X.

Adesso Cosima aveva quattordici anni, e conosceva dunque la vita nelle sue più fatali manifestazioni. Ma nonostante quella paura misteriosa della fatalità che si era annidata nel suo cuore, poiché questo cuore era poi fisicamente e moralmente forte, ella aveva ereditato dal padre e dagli avi paterni, quasi tutti agricoltori e pastori, quindi patriarcalmente unici alla terra e alla natura, un fondo di bontà, d’intelligenza, di filosofia, e sentiva profonda la gioia di vivere.
Durante l’infanzia aveva avuto le malattie comuni a tutti i bambini, ma adesso era, sebbene gracile e magra, sana e relativamente agile e forte. Piccola di statura, con la testa piuttosto grossa, mani e piedi minuscoli, con tutte le caratteristiche fisiche sedentarie delle donne della sua razza, forse d’origine libica, con lo stesso profilo un po’ camuso, i denti selvaggi e il labbro superiore molto allungato; aveva però una carnagione chiara e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati e gli occhi grandi, a mandorla, di un nero dorato e a volte verdognolo, con la grande pupilla appunto delle donne di razza camitica, che un poeta latino chiamò “doppia pupilla”, di un fascino passionale, irresistibile.
Per la morte di Enza fu ripreso il lutto, chiuse ancora le finestre, ripresa una vita veramente claustrale. Ma un lievito di vita, un germogliare di passioni e una fioritura freschissima d’intelligenza simile a quella dei prati cosparsi di fiori selvatici a volte più belli di quelli dei giardini, univa le tre sorelle in una specie di danza silenziosa piena di grazia e di poesia. Le due piccole, Pina e Coletta, leggevano già anch’esse avidamente tutto quello che loro capitava in mano, e, quando erano sole con Cosima, si abbandonavano insieme a commenti e discussioni che uscivano dal loro ambiente e dalle ristrettezze della loro vita quotidiana. E Cosima, come costretta da una forza sotterranea, scriveva versi e novelle.
Da sua parte Andrea aveva molti difetti, ma era anche generoso e gioviale. Forse troppo: e la sua generosità era alimentata da un po’ di amor proprio, di vanità, di boria: ma spesso era schietta e istintiva: aveva, poi, impeti di vero entusiasmo per cose che agli altri sembravano degne di poco aiuto, se non proprio di essere contrariate; e allora gli sembrava di fare atto di giustizia mettendosi dalla parte del debole. Così, quando si venne a sapere che la sua sorellina Cosima, quella ragazzina di quattordici anni che ne dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una piccola cerbiatta, era invece una specie di ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e anzi della razza, poiché s’era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei un quasi losco avvenire, Andrea prese a proteggerla e tentò, in modo invero molto intelligente ed efficace, ad aiutarla.
Egli aveva fatto solo il ginnasio, e sebbene avesse appena ventidue anni si occupava adesso dell’amministrazione dei beni lasciati dal padre, traendone, è vero, molto profitto per sé e per i suoi divertimenti; ma leggeva, anche, e in certo modo era al corrente degli avvenimenti letterarî. L’eco di questi era sempre portata alla piccola città da Antonino, lo studente di lettere del più intimo amico di Andrea.
Questo fratello si chiamava Salvatore, e aveva anche lui preferito allo studio la vita beata del piccolo proprietario sempre a cavallo per i suoi campi ad aizzare il lavoro dei servi e a divertirsi poi con le belle e ardenti ragazze del paese: e si beffava, pur ammirandolo in segreto, di Antonino, che aveva le mani bianche e affusolate di donna e gli occhi pieni di sogni; e non era buono neppure a montare sulla giumenta sulla quale balzavano d’un salto le servette di casa per andare a prender l’acqua alla fontana: come nei suoi eterni studi, nelle Università più celebri del Continente, spendendo tutti i risparmi della famiglia, non riusciva o non voleva riuscire a prendere la laurea. Ad ogni modo questo bellissimo, questo elegante e quasi principesco studente (e in quei tempi e in quel luogo la parola studente significava ancora un essere superiore: un uomo al quale potevano essere assegnati i più alti e potenti destini della terra) portava davvero nella cerchia familiare, primitiva, isolata, quasi condannata a un esilio dal mondo grande, un soffio di quella grandezza tanto più luminosa quanto più lontana. Egli parlava di Re, di Regine, di alti personaggi politici, di artisti e di letterati, come fossero tutti suoi intimi amici.
Sulla figura di Gabriele d’Annunzio, allora in tutto il suo più radioso splendore, circonfusa inoltre dall’aureola di notizie leggendarie, egli si appoggiava sopra tutto, come il credente si appoggia alla colonna del tempio per riceverne forza e maestà.[1]
Le cose raccontate dal buono, dall’epico Antonino, infiammavano di folli sogni il cuore del rude, ma anche lui a suo modo epico Andrea. Egli cominciò a fantasticare sulla piccola Cosima. Bisognava pertanto aiutarla. La mandò a prendere lezioni d’italiano, poiché a dire il vero ella scriveva più in dialetto che in lingua, da un professore di ginnasio. Queste lezioni accrebbero il senso di ostilità istintiva che la piccola scrittrice provava per ogni genere di studi libreschi, a meno che non fossero romanzi o poesie.
Più efficaci furono le lezioni pratiche che il fratello volonteroso le procurò facendole conoscere tipi di vecchi pastori che raccontavano storie più mirabili di quelle scritte sui libri, e portandola in giro, nei villaggi più caratteristici della contrada, alle feste campestri, agli ovili sparsi nei pascoli solitari e nascosti come nidi nelle conche boscose della montagna.
Una di queste gite fu meravigliosa, anche perché fatta in buona compagnia. Oltre al fratello di Antonino, c’erano altri amici di Andrea, quasi tutti studenti mancati, che ai tormentosi fasti del vocabolario preferivano quelli della fisarmonica e la Odissea[2], se la creavano da sé prendendosi a pugni per qualche bella giovane paesana e poi riconciliandosi in banchetti ove le ossa degli agnelli arrostiti alla viva fiamma si ammucchiavano ai loro piedi come sotto le mense degli eroi e conti di Re Carlo.
Uno di questi banchetti fu apprestato quel giorno, nell’ovile delle tancas paterne di Andrea e di Cosima. Ai pastori porcari, che avevano finito la loro stagione, erano seguiti quelli di pecore e di capre. Le pecore brucavano l’asfodelo secco, i cui lunghi steli dorati scrocchiavano fra i denti delle bestie come grissini, e le capre nere, dalle teste diaboliche, si profilavano sulla madreperla delle cime rocciose.
Quel giorno Cosima imparò più cose che in dieci lezioni del professore di belle lettere. Imparò a distinguere la foglia dentellata della quercia da quella lanceolata del leccio, e il fiore aromatico del tasso barbasso da quello del vilucchio. E da un castello di macigni sopra i quali volteggiavano i falchi che parevano attirati dal sole come le farfalle notturne dalle lampade, vide una grande spada luccicante messa ai piedi di una scogliera come in segno che l’isola era stata tagliata dal continente e tale doveva restare per l’eternità. Era il mare che Cosima vedeva per la prima volta.
Certo, fu una giornata indimenticabile, come quella della cresima, quando un fanciullo che crede fermamente in Dio si sente più vicino a lui, lavato del tutto dal peccato originale. Tutto pareva straordinario a Cosima, persino il grido rapace delle ghiandaie e i cardi spinosi fra le pietre arse: ma invece di esaltarsi si sentiva piccola e umile accanto alle rocce che scintillavano come rivestite di scaglie, e ai lecci millenari che sembravano più antichi delle stesse rocce. L’ombra era fitta, e se qualche nuvoletta solcava il cielo sembrava si afferrasse alle cime più alte, in certi piccoli squarci del bosco, come i fanciulli che guardano in fondo a un pozzo. Ma il banchetto fu servito in una radura, per terra s’intende, tutta circondata da un colonnato di tronchi come un salone regale: per Cosima Andrea preparò con una sella e una bisaccia una comoda poltrona; e i migliori bocconi furono per lei: per lei il rognone dell’agnello, tenero e dolce come una sorba matura; per lei il cocuzzolo del formaggello arrostito allo spiedo, per lei il più bel grappolo d’uva primaticcia portata appositamente dal fratello premuroso.
Si accorsero, i convitati, di queste gentilezze quasi galanti, e cominciarono a urtarsi coi gomiti; e come se una parola d’ordine si trasmettesse fra loro con questo gesto, un bel momento tutti sporsero verso Cosima le loro curiose forchette di stecchi di legno, e ad esse infilati pezzetti di carne, di pane, di cacio, di tutte le vivande che si trovavano sulla mensa. Ella arrossì, ma non pronunziò una parola: non aveva mai aperto bocca, del resto, durante tutto il tempo del banchetto, e pareva una estranea, sulla sua sella ricoperta dal drappo arcaico della bisaccia, coi suoi grandi occhi silenziosi, oscuri del cupo verde dell’ombra del bosco: come una delle piccole fate ambigue, non sai se buone o cattive, che popolano le grotte del monte e da millennii vi tessono, dentro, nei loro telai d’oro reti per imprigionare i falchi, i venti, le nuvole, i sogni degli uomini.
Era un po’ stizzita, però, che il fratello l’avesse esposta alla beffa, per quanto rispettosa, dei compagni; e non toccò più cibo, e, appena sfuggita all’attenzione dei convitati, si volse di fianco e parve balzare dalla sella come da un cavallo in corsa. Si allontanò rapida tra le felci della radura, sfiorandole con le braccia aperte, come una rondine che vola basso all’avvicinarsi del temporale, e tornò poi in cima al dirupo donde si vedeva il mare. Il mare: il grande mistero, la landa di cespugli azzurri, con a riva una siepe di biancospini fioriti; il deserto che la rondine sognava di trasvolare verso le meravigliose regioni del Continente. Se non altro ella avrebbe voluto restare lì sullo spalto dei macigni, come la castellana nel solitario maniero, a guardare l’orizzonte in attesa che una vela vi apparisse con i segni della speranza, o sulla riva balzasse, vestito dei colori del mare, il Principe dell’amore.
Le grida dei giovani nella radura la richiamavano alla realtà: si udivano anche i fischi dei pastori che radunavano il gregge, e ogni voce, ogni suono vibrava nel grande silenzio con un’eco limpida come in una casa di cristallo. Il sole calava dalla parte opposta, sopra le montagne di là della pianura, e già le capre, ancora arrampicate sulle vette, avevano gli occhi rossi come quelli dei falchi. Era tempo di ritornare a casa; e ricordando le sue giornate ancora fanciullesche, rallegrate solo dalle storielle ch’ella raccontava a sé stessa, ella si sentiva al cospetto del mare e sopra i grandi precipizi rossi di tramonto, come la capretta sulla vetta merlata della roccia, che vorrebbe imitare il volo del falco e invece, al fischio del pastore, deve ritornare allo stabbio.
E, invece, un fischio, più acuto e diverso dagli altri, le arrivò come una freccia, seguito da altri che lo imitavano beffardi. Era Andrea che la chiamava, avvertendola che non bisognava abusare della sua indulgenza di guardiano: e l’irrisione dei compagni le ricordava meglio ancora che le sue scorribande non erano sopportate che una volta sola dalle leggi della comunità dov’ella era destinata a vivere. Allora ella si alzò, ma scosse di nuovo le braccia, verso il mare, sembrandole di sfiorare le onde come poco prima aveva sfiorato le felci della radura, quale rondine che migra, dopo l’inverno caldo, sì, ma sterile, degli altipiani libici, verso le terre del sole, i rossi crepuscoli estivi, l’amore che solo concede il dono dell’eternità.


  1. Cancellate, ma leggibili, nel manoscritto seguivano le parole: “Questo tempio, questo San Graal col tabernacolo d'oro più sfolgorante del sole era la poesia di Gabriele d'Annunzio”.
  2. Nel senso popolare di avventura.