VIII.

Giusto e buono era il signor Antonio, e tutti lo amavano. Esercitava, senza volerlo, senza accorgersene, un fascino benefico su tutti quelli che lo avvicinavano. Eppure la sua parola era semplice, disadorna; ma il suono della sua voce che saliva profondo dall’anima tutta fatta di verità e d’indulgenza, era come una musica che esprimeva l’inesprimibile. Del resto egli aveva una certa cultura, ed era, in fondo, un poeta. Aveva studiato a Cagliari, quando ancora si viaggiava da una città all’altra a cavallo, e aveva portato i suoi libri e le sue provviste entro le bisaccie, come un pastore o un contadino che va a seminare il grano in luoghi lontani. Aveva studiato ciò che in quel tempo si chiamava Rettorica, o preso il diploma di procuratore. A dire il vero non esercitava questa nobile professione, ma molti ricorrevano a lui per consigli e consultazioni legali, profondamente persuasi della sua saggezza e sopra tutto della sua rettitudine.
Il commercio lo aveva quasi arricchito. Ma, come un umanista primitivo, egli coltivava anche gli studi poetici: le sue poesie erano dialettali, tuttavia in una forma che si avvicinava alla lingua italiana. Bravo anche come poeta estemporaneo, raccoglieva a volte intorno a sé altri campioni famosi in quelle gare, e competeva coi più bravi e inspirati. E aveva iniziative geniali, anche come proprietario e come agricoltore. Tentò piantagioni di agrumi, di sommaco, di barbabietole: l’aridità della terra rocciosa, bruciata da lunghe siccità, frustrò i suoi tentativi. Impiantò anche una piccola tipografia e stampò a sue spese un giornaletto, e le poesie sue e dei suoi amici: fallimento completo anche questo.
Nelle ore di riposo, alla bella stagione, sedeva all’ombra della casa, davanti alla porta, leggendo i giornali. Tutti quelli che passavano lo salutavano o si fermavano addirittura a conversare con lui. E se passava una donna bisognosa, egli traeva in silenzio dal taschino una moneta e gliela porgeva, accennandole, col dito sulla bocca, di non fiatare. Così, tutti si allontanavano consolati.
Oltre ad Antonino, frequentava la casa un altro giovanissimo studente, già compagno di scuola di Andrea. Era un ragazzo smilzo, dal profilo rapace, gli occhi inquieti e diffidenti, orgoglioso e ambizioso, e di una serietà insolita alla sua età. Ma anche lui apparteneva ad una famiglia mista, che non era borghese ma neppure esclusivamente paesana, che anzi vantava essere di pura e antica razza locale: abitavano in una casa buia, in fondo a un cortile chiuso, quasi murato come una prigione; e tutti della famiglia, il padre alto e già quasi vecchio, i fratelli, le sorelle, delle quali una bellissima e con rari occhi celesti, erano di una rigidità quasi tragica. Scarso il patrimonio, tanto che quando si trattò di mandare il ragazzo a studiare a Cagliari, si dovette fare sacrifici. Ma Gioanmario, lo studente, dava buone promesse. Durante quelle ultime vacanze, mentre si preparava a partire, le sue visite diventarono più frequenti. Tutte le sere cercava di Andrea, pur sapendo che l’amico non era in casa, e coglieva tutte le scuse per attardarsi con le ragazze. I suoi discorsi le interessavano: per lo più egli riportava le notizie del paese, i pettegolezzi, le storielle di innocenti amori fra studenti e fanciulle del luogo: Cosima e sopra tutto Enza lo ascoltavano incantate. Enza era già quasi una signorina, un po’ strana, a volte taciturna a volte di una allegria insolente e isterica.
Non si tardò ad accorgersi che lei e Gioanmario si erano stretti con un legame d’amore; trovarono il modo di vedersi in segreto e l’opposizione della famiglia di lei, che sperava in un matrimonio più sollecito e solido, aumentò la loro passione. Fu una vera passione, alimentata dal carattere quasi violento dei due ragazzi. Gioanmario si mise a studiare con dura tenacia, e in soli due anni superò gli esami del liceo, inscrivendosi poi alla facoltà di legge. Ma lo studio, le privazioni, l’orgoglio punto dalla persistente ostilità della famiglia di Enza, lo rendevano cupo e nervoso. A volte i suoi occhi erano venati di rosso, e la voce aspra, le parole amare.
Vennero però tristi giorni anche per la famiglia di Cosima: Andrea non andava bene: si diceva che già avesse un figlio, da una bella ragazza del popolo, e che giocasse coi suoi amici scapestrati. Invano il signor Antonio cercava di richiamarlo sulla buona strada: lo mandava a sorvegliare i lavori delle carbonaie, a vigilare i poderi. Andrea obbediva; era, come si disse, buono e molto generoso, ma anche lui trascinato da istinti di razza, sensuale e impulsivo. E anche l’altro, il maggiore, si era, dopo la disgrazia dei fuochi artificiali, come incrinato. Incrinato: come s’incrina ad un urto una tazza di cristallo, un vaso di porcellana. Continuava i suoi studi, all’Università di Cagliari, mentre Antonino aveva ottenuto, poiché la sua famiglia ne aveva a sufficienza i mezzi, di andare a Roma.
Forse anche la lontananza dell’amico fu per Santus dannosa: egli cominciò a frequentare compagni meno intelligenti e fini, e a domandare denari più del necessario. Anche di lui si seppe che studiava sempre meno, e che beveva. Questo fu un grave dispiacere per tutti.
Il signor Antonio divenne pensieroso; la madre sempre più taciturna e melanconica. Che fare? La vita segue il suo corso fluviale, inesorabile: vi sono tempi di calma e tempi torbidi, a cui nulla può mettere riparo: e invano si tenta di arginarla, di opporsi anche di traverso nella corrente per impedire che altri venga travolto. Forze occulte. Fatali, spingono l’uomo al bene o al male; la natura stessa, che sembra perfetta, è sconvolta dalle violenze di una sorte ineluttabile. Il signor Antonio, e più di lui la signora Francesca, si piegavano sulla china che pareva franasse sotto i piedi dei loro figliuoli: si rimproveravano, ciascuno però per conto proprio, di non aver saputo creare, con l’educazione, l’energia, la costanza, il sacrificio di tutte le ore, un terreno più solido e sicuro per il cammino dei loro figli: il signor Antonio aveva loro comprato terreni e greggi, la signora Francesca aveva per loro risparmiato anche il centesimo: che valeva? Anzi valeva forse dannosamente, perché, senza il benessere e l’avvenire assicurato, i ragazzi sarebbero stati costretti a lavorare e crearsi da loro una posizione.
Fantasie, forse, anche queste: poiché c’erano intorno esempi di gente povera, o mediocre, che tuttavia era spinta da un destino di dolore e di colpa, molto più triste di quello dei fratelli di Cosima. Se n’era avuto un caso nel disgraziato Juanniccu. E un altro caso anche più doloroso colpì un cugino, figlio di una sorella del signor Antonio, severa e intelligentissima donna, rimasta vedova in giovine età con parecchi figli da allevare: possedeva, è vero, una certa sostanza, e non le mancava l’aiuto dell’altro fratello sacerdote che conviveva con lei; ma era una donna litigiosa, che per motivi da nulla intentava causa ai suoi vicini e confinanti di terra e di domicilio, e si faceva mangiare buona parte delle sue entrate dagli avvocati e dalle spese di giustizia. Da piccoli proprietari che erano, i figli custodivano personalmente il loro patrimonio; ma il cugino era sanguigno, ambizioso e violento, e cominciò con l’appropriarsi di qualche capo di bestiame per aumentare il suo gregge. Scoperto, fu punito. Aveva venticinque anni: era bello, alto, robusto; in guerra sarebbe stato un ottimo condottiero.
Ma la vita, l’ambiente, il destino, erano così. E anche nella casa di Cosima s’era introdotto il male, subdolo, velenoso, forse inevitabile, come tutti i mali del mondo. Anche Andrea fu trascinato, una notte, ad una impresa di quelle che certi giovani facevano più per spacconeria che per malvagità. Rubarono galline: ma furono anch’essi presi. Un lutto più che mortale ottenebrò la famiglia del signor Antonio: egli si accorò talmente che, fatto ogni più grave sforzo per salvare il figliuolo, si accasciò e si ammalò. Furono mesi e mesi di dolore rodente, quasi di disperazione. Finché l’uomo buono, l’uomo saggio e giusto, cadde, e la famiglia rimase come l’umile erba tremante all’ombra della quercia fulminata.[1]


  1. Lettera a Epaminonda Provaglio direttore de l'Ultima Moda, stampata in Roma dall'editore Edoardo Perino. (Quadrivio, Roma, 23 agosto 1936). “Mio padre è vecchio vecchio: colto da paralisi parla a stento e rimane silenzioso e cammina solo aiutato. Mia madre, tutta casa e famiglia, vestita in costume non esce mai. Dei fratelli, uno studia a Cagliari, l'altro, oramai capo-famiglia, passa i suoi giorni tra gli affari sempre a cavallo attraverso le nostre grandi tenute, pei monti e per le valli: mia sorella maggiore è fidanzata con un giovine avvocato r se ne andrà fra poco con lui; altre due sorelle, che completano la famiglia, sono piccole, quindici, tredici anni, e si divertono per conto loro senza pensare a me…” (marzo 1892). (Allo stesso) “Oh se tu sapessi come amo il mio babbo, e come egli era buono! Tutti, tutti gli vogliono bene. È vissuto beneficando, lasciando benedizioni dietro di sé, e non a Nuoro soltanto, ma in tutto il circondario. Vi furono anni di carestia, mi ricordo, in cui egli sostentò del suo intere famiglie, e una volta fece venire dal continente un bastimento di polenta per un miserabile villaggio, perduto nei monti più desolati, che moriva di fame, senza aiuto negli orrori dell'inverno…” (luglio 1892) (Allo stesso) “Avrai ricevuto il doloroso annunzio della morte del babbo mio… Benché preveduta, e da tempo, questa disgrazia ha scosso profondamente le basi della felicità mia e di tutti i miei. Io ho sofferto tanto, tanto, che mi pare che non si possa soffrire di più. Ma ora sono calma e ritorno, a poco a poco, alle mie antiche abitudini ed ai miei antichi pensieri. Nella tristezza del lutto mi pare che il babbo amato mi sia sempre vicino, più di prima, e che il suo spirito aleggi sempre intorno a me, preservandomi da ogni sventura, e guidandomi nella buona via… Come vedi, però, le mie novelle sono molto tristi, e la mia esistenza è più che mai oscura e monotona. Tu non puoi immaginarti, con che rigidezza qui si osservi il lutto. Le nostre finestre son chiuse ed io non mi posso neppure avvicinare ai vetri. Per due o tre mesi noi donne dobbiamo stare ermeticamente chiuse in casa e poi ci sarà concesso di uscire sì, ma per ricambiare solo le visite o per andare in chiesa. Niente passeggio, a meno che non sia in campagna, nessuno svago, e un contegno sempre rigorosamente triste… E così per tre o quattro o magari cinque anni. Per buona fortuna io sono quasi avvezza a questa tetra esistenza, e spero di cambiarla fra due anni al più tardi; altrimenti questo lutto artificiale unito al lutto intimo, mi ucciderebbe…” (novembre 1892). A Onorato Roux: lettera del marzo 1907, pubblicata in Infanzia e giovinezza di illustri italiani contemporanei, ed. Bemporad, Firenze, 1908, vol. I, parte 2a : “Mio padre era un uomo intelligentissimo: poeta estemporaneo, dialettale. Di una bontà incredibile, egli conservava, forse, la sua natura di poeta anche nel trattare gli affari, perché aveva fiducia di tutti, si lasciava raggirare da tutti. La nostra casa era come una specie di piccolo albergo gratuito. Da venti paesi del circondario di Nuoro venivano ospiti che se ne stavano due, tre e persino otto giorni in casa nostra. Erano tipi caratteristici: popolani, borghesi, preti, nobili, servi, dei quali io conservo vivissimo il ricordo…”.