XIV.

Anche questa lezione le servì per la scuola della vita; sentì che ella davvero non rassomigliava e non doveva rassomigliare alle ragazze di “buona famiglia”, che commettono incoscienti ma astute i loro peccatucci d’amore; che Dio le aveva dato una intelligenza superiore alla comune e sopra tutto una coscienza limpida e profonda come un’acqua nella quale si vede ogni filo di luce e di ombra, per guidarsi da sola nella strada della verità. Il castigo per il suo capriccio con Fortunio, capriccio di curiosità sentimentale, ma anche sensuale, le parve giusto; e decise di sorvegliarsi, di vivere con una sua certa religione. Anche il pensiero per Antonino le si svelò, ad un tratto, quasi morboso. Perché perseguire una chimera inutile e, in fondo, per lei, umiliante? Non si mise più alla finestra, per aspettare il passaggio della meteora: non andò più, con le sorelle, a far visite alle amiche; si chiuse in un cerchio di silenzio, di rassegnazione, di lavoro.
E poi la vita quotidiana incalzava, i giorni si facevano scuri e arcigni come per un inverno che doveva durare a lungo. Una notte si sentì, nella casa uno strano lamento, poi la voce di Andrea che cercava di convincere il fratello Santus a mettersi a letto e calmarsi; ma il disgraziato si dibatteva, gridando che sotto il suo letto c’era un uomo nero che voleva strangolarlo; poi toccava le pareti urlando che erano piene di tarantole e di scolopendre.
In un attimo la madre, la serva e le ragazze furono in piedi, circondarono i due fratelli, si avvidero che Santus, pallido, tutto preso da un tremito convulso e con gli occhi grandi, metallici, allucinati, delirava. Ma era un delirio terribile il suo; peggiore del delirio di un moribondo o di un idrofobo: Andrea lo capiva. Un terrore mai prima conosciuto invase Cosima, come se davvero la casa fosse piena di uomini neri e abbominevoli nascosti e pronti ad ogni crudeltà, e, le pareti brulicassero di rettili velenosi. La madre credette che Santus fosse invaso dallo spirito maligno, e pensò di mandare a chiamare uno dei preti di casa per esorcizzarlo. Ma Andrea sogghignava; riuscì a far ritornare a letto il fratello, e lo vegliò tutta la notte. Notte di angoscia indimenticabile, durante la quale Cosima conobbe un’altra pagina del libro terribile della vita. Invece del prete venne il dottore, il quale consigliò che Santus e Andrea, il quale si offrì di sorvegliare il fratello, andassero ad abitare in una casupola che la famiglia possedeva in un orto non molto distante dalla casa. Furono riattate e ammobiliate alla meglio, le povere stanzette terrene, che di buono avevano solo alcune finestrine dalle quali si vedevano i monti lontani: e Santus vi si lasciò condurre docilmente: era buono e mite, in fondo, e il primo ad essere mortalmente triste del suo vizio, che il dottore aveva dichiarato essere null’altro che una malattia dalla quale il paziente non può, anche con tutta la sua volontà, mai guarire, era lui. Un dolore profondo gli si leggeva negli occhi chiari: di tanto in tanto pareva sollevarsi, smetteva, e tentava di lavorare: ma poi ricadeva, come un virgulto stroncato, non ancora morto nelle radici ma irrimediabilmente inutile a se stesso e dannoso agli altri.
Nella casa delle fanciulle ci fu una relativa tranquillità: ma l’ombra del dolore la velava; e la madre si fece ancora più silenziosa, pallida, e qualche volta inquieta, di quell’inquietudine di uno che ha smarrito qualche cosa di prezioso. Cominciò anche a diventare un po’ strana: a volte usciva di casa furtiva, con qualche oggetto o qualche pacco nascosto sotto lo scialle: andava nella casetta dei figli; a portar loro da mangiare e da vestirsi. Non che ad essi nulla mancasse, anzi, quando l’altro era tranquillo, Andrea tornava a mangiare con la famiglia, ed entrambi frequentavano giornalmente la casa: ma la madre aveva paura che essi mancassero del necessario: pensava a loro come a bambini smarriti nel bosco, e andava a cercarli, e si smarriva anche lei nelle ombre di una selva pericolosa: quella della disperazione.

Attiguo alla casetta dei fratelli, c’era, anch’esso di proprietà della famiglia, un frantoio per olive: era un lungo stanzone irregolare, scuro eppure lucido, come scavato in una montagna di schisto: nero, come unto anch’esso, era il forte cavallo paziente che faceva girare la ruota dentro la vasca rotonda dove venivano pestate le olive: la pasta violacea di queste, versata entro sporte rotonde, la spremeva il torchio di ferro; ma il torchio, collocato in una specie di nicchia scavata nella parete, erano gli uomini che lo manovravano, con una stanga: il mugnaio o un suo aiutante. L’olio cadeva nero e grasso entro un grande paiuolo, e le sanse, finita di spremere la pasta, venivano buttate da una larga finestra giù nell’orto, formando un monticello odoroso che a suo tempo veniva acquistato dallo stesso negoziante che in estate comprava le mandorle della famiglia: ed era una discreta rendita, assieme con quella dell’olio, che i proprietari delle olive lasciavano in compenso per la manipolazione. Ma bisognava stare molto attenti, perché il mugnaio, un piccolo uomo religioso con due occhi di vero santo, che serviva da anni e anni la famiglia, e le era sinceramente affezionato, rubava a man salva, tanto ai clienti quanto ai padroni.
Il luogo era sempre pieno di gente, anche perché in un angolo, tra la finestra e il torchio, ardeva sempre un grande fuoco con su un paiuolo d’acqua bollente, dove venivano immerse e lavate le sporte: e intorno a questo fuoco si riuniva un gruppo d’individui che, verso sera specialmente, formavano un quadro degno di Rembrandt.[1] Erano tutti disoccupati e poveri, ma di una strana povertà dovuta più a loro stessi che alla sorte: e venivano lì a riscaldarsi, a confortarsi l’uno col contatto dell’altro. Capo fila era un uomo rossiccio, che era stato ricco e aveva dilapidato la sua sostanza con le donne e il vino: poi un vecchione con la barba di patriarca, anche lui decaduto, che faceva il giardiniere a tempo perso e viveva con la caccia dei gatti, dei quali si nutriva; e altri reietti, che non sdegnavano di unirsi con i bravi contadini e i piccoli proprietari che portavano a macinare le loro olive, e lo stesso padrone del frantoio, Andrea, che capitava ogni tanto per sorvegliare il mugnaio. Santus, poi, non mancava mai, e quando appariva lui tutti si scostavano per fargli posto; camminava anche lui nella fatale scia dei miserabili compagnoni raccolti intorno al fuoco, ma tutti ancora lo rispettavano, perché ancora la sua famiglia lo sostentava ed egli aveva un rifugio e la protezione del fratello; anzi, sapendolo generoso, cercavano la sua amicizia per potergli spillare un po’ di quattrini; ma egli, nonostante la torbida incoscienza in cui spesso affondava, capiva il suo stato, conosceva il cuore del prossimo, e amava solo la compagnia dei rinnegati del frantoio perché appunto si sentiva già loro compagno di fatalità. Non si creda che queste riunioni fossero melanconiche. Tutt’altro. Quando il fuoco aveva seccato addosso i poveri vestiti, spesso bagnati dalla pioggia, di questa specie di vagabondi, e, per benignità della sorte, essi erano riusciti a bere vino, o meglio ancora acquavite, l’allegria più infantile regnava fra loro: uno di essi arrivava a cantare pezzi d’opera, un altro tirava fuori un pane, lo spaccava, si faceva facilmente versare sulla mollica un filo d’olio, e lo abbrustoliva sulla brace, dividendolo poi fraternamente coi compagni. E Santus mandava a comprare un fiasco di vino, che bevevano alla salute di tutti. Salute e lunghi anni: la vita è di chi si contenta di viverla.
Le giornate erano quasi sempre grigie, nel freddo mattino del tardo autunno: ma a poco a poco il cielo si schiariva e si sollevava sopra i monti che prendevano una lucentezza opaca di stagno, e sull’alto si apriva l’occhio, bianco prima, poi perlato del sole, come di un dormiente che dopo aver lottato con un triste sogno si sveglia ridente alla dolce realtà. Allora tutto prendeva colore; il cielo sembrava un mare sparso d’isolette rocciose, sui rami degli alberi le ultime foglie palpitavano come farfalle d’oro e i monti riprendevano le loro tinte azzurre e rosee.
Quando il tempo era bello capitavano nell’orto la padrona che non sdegnava di coltivare i cavoli e i carciofi, e le “bambine”. Cosima aveva già venti anni; ma a volte ne dimostrava di meno, a volte di più. Il viso bianco, corrucciato, gli occhi che sembravano selvaggi, la fronte coi capelli tirati su e stretti con la noncuranza delle donne vecchie, si aprivano e illuminavano come il cielo in quelle ambigue mattine, quando il riso schietto le sgorgava dai denti stretti con la violenza d’un’acqua sorgiva dalla roccia. Ora, nelle assenze di Andrea, spesso costretto a recarsi in campagna per sorvegliare chi lavorava, sapendo che di Santus il mugnaio poteva, con l’aiuto diabolico dell’acquavite, farne quello che voleva, ella penetrava con coraggio nel frantoio, e faceva le sue brave ispezioni. C’era, anche nella cameruccia di Andrea, un registro dove venivano segnate le “macinate” delle olive; ogni macinata sette quarti di ettolitro di olive; compenso due litri d’olio grezzo lasciato nel paiuolo apposito o, se il proprietario preferiva, due lire in contanti. Molti lasciavano correre il tempo, prima di pagare, e allora il conto rimaneva aperto. Ed ecco Cosima, seduta al tavolo dove c’erano gli avanzi del pane e dei cibi dei fratelli, sfogliare l’unto registro e segnare in fila i nomi e il numero delle macinate; era una poesia anche quella, e il sole, che sbaragliava le ultime rocciose nuvolette e splendeva alto sui monti, dorava il foglio dove lei scriveva e lucidava i suoi capelli severi.
Così ella veniva a contatto col popolo, col vero popolo, laborioso e mite, che se pure poteva, come il mugnaio, mettere le grinfie sulla piccola roba del prossimo, lo faceva con parsimonia e poi andava a confessarsene. Magari anche la confessione era un po’ fraudolenta, come quella del famoso contadino che tentò d’ingannare il confessore dicendogli di aver rubato una corda, e alle insistenti inquisizioni dell’uomo di Dio, finì col dire che alla corda c’era attaccato un bue: ad ogni modo tutta gente buona: donnine rispettose e sornione, uomini che dovevano combattere con la terra ingrata e solitaria e i venti e gli uccelli e le volpi per strappare il grano e il vino, dei quali si nutrivano come il sacerdote nella Messa.
Cosima li osservava, li studiava, ne imparava il linguaggio, le superstizioni, le maledizioni e le preghiere: e dal suo posto di osservazione vedeva anche il quadro e le figure del frantoio: sentiva le storielle che vi si raccontavano, le canzoni dell’ubriaco, e se le doleva il cuore o piegava la testa umiliata nel vedere Santus, il fratello nato per grandi destini, intagliare carrettini di ferula per i bambini del mugnaio, o spolpare le ossa di un arrosto di gatto con gli altri compagnoni, pensava che solo la pietà può sollevare l’anima piegata dal male degli altri, e portarla sulle sue ali fino alle altissime soglie di un mondo ove un giorno tutti saremo eguali nella gioia di Dio.
Fra un segno e l’altro del registro i clienti del frantoio le raccontavano i loro guai, i loro drammi: qualcuno la pregava di scrivergli una lettera o una supplica: così le venne lo spunto per un nuovo romanzo; attinto dal vero: attinto come la pasta nera delle olive dalla vasca del frantoio, che si mutava in olio, in balsamo, in luce: e mise un titolo grigio, che sotto però nascondeva anch’esso il seme del fuoco: lo intitolò Rami caduti.[2]


  1. Il frantoio delle olive e la pittoresca adunata di gente del popolo riapparirà in Cenere, Cap. III. Le osservazioni fatte sul linguaggio e le superstizioni di cui più avanti, a [pag. 122], la D. raccolse in un articolo apparso in “Rivista delle tradizioni italiane” diretta da Angelo de Gubernatis, intitolato Tradizioni popolari nuoresi.
  2. Rami caduti: in realtà Anime oneste (1895) con prefazione di Ruggero Bonghi, datata da Torre del Greco il 28 agosto 1895. La Deledda fu incoraggiata a scrivere questo romanzo dalla direttrice della casa editrice milanese L. F. Cogliati (“La casa Cogliati vuole che io scriva un romanzo all'inglese, un romanzo famigliare d'anime buone e gentili”; e romanzo famigliare è specificato nel sottotitolo del libro. In un primo tempo il titolo doveva essere Gli onesti. Lettera a Epaminonda Provaglio del novembre 1894). La prefazione fu sollecitata dalla stessa editrice che era in grande amicizia col Bonghi e gli passò le bozze del romanzo. Ma il vero “lancio” della romanziera nel mondo letterario fu fatto un anno e mezzo dopo, da una recensione di Luigi Capuana sur un'opera successiva: La via del male. Al quale Capuana la D. scriverà da Nuoro, in data 30 marzo 1897: “Spero che l'opera mia, giacché non conto di fermarmi, debba sempre più riuscirle gradita. Sono ancora molto giovane, molto più giovane di quanto molti, giudicandone dalla mia produzione, mi credano: ebbi solamente il torto di cominciar troppo presto a pubblicare. Ma ero sola, come ancora lo sono, e non avevo maestri né guide. Se un vigile consiglio mi avesse guidata quel fior di Sardegna, da Lei ricordato, e tanti e tant'altri lavori miei non avrebbero veduto la luce. Ma sento, ora che sono pienamente consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compere l'opera consapevole, che molto tempo ancora mi resta per compiere l'opera cominciata con La via del male. La guida che nei primi passi mi è mancata ora la sento in me stessa, ed è una intima voce che mi addita qualche cosa di alto e di puro e di fortemente luminoso”. Nel 1896 la D. aveva avuto un breve scambio epistolare con Mario Rapisardi.