IX.

E poiché la famiglia era in questo cerchio d’ombra, restava rassegnata, in attesa di vederla un giorno diradare. Con la morte del padre, Andrea parve metter giudizio; prese lui ad amministrare il patrimonio rimasto ancora in comune; ma ne profittava largamente, in modo che rimaneva appena il tanto per aiutare negli studi l’altro fratello, e per pagare le tasse. La madre si lamentava sempre, per queste tasse, e se ne preoccupava tanto da non dormire la notte. Per fortuna nella casa c’era ogni provvista, e le ragazze si contentavano di nulla. Il lutto per il padre fu lungo: per mesi interi le finestre rimasero chiuse e nessuna delle donne, tranne la serva, metteva il piede fuori della porta: ma Enza si consolava scrivendo lettere interminabili al suo Gioanmario e le tre piccole, intelligentissime, leggevano sempre, chiacchierando e anche discutendo fra di loro, in perfetto accordo.
Chi non andava bene era Santus. La morte del padre, invece di richiamarlo in sé, parve sprofondarlo di più nella china abissale dove di giorno in giorno precipitava. Studiò fino ad arrivare al quarto anno di medicina: ma beveva. Durante le ultime vacanze fu trascurato anche da Antonino, che non andò più a cercarlo: né lui parve preoccuparsene, chiuso sempre in una sua indifferenza da animale malato. Se ne stava nella sua camera, chiuso a chiave, – poiché Andrea s’era stabilito in quella che doveva funzionare da salotto, – e non usciva se non per andare a cercare da bere. Del resto era innocuo; non molestava nessuno; nelle ore buone scendeva in cortile e fabbricava giocattoli con la ferula[1], per i bambini del vicinato; tutti gli volevano bene, ma la sua ombra gravava intorno e accresceva il lutto della madre e delle sorelle. Dopo quelle ultime vacanze, verso ottobre, parve svegliarsi dal suo malefico incantesimo; preparò i suoi libri, disse che avrebbe fatto ogni sforzo per compiere entro l’anno scolastico il resto degli studi e laurearsi. L’arcobaleno della speranza illuminò il grigio orizzonte della famiglia: fu raccolto il gruzzolo necessario per fa sua partenza, e la madre, anzi, gli diede i pochi risparmi che teneva nascosti per riserva, in caso di bisogni impreveduti. Fu una festa, la partenza di lui, e anche un senso di liberazione per la casa; alla sua camera fu data aria, come a quella di uno che è morto o guarito dopo lunga malattia, e finalmente fu vista la madre sorridere e prender parte alle conversazioni animate delle ragazze.
Sei notti dopo la partenza di Santus, fu sentito, sul tardi, qualcuno bussare replicatamente alla porta. Dopo mezzo secolo di vita, Cosima ricorda ancora quel picchiare come di tamburo che annunzia una disgrazia: lo sente ancora rimbombare dentro il suo cuore; è il suono più terribile che abbia mai udito, più funebre di quello che annunzia la morte, più del suono della campana che chiama a spegnere un incendio. La buona serva si alza; ma prima di aprire ascolta, con ansia paurosa. Chi può essere? Un bandito, un ladro, un uomo della giustizia? Anche un fantasma può essere, un morto che passa nella strada e bussa alle porte per avvertire i viventi che l’inferno li aspetta.
Era qualche cosa di peggio ancora: un morto vivente che annunziava l’inferno, sì, ma prima della morte, nella vita stessa.
Era Santus, con gli occhi azzurri velati, la lingua legata.
Per misurare la gravità di queste disgrazie bisogna considerare anche l’intransigenza malevola dell’ambiente dove si svolgevano. Tutti si conoscevano, nella piccola città, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra erano i più inesorabili. Quando si seppe del ritorno e della perdizione di Santus, fu un lungo compiacersi e sogghignare, fra i conoscenti della famiglia; e i più cattivi erano i parenti. C’erano due cugine della signora Francesca, due vecchie zitelle che facevano pensione a un canonico, – questo veramente santo, – e stavano sempre in chiesa. Ogni tanto si presentavano nella casa di Cosima, rigide e composte, dure come due mummie; non parlavano molto, ma ogni loro parola era una frecciata: e di tutto, anche quando le cose andavano egregiamente, trovavano da ridire, persino se le ragazze avevano un abituccio nuovo, o si ornavano di un nastro economico ritagliato magari da un fazzoletto di seta logoro. Piombarono in casa il giorno dopo del ritorno di Santus, e fecero piangere la signora Francesca, addossandole tutta la colpa del disordine famigliare. Tutto, intorno, per loro, era una tragedia; e lo era, sì, ma forse, almeno per le ragazze, non irreparabile. Irreparabile lo era per le due vecchie zitelle, che, istintivamente, senza precisa cattiveria, riversavano sul destino degli altri il proprio squilibrio. Una carica particolare, quasi non bastasse la prima, fu fatta contro Enza, della quale si conoscevano gli amori segreti e palesi con Gioanmario: per le due acri e sterili zie, che mai avevano conosciuto l’amore, il romanzo innocente e in fondo melanconico dei due giovani innamorati era tragico e terribile quasi come quello di Isotta la bionda e Tristano, o di Paolo e Francesca.
Predissero le cose più sinistre per l’immorale e sfrontata ragazza, mormorarono che per causa di lei la famiglia e l’intero parentado erano scherniti e disprezzati da tutta la gente benpensante, e che il disonore ricadeva anche sulle sorelle che mai avrebbero trovato marito.
La madre piangeva: che altro poteva fare? E, certo, neppure lei era contenta per la storia di Enza, sebbene, dopo le ultime disgrazie famigliari, la sua ostilità verso Gioanmario fosse diminuita, e pensasse che un uomo ordinato ed energico, in casa, sarebbe stato di grande aiuto: ma non rispondeva alle insinuazioni vituperose delle cugine, e tale sua quasi accondiscendenza fu quella che più esasperò Enza, la quale naturalmente origliava all’uscio. D’un tratto si sentirono alte grida ululanti, e il tonfo d’un corpo che cade. Era lei, l’infelice ragazza, presa da un attacco isterico, quasi epilettico. Allora la madre si sollevò, come la cerbiatta alla quale vien ferito il figlio, e trovò l’energia di cacciar via le donne e di sollevare e confortare la sua bambina. Poiché tutti i figli, per lei, compreso il più traviato, anzi lui forse più degli altri, erano ancora deboli creature che il Signore avrebbe fatto crescere e rinsavire.
Il risultato fu che Gioanmario fu riconosciuto come fidanzato di Enza, e si fissarono le nozze per l’estate seguente, appena egli si fosse laureato. Nozze umili e quasi tristi; non quali il padre aveva sognate e preparate per le sue figliuole.
Ai due giovani sposi fu assegnata una modesta rendita, e concessa per abitazione una vecchia casa che la famiglia possedeva in un quartiere eccentrico della cittadina. Ma era una casa troppo grande, con una scala erta, le camere vaste dai pavimenti di legno, le finestre piccole, le pareti imbiancate con la calce; Enza ci si immelanconì e si strapazzò a pulirla e renderla abitabile, aiutata solo da una donna a mezzo servizio. Presto cominciarono i guai. Gioanmario, entrato nello studio di un avvocato, vi rimaneva tutto il giorno, e ancora senza compenso. Il dover vivere con la piccola rendita della moglie lo umiliava e lo esasperava. Provocato dal malumore di lei cominciò a rinfacciarle la fretta di essersi voluta sposare: ella rispondeva aspra: litigi violenti scoppiavano fra di loro, seguiti da riconciliazioni che duravano poco, da fughe di lui che rimaneva assente il più possibile.
Una triste mattina, la donna che andava da loro per i servizi, corse spaventata a casa dei parenti, dicendo che aveva trovato la piccola padrona stesa a letto senza sensi, fredda come una morta. L’aveva fatta rinvenire; ma temeva che la cosa fosse grave. La signora Francesca era sofferente anch’essa, per un male alle reni, e le ragazze giudicarono di non spaventarla con le notizie di Enza. Cosima, che spesso andava dai giovani sposi ed era al corrente della loro disordinata e dolorosa vita, corse lei con la speranza che si trattasse di uno dei soliti disturbi nervosi della sorella. La trovò insolitamente calma, troppo calma, abbandonata sul letto pallidissima, coi grandi occhi spauriti. Non parlava, non si moveva; ma un odore sgradevole e caldo esalava dal letto, e quando Cosima, con un coraggio superiore alla sua età, cercò di scoprire il mistero si accorse che l’infelice Enza giaceva in una pozza di sangue nero.
Arrivò il medico e disse che si trattava di un aborto. Alla meglio tentarono di riparare: ma era tardi: prima che il marito tornasse da una seduta al Tribunale, Enza era morta. Morta, senza dolore, senza coscienza, vuota di tutto il suo sangue malato e turbolento: adesso era bianca, bella, purificata, come una statua di marmo scolpita sul suo modello. Prima di avvertire la madre e le sorelle, prima ancora che Gioanmario rientrasse, Cosima, da sola, chiuse i grandi occhi vitrei di Enza, ne lavo il corpo, trasportato in un lettuccio della camera attigua a quella matrimoniale; lo profumò; compose i bei capelli castani intorno al viso diafano, e infine la rivestì del modesto abito bianco di sposa e le calzò anche le scarpette di raso. Agiva sotto l’impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l’abbandonò mai più, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l’antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini.


  1. Una sorta di canna con un midollo osseo che i ragazzi sardi succhiano molto volentieri