò una fioritura selvatica di sgorbi, un groviglio che terrorizzò il tipografo destinato a sbrogliarlo. L’editore decise di non mandare le ulteriori bozze alla scrittrice, ma le richiese una fotografia da mettere sulla porta del romanzo.
Di fotografie Cosima ne possedeva solo una, che era stata anch’essa una delle prime sue disillusioni personali.[2] S’era voluta fotografare coi capelli sciolti, col vestito nuovo color viola di mezzo lutto e il fermaglio d’argento al collo: ne era venuta una immagine torva, corrucciata, con gli occhi selvaggi, la bocca sdegnosa, il petto legnoso; la prima deformazione della sua personalità spirituale, che sotto le asprezze fisiche dell’adolescenza ella sentiva invece bella e fina. Era abbastanza vanitosa per non pensar neppure di mandare quel cupo ritratto di sé stessa ad affacciarsi all’apertura del suo libro di sogni: ma farne un altro era un po’ difficile, ed anche dispendioso. Forza e coraggio, e sopra tutto astuzia: altri mezzi litri di olio e di vino furono sottratti al bilancio domestico: fu combinata una gita ad un orto di proprietà della famiglia, vicino alla casa del fotografo, e tutto, questa volta, riuscì bene: la testa di Cosima emergeva da un grande ventaglio di piume di struzzo nere, ch’ella aveva con arte aperto sul suo scarno petto: emergeva come da un’ala, che poteva anche avere un simbolo; e gli occhi avevano il loro languore orientale, un po’ esagerato, il viso tutto dolce, sornione, un po’ per volontà di lei, un po’ per abilità del fotografo intelligente, che aveva capito a modo suo di che si trattava. Aveva capito che quell’immagine era destinata a un amatore, a qualcuno che Cosima voleva attirare per passione, ma anche per arte: e questo primo innamorato lontano, ricco come un re e forse anche più potente, era il pubblico dei lettori, specialmente giovani, intelligenti e affini all’anima e alle fantasie di lei.
Il libro invece ebbe un successo femminile: lo lessero le fanciulle, e vi si ritrovarono, coi loro amori più libreschi che reali, coi loro convegni notturni immaginari, con le loro finte ali di struzzo che non possono volare. L’editore mandò cento copie del volume, per tutto compenso dell’opera: il valore non superava quello dell’olio e del vino rubati in cantina; e il grosso pacco piombò in casa come un bolide sconquassatore. La madre ne fu atterrita, la sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che vede un animale sconosciuto: per fortuna Cosima ricordò che un suo cugino in terzo grado aveva una bottega di barbiere e spacciava giornali e riviste. Era un intellettuale anche lui, a modo suo, perché mandava la corrispondenza locale al giornale del capoluogo: e la proposta di Cosima, di spacciare qualche copia del romanzo, fu da lui accolta con disinteresse assoluto.
Ma per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, ma i ben pensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma consideravano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile.
Lo stesso Andrea era scontento: non così aveva sognato la gloria della sorella: della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito.[3] Ma a consolare l’umiliazione sdegnosa di Cosima arrivarono le prime lettere delle sue ammiratrici, ed anche di qualche giovanissimo ammiratore, cosa che maggiormente la confortò. Uno le mandò, da Roma, – da Roma! – una piccola poesia d’amore, musicata, dedicata a lei. Ella aveva già un certo spirito critico per giudicare puerili e sgrammaticati i versi, – non più dei suoi, ma incoraggiò la propria vanità col credere che la musica fosse migliore; per conto suo non conosceva una nota, e di musica aveva finora sentito quella della chitarra e della fisarmonica e quella dell’organo della cattedrale: ma quello che più la lusingava e la cullava in una risonanza immaginaria, era il fatto che l’omaggio veniva da un giovane, forse un ragazzo, un ragazzo che se sapeva comporre musica, oltre a poesia, doveva essere di condizione civile, di gente educata; forse era un Antonino ancora acerbo, forse anzi in via d’evoluzione più raffinata di quella dell’esteta locale; e aveva su di questi il vantaggio di essere meno indifferente, e di pensare dunque a lei, di essere all’altra riva del solitario oceano di sogni dov’ella viveva. Fu il suo primo amore lontano, tutto suo, poiché dell’ignoto musicista non seppe mai l’indirizzo, neppure il nome, – e se ne sapeva l’età e il sesso era perché i versi li svelavano: – ed egli non scrisse, non parlò, non cantò più. Fu come un grido d’uccello nella notte, un richiamo passeggero di usignuolo, illuso anche lui dal chiarore delle lontananze; la serenata di un fantasma di trovatore sceso dalla foresta lunare delle pagine di un libro romantico. Questo fatto cominciò a staccarla da Antonino, tanto più che egli non diede il minimo segno di essersi accorto di quello che per lei, certo, era un avvenimento straordinario. Un filo di dispetto si intrecciò ai ricordo di lui, anzi fu come una trama che si rompe, in un tessuto prezioso, e a poco a poco tira le altre, irrimediabilmente. Poi un’altra cosa accadde: un altro poeta si accorse di lei: e questo era vicino e accostabile: oh, anche troppo, accostabile, poiché egli faceva di tutto per esserlo. Ma, ahimè! era un ben piccolo e triste e meschino poeta, in tutto. Era zoppo, fin dalla nascita; non poteva studiare per mancanza di mezzi, non riusciva a trovare un posto decoroso per mancanza di studio: era il figlio illegittimo del cancelliere, quello venuto ad abitare in fondo alla strada, e, si diceva, del cancelliere stesso, che non lo riconosceva ma se lo tirava appresso, lo manteneva, gli faceva fare il copista, e gli permetteva di scrivere versi.
Il cancelliere era vedovo: aveva due figlie già anziane, una tutta riccioli neri, tinti e grassi, l’altra di un biondo di stoppia bruciata, con una guancia pelosa come quella di un gatto. Si volevano tutti bene: le ragazze sognavano un ricco matrimonio per il presunto fratello. Fortunio, si chiamava, ed esse speravano che il nome gli portasse fortuna: ed era anche bello di viso, con due grandi occhi castanei, femminei, i capelli lisci, dello stesso colore, quasi della stessa lucentezza, un non so che di carezzevole e languido in tutta la persona, anche nel modo di trascinare la gamba storta con la scarpa che pareva di ferro.
Le sorelle riuscirono a fare amicizia con Cosima; un’amicizia un po’ sostenuta e cerimoniosa, però; mandavano la serva a domandare quando potevano, senza disturbo, far visita, e arrivavano puntuali, coi vestiti nuovi, i cappellini che sembravano spoglie di pappagalli; e trovavano sempre il modo di parlare di Fortunio: sì, anche Fortunio aveva pubblicato un volumetto di versi; anche Fortunio scriveva un romanzo; anche Fortunio riceveva e spediva tante lettere. Ne mandò una anche a lei, con la serva, e istintivamente Cosima la nascose: ma quando l’aprì rise, un po’ delusa, poiché il collega la pregava di tradurgli in italiano una parola dialettale molto usata nella città, ma della quale egli non sapeva con precisione il significato. Ella rispose: egli scrisse ancora, ringraziando. Le loro lettere avevano le impronte oleose delle dita della serva.
Poi l’amicizia si strinse: Cosima andò con le sorelle a visitare le nuove amiche e osservò che la loro casa era povera, disordinata, quasi sudicia: e quei riccioli neri unti, quella frangia di stoppia che ricadeva fin sugli occhi bianchi della più vecchia delle zitelle, le destarono un senso di diffidenza, quasi di ripugnanza. Che si ingrandì questo senso, quando, non seppe come, le due streghe trovarono il modo di condurre le ragazze più piccole a vedere un vaso di gerani nella loggetta della casa, e nella stanzetta che serviva da pranzo e da ricevere entrò come per caso lo zoppo. Ella che s’era piegata a guardare sul tavolo coperto da un tappeto fatto con orribili ritagli di scatole di fiammiferi, alcune di quelle immagini con paesaggi, sentì la scarpa di lui come la zampata di un cavallo che si ferma davanti ad un ostacolo: e balzò in piedi rossa e spaventata.
A dire il vero anche lui arrossì e le sue labbra tremarono: ma ciò valse a far notare a Cosima che egli aveva una bella bocca, carnosa ma non sensuale, o, se mai, di una sensualità sana e attraente come quella di un frutto maturo. Per la prima volta ella ebbe la sensazione di ciò che doveva essere un bacio, la sensazione fisica; un bacio carnale, fra due che si desiderano e sono spinti ad attaccarsi l’uno all’altro da una terribile forza di natura: e anche la sua bocca tremò, ma come quella di un bambino che sta per piangere e neppur lui sa perché.


  1. Rosa di macchia: in realtà Fior di Sardegna. (La prefazione, dell'A., al Fiore, comincia con queste parole:“Fermarsi in un sito sconosciuto e montuoso dell'isola di Sardegna, cogliere fra i lentischi e le roccie una timida rosa montana, nata all'ombra degli elci e fra i profumi delle folte borraccine, - esaminarla foglia per foglia… ecco il modesto scopo del presente racconto”. Il romanzo, ed. da Perino nel 1891, è dedicato “Alla contessa Elda di Montedoro in segno d'affettuosa gratitudine”. Tale era lo pseudonimo di Epaminonda Provaglio, direttore - come s'è detto - dell'Ultima Moda, col quale la giovine scrittrice ebbe dall'isola frequente carteggio ignorando per un po' di tempo sesso e carattere del suo corrispondente. “Hai ragione su quanto mi scrivi circa il mio modesto romanzo”, scriveva la D. alla immaginaria Elda, “mi correggerò sempre più sui difetti che ti son gratissima di avermi indicato, ma permettimi che io non accetti l'inverosimilità dei capitoli in cui Lara e Massimo si trovano insieme per quasi una notte intera senza che per ciò accadesse qualche guaio… È vero: la virtù di Lara è un po' troppo invulnerabile, un po' troppo fenomenale [a [pag. 101] di Cosima, conviene sul carattere libresco di quegli amori e immaginario di quei convegni notturni], ma dimmi, se Lara non fosse stata così si sarebbe poi meritata il nome di Fiore che ho messo per titolo alla sua storia? E che mi dirai se ti assicuro che la tela di quel convegno io la ho rubata dalle lettera di un giovine scritta ad una fanciulla pallida e triste come Lara, il giorno dopo una notte passata insieme così, in un angolo di cortile, sotto un mantello, e senza alcun danno?… Oh, Elda, Elda! Tu l'hai detto: io conosco profondamente il cuore umano e, benché sia molto giovine, forse non ho più nulla a imparare su ciò: i personaggi del mio racconto non sono esistiti, ma le passioni che ho descritto sono quasi generali in tutti, ed io non ho dovuto semplicemente studiare intorno a me, dentro di me, nel libro della vita…”. Lettera del 16 gennaio 1892 pubbl. in Quadrivio, 23 agosto 1936. La Deledda rifiutò sempre di ristampare qual suo romanzo giovanile e s'imbronciava a sentirselo ricordare. Fu spesso ristampato alla macchia.
  2. “Le farò la mia silhouette in due o tre righe. Ho vent'anni e sono bruna e un tantino anche… brutta, non tanto però come sembro nell'orribile ritratto posto in prima pagina di Fior di Sardegna… Sono una modestissima signorina di provincia, che ha molta volontà e coraggio in arte, ma che nella sua vita intima, solitaria e silenziosa, è la più timida e mite ragazza del mondo”. Lett. A E. Provaglio, 15 maggio 1892 (Quadrivio, num. cit.) Molte volte, col favore della terza persona romanzata, la D. tornerà a delineare il proprio ritratto fisico e morale intorno a quel tempo giovanile. Tra i più riusciti quello del primo capitolo de Il paese del vento: “Piccola, scura, diffidente e sognante come una beduina [Io son di saracino sangue ardente…, cominciava una poesia intitolata Noi pubblicata in “Sardegna artistica” nel febbraio del 1893] che pur dal limite della sua tenda intravvede, ai confini del deserto, i miraggi d'oro di un mondo fantastico, raccoglievo negli occhi il riflesso della vastità ardente…” Ivi, a [pag. 12], ritroveremo nel cortile un mufloncino che ci riconduce a quello dello straordinario racconto di proto, [pag. 29] di Cosima. Altra bella storia di muflone malinconico e fedele nella prima parte del romanzo Il vecchio e i fanciulli (1928). Nel racconto intitolato Il mio padrino in Il dono di Natale la D. ricorda il dono che il padrino per appunto le fece di un piccolo muflone.
  3. Sullo scandalo che fecero a Nuoro i primi scritti stampati della D. vedi la cit. Casa paterna in Nell'azzurro e Primi passi in “Corriere della Sera” del 21 giugno 1930.