XVII.

Eppure un fatto che aveva dell’inverosimile, le avvenne: un fatto che superò tutte le altre vicende accadute fino a quel tempo, che a lei parevano, ma forse non erano, straordinarie. Erano passati tre giorni da che si trovavano nella vigna, tutti e tre eguali, limpidi, sereni. Ella s’era rimessa a scrivere, sul tavolinetto della camera da letto, davanti alla piccola finestra nel cui vano ronzavano le vespe senza però venire dentro. Inutile, fino a quel momento, intervistare Elia: pareva un uomo meccanico, Elia: si piegava, si sollevava, lavorando, senza muovere un muscolo del viso. E lingua in bocca, – come diceva il servo che chiacchierava per tutti e due, ma per dir frasi, proverbi, canzonette e scempiaggini che non interessavano Cosima.
Solo le mani di Elia avevano, a osservarle quando egli non se ne accorgeva, una strana sensibilità: mani scure e nodose, con le falangi coperte di peli, ma piccole, per un uomo così alto e lavoratore, a volte adunche come artigli, a volte aperte e quasi molli, come snodate. Con quelle mani egli era capace ancora di fare qualsiasi lavoro che gli venisse richiesto o che gli fosse necessario. Infatti si cuciva da sé le vesti, lavava, si faceva le scarpe, gli occhiali, gli arnesi di lavoro, preparava la conserva dei pomidori e seccava i fichi, fabbricava, con una certa creta da lui scovata fra i giunchi, vasi e pentole: e lavorava anche da stagnaio e da falegname. La sua stanzetta sembrava un museo archeologico, con una raccolta persino di pietre cercate nella brughiera, che sembravano tartarughe, conchiglie, ossa fossilizzate. E stava zitto, rispondendo solo sì e no alle domande della padrona, che anche lei, del resto, cavava fuori le parole con diffidenza sospettosa, come gemme da uno scrigno.
Or dunque, quale non fu la meraviglia di Cosima, quando la sera del terzo giorno, ritornando dalla solita passeggiata, sentì che i due taciturni parlavano fra di loro. Stavano nella prima delle stanzette e la madre cucinava qualche cosa nel camino. La porta era aperta, ed essi non si accorsero della presenza di Cosima, che, ferma fuori, ascoltava. Del resto il discorso era semplice: ma il suo tono amichevole, nella voce di quei due, un po’ lamentoso nella padrona, confortante in quella del servo, sorprese la fanciulla. La madre non le aveva mai parlato in quel modo: e d’altronde era proprio di lei che si lagnava. Diceva:
– Andrea tarda, stasera: speriamo non sia accaduto nulla, laggiù: ho sempre paura. E anche quella stordita che se ne va in giro come una capra.
– Non abbia timore, – rispose l’uomo, con una voce fra roca e dolce, ma anche quasi canora, che la padroncina non gli conosceva; – c’è Ippolito che è andato a raccogliere sterpi per il fuoco, e la sorveglia. Poi non si è quasi mai sentito niente, in questi posti. Chi vuole che veda la signorina? E poi è tanto savia, quella: non c’è pericolo che abbia dato appuntamento all’innamorato.
– Non si sa mai, insisteva la madre: e Cosima pensò in sua coscienza che realmente, su questo punto, si potevano elevare dubbi. – Le ragazze sono tutte stordite: quella, poi, ha certe idee in testa. Tutte quelle scritture, quei cattivi libri, quelle lettere che riceve. E non è venuto anche, a trovarla, un omaccione rosso come la volpe? e da lontano, è venuto, e poi ha scritto di lei sui giornali? La gente mormora. Cosima non troverà mai da sposarsi cristianamente: e anche le sorelle ne risentiranno, perché in famiglia tutto sta a sposar bene la primogenita. È vero che… – giunse con ancora più lamentosa, – ci sono anche i fratelli, che non ci fanno troppo da sostegno: oh, tu lo sai bene, Elia.
Egli lo sapeva: eppure aveva una fede cieca, un attaccamento appassionato per il signorino Andrea: ed anche la sua voce tremolò quasi di pianto quando ne parlò.
– No, padrona, non si lamenti troppo del signorino Andrea. È buono, posso dire, quasi quanto lo era il signor Antonio: solo, è troppo generoso; è troppo amico di cattivi amici. Ma del resto bada alla roba, e ama le sorelle in modo particolare.
– Bada alla roba? Sì, ma per pigliarsi lui quasi tutta la rendita: e gioca, e va con le male donne. Questa la chiami bontà? Lo chiami amore per la famiglia? Andrea ci lascia appena il tanto per pagare i servi e le tasse. Io non dormo, un giorno o l’altro l’esattore verrà in casa a sequestrare: lo vedo in sogno, ne ho paura come del demonio. Oh, oh: Elia; e tutto questo perché i miei figlioli hanno abbandonato le vie del Signore.
– Lei esagera, padrona: ci sono figli peggiori: tutte le famiglie hanno la loro croce. Il signorino Andrea, dopo tutto, bada alla roba e la fa fruttare: è, dirò così, come un fattore, che si piglia la porzione maggiore. Ma poi metterà giudizio.
– No, Elia, non lo spero. D’altronde, che si fa? Siamo povere donne sole, con quel castigo terribile di Santus: e bisogna pure appoggiarsi ad Andrea. Tante volte penso di dividere il patrimonio: a ciascun figlio il suo: ma sarebbe peggio, poiché il disgraziato Santus in pochi mesi cadrebbe nella miseria, e anche il tuo signorino Andrea si giocherebbe la sua parte. Non c’è via di uscita: bisogna soffrire. E poi io voglio bene ai miei figli: troppo bene gli voglio; più sono disgraziati più li amo e li compatisco. Ma quella Cosima! È quella che più mi dà pensiero.
– E invece sarà quella che più le darà consolazioni: vedrà.
Ma la madre, mentre rimuginava nella padella le patate che lentamente si arrossavano e spandevano un buon odore, continuava a sospirare.
– Non è questo, Elia, io non ho bisogno di consolazione: la mia strada è finita, e nulla esiste più per me tranne il bene dei miei figli. Ma essi non seguono la via giusta, quella che abbiamo percorsa io e il padre loro, benedetto sia. Sarà mia la colpa: sono una donna senza forza e senza volontà; ma loro dovrebbero capirlo. E se parlo così con te, questa sera, Elia, è perché so che tu solo puoi compatirmi.
– Oh, padrona! – egli esclamò: e una commozione sincera, piena di sorpresa e di gratitudine, gli vibrava nella voce: probabilmente nessuno, da molto tempo, gli aveva parlato così. E intese forse quello che la padrona voleva dirgli, che anche lui aveva peccato e sofferto, ma era rientrato nella giusta via, perché aggiunse: – Le strade del Signore sono tante, ed Egli aiuta sempre i buoni cristiani.
– Tu, dunque, credi in Dio? Io, vedi, a volte, non ci credo più.
– Non so: anche io non vado a messa da venti anni. Non so: non so: ma so che ad essere buoni e pazienti ci si guadagna sempre. E, dunque, padrona, coraggio.
Tacquero un momento: si sentiva il friggere sommesso della padella sulla fiamma: un odore di gente umile ma rassegnata usciva da quella stanzetta solitaria. Il pino vibrava ancora di fruscii, di pigolii, di vaghi lamenti, e dallo stradone arrivava il rumore di un passo di cavallo: Andrea. Cosima sentiva voglia di appoggiarsi al muro e piangere: in quel momento avrebbe rinunziato a tutti i suoi sogni, pur di consolare la madre: pensò che bisognava almeno darle il conforto della speranza di un buon matrimonio, fra lei e un qualche bravo giovane del luogo, e passò in rassegna tutti i proprietari, i professionisti, gli impiegati di sua conoscenza. Ma essi erano tutti imbevuti del pregiudizio che ella non potesse, con quella sua passione dei libri, diventare una buona moglie: né, d’altronde, ella voleva più umiliarsi con nessuno. E fu in quel momento che le venne l’idea di muoversi, di uscire dal ristretto ambiente della piccola città, e andare in cerca di fortuna. Per dare consolazione alla madre.
Intanto continuava a scrivere, davanti alla piccola finestra ronzante di vespe. Ma era un po’ disorientata, per le parole della madre e perché non trovava un vivo argomento ai suoi nuovi racconti. La vita le sembrava piatta, incolore, sebbene invece dentro di lei sentisse muoversi un dramma di incertezze, di scrupoli, di melanconia. Le pareva di esser già vecchia, piena di esperienza e col fiore della speranza già appassito fra le dita. Pensava fosse effetto della solitudine, della povertà del luogo e della sua stessa vita: e disperava di poter ritrovare una occasione di guardare la vita altrui, ricca di dolori, di miserie, di esaltazioni e di umanità umile e grande nello stesso tempo, come nel cerchio nero del molino di olive. Non contava più in Elia, e neppure nel movimento della vicina vendemmia, della quale aveva già conosciuto i colori d’idillio, e li aveva anche già riversati in qualche sua novella.
Invece un piccolo accidente accadde, mentre le donne venute apposta per la faccenda, spinte e pizzicate da Ippolito, coglievano l’uva deponendola in cestini a doppia ansa, che poi trasportavano in due, dondolandoli come culle, versandone i grappoli in un carro apposito, foderato di stuoie, che appena colmo veniva portato in città per la manipolazione del vino. Una di queste donne aveva portato un bambino, che per un po’ s’era trastullato tra i filari delle viti, poi, scomparso, s’era ad un tratto sentito piangere e gridare. Tutti si slanciarono a cercarlo, con urli di richiamo e di spavento: solo Elia non aprì bocca, ma andò dritto alla vasca e vi si gettò, vestito, traendo il bambino che scosse e fece sgocciolare come uno straccio bagnato.
Fu solo un po’ di paura: ma alla sera il vecchio ebbe qualche brivido di febbre, e si fece più rigido del solito. All’alba però già era all’opera nella vigna: finita la vendemmia le donne se ne andarono, ed anche la padrona dichiarò che voleva tornare a casa per presiedere alla pigiatura dell’uva: senonché Elia s’era d’improvviso buttato giù sul suo giaciglio e pareva un cadavere. Non si poteva abbandonarlo così; anzi si pensò di far venire un dottore, e se il servo si aggravava di portarlo in paese. Queste premure parvero scuoterlo e ravvivarlo. Cosima gli offrì una tazza di caffè, gli aggiustò il giaciglio, rimise in ordine la stanzetta. E ogni tanto lo guardava con occhi pietosi, senza dimostrare ripugnanza per quel lungo corpo ricoperto di stracci maleodoranti come quello di un mendicante, coi grossi piedi scalzi terrosi e tutti tagliuzzati per cicatrici di sterpi e spine, che pareva avessero camminato attraverso interminabili lande per arrivare a quel piccolo rifugio ospitale. Egli stava ad occhi chiusi; ma d’improvviso li aprì, un po’ febbrili e lucidi, e la guardò come un cane malato. Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenìo in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse:
– Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.
Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l’occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile.
– Andate, andate pure, – disse, – Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l’uva e metterla nel tino.
– Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi, – disse Cosima, tentando di scherzare. – C’è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti così, zio Elia.
Ella lo chiamava così, come si usava con tutti i vecchi servi; ma era la prima volta che egli si sentiva accomunato agli altri, come fosse nato nella stessa terra e tutto il suo passato sprofondasse quasi in una vita anteriore. Tuttavia non parlò, non dimostrò la sua gratitudine: anzi fece un po’ indispettire la padroncina col rispondere sempre con un cenno negativo del capo a tutte le sue domande premurose. No, egli non voleva il dottore, non voleva muoversi, non voleva che nessuno si disturbasse per lui. Vecchio testardo. Pareva volesse morire solo, come solo era vissuto. Ma le padrone restarono, finché arrivò Andrea che portò del chinino: si discusse però se si doveva o no somministrarlo al malato: e del resto la discussione fu vana, perché egli dichiarò che non avrebbe preso nessuna medicina.
Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d’oro e d’ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c’è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento. Storie spaventose di banditi e malfattori, che in notti simili sbucano come demoni dalla tempesta e assalgono le dimore solitarie, tornavano in mente alle donne: e il fatto che il servo e Andrea erano rimasti sul posto, non le rassicurava. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere con l’uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito. Nel suo giaciglio Elia, con la febbre alta, ricordava come il signor Antonio lo aveva accolto benevolmente quando lui si era presentato in cerca di lavoro, mentre nessun altro dei diffidenti proprietari del luogo aveva accettato la sua offerta; e il padrone gli aveva affidato la vigna nuova, l’orto, fa terra intorno. Adesso il vecchio amava questa terra con una passione tenace; era diventata la sua nuova patria, la sua famiglia; e il solo pensiero che i padroni giovani avrebbero potuto mandarlo via, come una vecchia bestia che non può più lavorare, lo colmava di tristezza; non per la probabile ventura povertà, ma per l’amore alla terra che oramai faceva parte della sua carne e del suo sangue.
Ed ecco, invece, la padrona e la signorina, e lo stesso Andrea, si mostravano benevoli, fino al punto di restare vicino a lui in quella notte tempestosa mentre avrebbero potuto già essere nella loro casa tranquilla. E non lo avrebbero cacciato, no: lo sentiva; lo aveva sentito nella voce di Cosima, e gli sembrava che questa voce fosse l’unica medicina che potesse guarirlo. E la certezza che un giorno forse avrebbe potuto dimostrarle la sua riconoscenza, già lo alleviava dal male.
All’alba il tempo si calmò, d’un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: “Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, ci si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché così vuole Dio”.
Poi tacque anche l’albero; ma quando Cosima aprì la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d’oro e d’argento: ogni loro battere d’ali faceva cadere goccie simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell’iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti. E fu certo una giornata di miracolo quella. Tutto sembrava trasformato; tutto, nell’orto, nella vigna sebbene spoglia, nella brughiera riarsa, tutto riluceva e sorrideva. Dio era passato con un corteo di tuoni e fulmini, ma trovando gli uomini di buona volontà si placava e ritornava paterno.
Andrea ripartì la mattina presto, con la promessa di tornare nel pomeriggio e passare la notte nella casetta, per sorvegliare il malato, mentre la madre e Cosima col servo sarebbero tornati in città. Cosima portò il caffè ad Elia, che si mise a sedere sul giaciglio, e prese la tazza con le mani tremanti.
– Che, avete freddo? – domandò la signorina. – Buon segno: vuol dire che la febbre passa: fatemi sentire.
E gli toccò la grande orecchia destra, scura e dura come la facciata di una grotta. Al contatto della piccola mano, egli rabbrividì, come per il solletico: i suoi occhi ebbero di nuovo un balenìo d’occhi di cane accarezzato.
– Siete fresco come rosa, zio Elia: camperete ancora cento anni, quando anche la nostra memoria sarà dispersa.
Egli sorbiva il caffè, versò nella tazzina quello che s’era versato nel piattino e raschiò il residuo dello zucchero, come fanno i bambini: ma anche dopo rimase col viso piegato, guardando il fondo della chicchera come ci vedesse qualche immagine.
– Dov’è la padrona? – domandò sottovoce. E Cosima ebbe l’impressione che egli volesse dirle qualche cosa, ma senza pericolo di essere ascoltati.
La padrona era affacendata nelle stanzette attigue: ed egli disse:
– Si sarà spaventata, stanotte, povera padrona. Per colpa mia: e anche lei.
– Ma no, zio Elia: anzi ho avuto quasi piacere: non avevo mai sentito un diavolìo così, e in piena campagna poi. Oh, io non sono paurosa: se in casa sento un rumore, di notte, mi alzo e scendo anche in cantina esplorando se ci sono i ladri. Ma adesso rimettetevi giù e state quieto: vi copro io, perché oggi fa freschetto.
Egli si rimise giù, ma sembrava meno quieto e duro del giorno avanti: anche perché si sentiva meglio. Avrebbe voluto alzarsi e tornare al lavoro, ma Ippolito, che gli voleva bene a modo suo, minacciò di negarlo se si moveva.
E la padroncina gli servì il brodo, con l’uovo sbattuto dentro, e anche un bicchiere di vino. Egli però lasciò il bicchiere intatto, con una vespa che vi ronzava attorno incantata.
Il sole era caldo; dal finestrino si vedeva l’orizzonte, coi monti lontani di un azzurro liquido d’acquamarina. Una quiete profonda regnava dappertutto e dalla brughiera veniva un odore tiepido di erbe come nei meriggi di primavera. Il servo lavorava nell’orto e la padrona era andata fino alla vasca a lavare i panni. Cosima pensò di raggiungerla e pregarla di smettere e di portare la roba sporca in paese; nel passare davanti al finestrino di Elia guardò dentro; e vide che il vecchio, seduto sul giaciglio, le accennava di entrare, Entrò: si accorse che egli aveva bevuto il vino e aveva il viso lievemente colorito e gli occhi insolitamente bene aperti.
– Dov’è la padrona? – tornò nuovamente a domandare.
Saputo che lavava i panni, parve indispettirsi.
– Ecco, è venuta a prendere la mia camicia e la lava lei, non è bene.
– Ma sì che è bene, zio Elia: la mamma si diverte: non può restare un momento in ozio, povera mamma.
– Povera padrona; con tutti quei pensieri, – egli disse, piegando la testa come aveva fatto la mattina: e si fece pensieroso.
– La mamma esagera, – disse Cosima, quasi per rassicurarlo: – vede sempre nero. Invece la provvidenza non manca mai.
– Lei crede alla provvidenza di Dio?
– Io sì, e come!
Allora accadde una cosa strana: egli si alzò, lungo, coi grossi piedi nudi che sembravano ceppi, e andò a chiudere il finestrino. Disse:
– Queste vespe! Via, via. Senta, io le voglio far vedere una cosa: lei però non deve dire nulla a nessuno: me lo promette? Nulla, mai a nessuno.
Ella stette incerta; poi, più per curiosità che per altro, disse:
– Ve lo prometto.
Fu tutto.
Il vecchio si avvicinò al camino, si piegò, raschiò con la paletta, accumulandoli nell’angolo, la cenere e gli avanzi dei ceppi, poi con la stessa paletta sollevò il mattone centrale. Apparve, sotto il mattone, una lastra di ferro, una specie di sportellino, chiuso con un lucchetto; ed egli si trasse dal seno una chiavetta pendente da una catenella nera, e apri il ripostiglio: la lastra si sollevò, in due piccoli battenti, ed egli introdusse la mano nel vuoto, molto in fondo, parve come slegare un sacchetto o un involto che fosse in quel fondo e ne trasse un pugno di monete: le guardò, nel cavo della mano, come si guardano le sementi per assicurarsi che sono buone, poi le fece vedere a Cosima. La sua mano concava ricordò alla fanciulla la mestola con la quale il diavolo trae dalla pentola dei tesori maledetti le monete tentatrici delle anime: si scostò d’un passo, quasi impaurita, e guardò in viso il vecchio.
E invero quel viso scuro, con gli occhi che sembravano due fessure con in fondo un’acqua verde opaca, e quella bocca chiusa, ermetica, aveva qualche cosa di diabolico: i pensieri più cattivi e paurosi passarono in mente a Cosima: ebbe paura, guardò verso la porticina: la porticina era aperta, ed ella avrebbe potuto subito salvarsi se il vecchio tentasse farle del male. Egli dovette sentire tutte queste cose perché il suo viso cambiò maschera: si fece triste. Mai Cosima aveva veduto un viso così nobilmente triste, accigliato e severo.
– Sono buone, – egli disse, tirando su con le dita dell’altra mano le monete, e lasciandole ricadere nel pugno.
Cosima lo vedeva bene: erano monete che sembravano nuove, alcune col profilo melanconico e rapace di Napoleone III, altre col grande gallo piumato della Repubblica francese: monete d’oro, schiette, moderne, da spendersi, se si voleva, senza difficoltà. Ma non le toccò e il solo pensiero che Elia avrebbe potuto offrirgliele, sia pure per generosità o affetto, le faceva spavento: poiché ricordava le voci misteriose che correvano sul conto di lui, ed era sicura che il tesoro provenisse da una rapina.
Ma egli richiuse il pugno, tornò a piegarsi sul vuoto del camino, rimise a posto ogni cosa, riaprì la finestrina, andò a sedersi sul giaciglio, piegò la testa pensieroso. La vespa da lui cacciata tornò a volteggiare e ronzare sullo sfondo d’acquamarina dei monti lontani. Tutto s’era svolto in pochi minuti, come in un passaggio di nuvole; e Cosima si avvicinava alla porticina per andarsene sicura in cuor suo di saper tutto e non volersi immischiare nella pericolosa faccenda, quando il vecchio la richiamò:
– Signorina, volevo dirle questo; quando sarò morto, o anche prima se le occorre, quella roba è sua.
Ella avrebbe voluto protestare, dirgli che non voleva una sola di quelle monete, gridargli che sarebbe stato meglio restituirle a chi erano appartenute; ma vedeva la madre che risaliva dall’orto con la camicia di Elia attorcigliata fra le mani ancora bagnate, e saltò nello spiazzo con l’impressione di risvegliarsi da un sogno. La madre stese la camicia su una cordicella attaccata fra due pali, che appunto serviva al vecchio per asciugare i suoi stracci, poi rientrò nella casetta e cominciò a preparare le cose per la partenza.
Cosima andò verso il pino e appoggiò la testa alle scaglie rossastre del tronco, come per ascoltare una voce nascosta dentro l’albero amico, che la consigliasse, la salvasse. Poiché le sembrava di essere coinvolta in un dramma colpevole, di essere complice di un furto, forse anche di un delitto. Che doveva fare? Accusare il vecchio? D’altra parte egli era da più di trent’anni in paese, e, se reato avesse commesso, esisteva la prescrizione. E delitto di sangue non doveva esservi, se la condanna di lui fra stata solo quella del domicilio coatto. E non poteva aver rinvenuto senza colpa il tesoro? Giusto in quei giorni i giornali parlavano dei tesoro di oltre un milione, di monete d’oro, trovato in casa di un antiquario, e di un altro rinvenuto nello scaffale di un medico stravagante e solitario che aveva attirato gente da tutte le parti del mondo con un suo specifico che guariva i dolori reumatici. Durante l’infanzia, e anche dopo, dai servi, dai contadini, dai pastori, Cosima aveva continuamente assorbito racconti di tesori, trovati nelle rovine dei vecchi castelli, dentro tronchi d’alberi, in piena terra. Uno pare venisse fuori anche dal vecchio cimitero, dalla tomba scoperta di una giovine dama sepolta dal marito con tutti i suoi gioielli e un’anfora piena di monete d’oro.
Forse si poteva sapere qualche cosa di più preciso da Elia: ma il solo pensiero di riparlare con lui le destava ripugnanza e quasi terrore. D’altronde aveva promesso di non parlare con nessuno del segreto: e fermamente decise di non occuparsene più. Potevano anche crederla visionaria, come del resto appariva a molti; e lei stessa non era sicura di non aver intravveduto una delle sue tante fantasie romanzesche. Ad ogni modo non ebbe occasione di trovarsi più sola, per quel giorno, col vecchio stregone; il quale era ricaduto nel suo mutismo.