I.

Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, del quale aveva ereditato il patrimonio, era andata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri.
Era di giugno. Marianna, sciupata dalla fatica della lunga assistenza d’infermiera prestata allo zio, morto di una paralisi durata due anni, pareva uscita di prigione, tanto era bianca, debole, sbalordita: e per conto suo non si sarebbe mossa né avrebbe dato retta al consiglio del dottore che le ordinava di andare a respirare un po’ d’aria pura, se il padre, che faceva il pastore ed era sempre stato una specie di servo del fratello prete, non fosse sceso apposta dalla Serra a prenderla, supplicandola con rispetto:
«Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci».
Anche la serva, una Barbaricina rozza, risoluta, che era in casa del prete da anni ed anni ed aveva veduto crescere Marianna, le preparò la roba, gliela caricò rudemente dentro la bisaccia come fosse la roba di un servo pastore, e ripeté:
«Marianna, dà retta a chi ti vuol bene: obbedisci».
E Marianna aveva obbedito. Aveva obbedito sempre, fin da quando bambina era stata messa come un uccellino in gabbia nella casa dello zio, a spandere la gioia e la luce della sua fanciullezza attorno al melanconico sacerdote, in cambio della possibile eredità di lui.
Montò dunque taciturna in groppa al cavallo di suo padre e appoggiò la mano alla cintura di lui, rispondendo con soli cenni del capo alla serva premurosa che le accomodava le sottane intorno alle gambe e le consigliava di non prendere aria alla notte.
«E non farla strapazzare, Berte Sirca!»
Egli si mise un dito sulla bocca e spronò il cavallo; era di poche parole, anche lui, e con Marianna, del resto, non avevano molte cose da dirsi.
A misura che viaggiavano le additava solo questo e quel terreno, nominandone i proprietari; del resto lei conosceva i luoghi perché tutti gli anni a primavera, tranne gli ultimi in cui il prete era stato malato, andava con lui ed i parenti a passare giornate intere nella tanca popolata di gregge e di armenti e dove una casa colonica aveva sostituito la primitiva capanna dei pastori sardi.
Fin dal primo giorno, lassù, si sentì meglio: il luogo era elevato, al confine tra il territorio di Nuoro e quello di Orune; la selva fioriva e una serenità infinita pareva si stendesse su tutta la terra.
Al terzo giorno Marianna sembrava già un’altra; la persona sottile un po’ curva s’era raddrizzata, il viso pallido alabastrino sotto le trecce larghe dei capelli neri lucidi aveva preso un colore opaco d’ambra e i grandi occhi placidi castanei riflettevano come quelli delle cerbiatte la luce verdognola del bosco.
Cadeva la sera del terzo giorno, ed ella sedeva davanti alla casa colonica, che era una piccola costruzione in pietra grezza con un riparo per il bestiame, una cucina e una stanza da letto: vedeva davanti a sé uno spiazzo grande erboso, con un sovero millenario nel mezzo e i cani legati al tronco; e al dilà il verde dei prati che s’internavano nella foresta perdersi nell’ombra già cupa delle macchie e delle rocce, mentre alla sua destra, tra una fila d’alberi, la linea dei monti spiccava ancora azzurra sul cielo rosso del crepuscolo.
Era sola, coi cani che ogni tanto si alzavano per spiare e tosto tornavano ad accovacciarsi fra la polvere; ma aspettava il ritorno di suo padre e del pastore e l’arrivo di un parente che le aveva promesso una visita.
Era sola e tranquilla; nulla le mancava; aveva intorno a sé il suo vasto patrimonio custodito da un servo fidato e d’animo semplice qual era suo padre; e laggiù a Nuoro la sua casa era anch’essa custodita dalla serva fedele che alla notte non dormiva per vegliare contro i ladri.
Nulla le mancava: eppure ripiegata su se stessa, si guardava dentro, con piena coscienza di sé, e vedeva un crepuscolo, sereno, sì, ma crepuscolo: rosso e grigio, grigio e rosso e solitario come il crepuscolo della tanca.
Le sembrava di esser vecchia; si rivedeva bambina in quel luogo medesimo, la prima volta che l’avevano condotta lassù e qualcuno le aveva sussurrato all’orecchio: «se sarai brava tutto questo sarà tuo». E lei s’era guardata attorno, coi suoi occhi placidi, senza meraviglia e senza desiderio, pure rispondendo di sì. E gira di qua, gira di là, non troppo lontano per non smarrirsi, aveva trovato un nascondiglio, una pietra scavata come una culla, e vi si era messa dentro, tutta contenta di essere sola, padrona di tutto, ma nascosta a tutto: e le pareva di essere come il nocciolo dentro il frutto, come l’uccellino dentro l’uovo. Così, rannicchiata, contenta che i pastori non la prendessero per la sottanina, al suo passare, e le dicessero ammiccando: «mi presti il tuo posto, Marianna?» s’era anche addormentata.
Ed ecco si svegliava, dopo tanti anni. Ne aveva trenta, adesso, e ancora neppure conosceva l’amore. L’avevano allevata apparentemente come una ragazza di famiglia nobile, destinata ad un ricco matrimonio; in realtà la sua vita era stata quella di una serva sottomessa non solo ai padroni ma ai servi di maggior grado di lei.
Ma ecco suo padre tornare: e i pensieri di lei si ritirano nel loro nascondiglio più segreto: nessuno al mondo deve saperli, e questo non tanto per orgoglio quanto perché lei ama la sua anima come la sua casa, che tutto sia in ordine, pulito, chiuso nelle casse, appartenente a lei sola.
Del resto il padre, sebbene avesse per lei un’ammirazione muta e un attaccamento di servo fedele, non era uomo da intenderla: ecco che si avanza, piccolo, curvo, con le mani giunte, la grossa testa calva come tirata in giù sul petto dalla lunga barba grigia a riccioli. Pareva un frate travestito da pastore, un eremita mansueto dai grandi occhi castanei ancora innocenti.
«Ebbene, preghi?», disse passandole davanti. «Su, sta allegra che stanotte facciamo vigilia. Vengono su.»
«Chi, chi?», ella disse scuotendosi.
«Sebastiano con un altro; adesso accendo il fuoco. Se Sebastiano ti domanda quanto ti hanno offerto per il sughero», aggiunse tornando indietro, «digli mille scudi. Zitta! Obbedisci a chi ti vuol bene.»
Marianna era pronta a obbedire anche a questa innocente vanità di lui, che aumentava del doppio la sua rendita; tanto più che il parente Sebastiano veniva per conto di certi negozianti ozieresi che volevano acquistare il sughero del suo bosco di soveri: e senza alzarsi aguzzava lo sguardo, pensando a questo suo cugino in secondo grado, né giovane né vecchio, né ricco né povero, vedovo e solo, che fra tanti parenti bisognosi che le serbavano rancore per l’eredità dello zio, era l’unico a dimostrarle un po’ di attaccamento disinteressato.
A volte aveva il dubbio che Sebastiano la amasse di amore; ma respingeva con disgusto l’idea di andare a finire moglie di un parente, vedovo e non più giovane. Ecco che anche lui arrivava: era a cavallo; indossava il cappottino da lutto dei vedovi, e il velluto nero del giubbone faceva risaltare anche da lontano il pallore giallognolo del suo viso scarno circondato da una rada barbetta scura a punta. I suoi grandi occhi neri vivissimi, che illuminavano tutta la sua figura triste, cercarono subito Marianna; e appena smontò agile davanti a lei che s’era alzata silenziosa, le cinse le spalle con un braccio guardandola di sotto in su, un poco più piccolo di lei, familiare ma anche malizioso. Lei però lo respinse, solo intenta a un bel giovane alto che si avanzava sorridendole. Le pareva e non le pareva, di conoscerlo: di aver altre volte veduto quei denti che brillavano fra le labbra fresche ombreggiate da una lieve peluria, e nel viso scuro i lunghi occhi che sembravano turchini tanto il bianco era di un azzurro perlato.
Arrivato davanti a lei si fermò, dritto, come un soldato sull’attenti. Ella arrossì, ma subito sorrise e gli porse la mano.
«Simone Sole!»
Egli fece cenno di sì, prendendole la mano senza stringerla. Sì, era lui, Simone Sole, il bandito.

Qualche anno prima, da ragazzo, Simone era stato servo in casa di lei; ella ne conosceva anche la famiglia, povera ma distinta, di buona stirpe, il padre e la madre, malaticci tutti e due, le sorelle bellissime, fiere, che andavano solo in chiesa e si inginocchiavano all’ombra, dove di solito si metteva anche lei, sotto l’altare del Sacramento, e del resto vivevano ritirate nella loro casupola sotto la collina di Santu Nofre, taciturne e in duolo come se il fratello fosse morto.
«Simone», ripeté, con voce calma, dopo aver abbassato gli occhi, sollevandoli di nuovo placidi davanti a lui. «Ebbene?»
«Ebbene, siamo qui!»
E continuava a sorriderle con tutti i suoi bei denti serrati, come un bambino che vuol frenare uno scoppio di riso; pareva contento di averle fatto una sorpresa, ma era soprattutto contento dell’accoglienza di lei.
«Ebbene, Marianna, tu pure sei uscita a bandiare[1]».
Tutti e due risero, un poco, come d’intesa; tosto però Marianna vide gli occhi di lui cercare i suoi con uno sguardo che la turbò: e come egli si accostava fino a toccarle le ginocchia, indietreggiò d’un passo, altera.
Intanto il padre s’era affacciato alla porta della cucina asciugandosi sulle brache la mano insanguinata, e accennando col capo agli ospiti di avanzarsi, di entrare. Entrarono e sedettero, nonostante il caldo, attorno al focolare.
Simone si guardò in giro, salutando le cose che ben riconosceva: le pareti nere di fumo, il tetto basso, le stuoie su cui aveva dormito i suoi sonni profondi d’adolescente, le panche rozze, i recipienti di sughero, le pelli e le pietre e tutti gli altri oggetti d’ovile che odoravano di cacio e di cuoio e davano alla rozza stanza l’aspetto di una tenda di pastori biblici. Di fronte al finestrino nel cui sfondo verdeggiava il bosco, s’intravedeva, attraverso l’uscio aperto, la stanzetta attigua che aveva anche una porta verso la radura: l’ambiente pulito, col lettino bianco di Marianna, il tavolo, un quadretto e un piccolo specchio alla parete, contrastava con quello della cucina.
Ella chiuse l’uscio di comunicazione e si mise alle spalle di Sebastiano perché si accorse ch’egli già, pure senza adombrarsi, spiava con malizia i movimenti di lei; ma egli si volse di fianco e continuò ad osservarla.
«Marianna!», disse Simone. «Mi pare un sogno di rivederti.»
«Pure a me, Simone!»
«Era da tanto che volevo farti una visita! Ma non sapevo se la gradivi…»
Marianna fece un gesto con la mano, per accennargli che cessasse, che tacesse, su quell’argomento ingrato: e lui arrossì, per l’orgoglio della fiducia di lei.
«Come va che sei da queste parti? È un bel po’ che non ti si vedeva» disse il padre, mentre Sebastiano preso il lembo del grembiale di Marianna glielo tirava un poco, facendole dei cenni con la testa perché si chinasse, che aveva da dirle qualche cosa in segreto. Ella stava rigida: le sembrava che Simone a sua volta la osservasse e voleva apparirgli in tutto il suo nuovo stato di donna oramai seria, di ricca proprietaria. Simone infatti la guardava, pure rispondendo alle domande di quello che un tempo era stato più che suo padrone suo compagno di servitù.
«Sì, era quasi un anno che non passavo di qui, zio Berte! Son già cinque anni che non rivedevo Marianna vostra. Dunque il canonico è morto? Che uomo curioso era! Marianna, ti ricordi che si cresceva gli anni? Dieci, se ne cresceva, forse perché la vita gli sembrava troppo breve, per chi sta bene come stava lui: e una volta si arrabbiò tanto perché Fidela la serva, (è ancora viva, malanno?) andò in chiesa e fece cercare sui libri la vera età di lui.»
«Bene, sì, è forse per credere di vivere di più», ammise Sebastiano: «eppoi lui li passava bene gli anni, e aveva ragione per aumentarseli».
«E quelli che se li diminuiscono, non è peggio? Le donne? E certi uomini, anche? Ecco là il nostro Cristoru che ne ha sempre ventidue!»
Tutti risero guardando fuori verso la figura gigantesca e nera del servo che si avanzava rigido tutto di un pezzo come fosse di legno. Arrivato alla porta si fermò, senza mostrare sorpresa per la presenza di Simone che era stato suo compagno di servizio; e per quanto i due ospiti lo chiamassero chiedendogli notizie sulla sua salute, sul bestiame, sui pastori della tanca attigua, non avanzò un passo dalla soglia.
Voleva Marianna e Marianna dovette uscire nello spiazzo per consultarsi con lui.
«Tuo padre mi ha fatto ammazzare una pecora: dimmi cosa devo cuocere, e se devo preparare anche il sanguinaccio. Ti avverto però che non ho il mentastro; ho solo due foglie d’alloro, eccole.»
Gliene fece vedere fra le dita insanguinate, e lei andò a prendere anche il sale, il cacio e un poco di pane di orzo triturato. Il tutto fu mischiato al sangue raccolto nel ventricolo della pecora, pulito come una borsa di velluto: e il ventricolo fu poi cucito con un ago di canna e messo a cuocere sotto un mucchio di cenere calda.
Intanto gli uomini discutevano sul prezzo del sughero, e il padre diceva, guardando per terra poiché non sapeva mentire, che i mercanti ozieresi avevano offerto mille scudi; ma Sebastiano rideva, con gli occhi neri brillanti nel viso giallognolo, e guardava Marianna ammiccando.
«Zio Berte, sapete vantarla la vostra roba!»
«Non è mia perché è di mia figlia!»
«È vostra perché è mia», ribatté Marianna, e il padre ne fu tutto felice anche perché gli pareva che Sebastiano si beffasse un poco di lui.
Marianna intanto, china sul focolare, aiutava il servo a preparare la cena; aveva sollevato rigettandole al sommo della testa le cocche del fazzoletto nero, lasciando liberi il collo bianco e la gola rosea; al riflesso del fuoco i bottoni d’oro della sua camicia, uniti da un nastrino verde, rosseggiavano come due fragole non bene mature, ed ella ogni tanto se li guardava come paurosa che si slacciassero, ma in realtà perché si accorgeva dello sguardo di Simone fisso su di lei, e ne provava un turbamento oscuro. Aveva quasi soggezione a rivolgersi a lui, che pure era stato il suo servetto; le pareva ch’egli tornasse da un viaggio in altre terre, dove era cresciuto, dov’era diventato uomo e aveva appreso tutte le cose cattive e anche le cose buone della vita, come gli emigrati che tornano dalle Americhe. Appunto per questo, però, provava anche piacere ch’egli la guardasse: era finalmente uno sguardo d’uomo che vedeva in lei solo la donna senza ricordarne il denaro.
Quando la cena fu pronta ella sedette in mezzo agli uomini intorno al desco imbandito per terra davanti alla porta spalancata. Il desco era una lastra di sughero, una intera scorza spaccata e spianata di un albero; e anche i vassoi e i recipienti erano di sughero e le tazze di corno incise dai pastori; il grande servo impassibile faceva da scalco, spezzando le ossa dell’arrosto con le sue dita forti: quando ebbe fatte le porzioni spinse il tagliere davanti a Marianna dicendole con voce grave:
«Metti il sale».
E lei prese il sale fra le dita, e con la stessa gentilezza con cui aveva mischiato le foglie dell’alloro al sangue, lo sparse pensierosa, a testa china, sull’arrosto fragrante.
Mangiavano in silenzio. La luna rossa sorgeva come un fuoco tranquillo fra i soveri laggiù in fondo alla radura, illuminando i prati con un chiarore sanguigno; la donna, col suo corsetto di scarlatto reso più vivo dalla luce della fiamma del focolare, splendeva in mezzo alle figure degli uomini come la luna fra i tronchi.
Dopo l’arrosto il servo tolse il sanguinaccio di fra la cenere, lo pulì un poco, lo spaccò, e di nuovo porse il tagliere a Marianna.
«Metti il sale.»
Pareva compiessero un rito, il servo rigido, con la barba nera quadrata di sacerdote egiziano, lei pallida e fina nel fiore di melagrano del suo corsetto.
Simone fu il primo ad essere servito.
«Non ti capita tutte le sere a dividere il tuo pane con donna», disse zio Berte versandogli da bere nella tazza di corno.
«E che donna!», rispose pronto Simone bevendo e guardandola; e a lei parve che il vino brillasse attraverso la tazza opaca.
«Eppure anche ieri notte Simone ha mangiato con donne, e belle anche, non ignorando Marianna!», disse Sebastiano geloso.
Marianna sollevò gli occhi.
«Erano mie sorelle sì: sono stato a casa perché mia madre è malata.»
Un momento di silenzio, grave e triste: poi Marianna domandò, quieta:
«Come sta adesso tua madre?».
«Mah, il solito male suo, al cuore. Sorelle mie sono brave, per conto loro, ma si spaventano facilmente per gli altri; così mi mandarono a chiamare, perché vedessi la madre. Il guaio è che se io vado a vederla c’è pericolo di peggio: e lei lo sa bene! La scorsa notte io non osava entrare nella sua camera; lei però disse: “il mio Simone dev’essere vicino, lo sento: fatelo entrare”. Allora entrai, e lei mi pose la mano sulla testa e poi mi pregò di andarmene subito via. Mah, cose del mondo!», concluse, scuotendo un po’ la testa sul collo con un gesto infantile che Marianna gli aveva osservato da ragazzo.
«Mah!», sospirò anche Berte Sirca; e Sebastiano non insisté nei suoi scherzi.
Solo il servo rimaneva duro, impassibile, come se nulla, tranne il suo servizio, lo riguardasse; eppure fu lui a dissipare l’ombra caduta intorno, domandando a Simone:
«Tu avevi un compagno: che ne è stato? È dentro?».
«Dentro?», protestò Simone quasi offeso. «Finché starà con me non sarà mai preso.»
Tuttavia si mise a ridere, fra sé e sé, ricordando il compagno.
«Un piccolo frate, così Dio mi aiuti! E come crede in Dio quello! Prega sempre e tiene un mucchio di reliquie sul petto. Vista la chiesa, di lontano, s’inginocchia, e il bello, fratelli cari, è che prega per me, non per lui! Eppoi è ricco, figlio unico: la madre è la donna più benestante di Ottanta, e gli dà tutto quello che lui vuole. Ma egli vive come un povero, e digiuna fino a farsi venire la febbre.»
«Così Dio mi assista, a quanto tu racconti egli è un sagrista, non un bandito», disse Sebastiano, che guardava sempre Marianna, facendole dei cenni come per invitarla ad aiutarlo nella sua beffa; «e che ha fatto, di grazia, per uscire nel bosco? Ha ucciso un gatto?»
Simone non permetteva però che si burlassero del compagno; volse in giro gli occhi divenuti metallici e raccontò gravemente.
«Sua madre aveva una lite; doveva vincerla e la perdette; e non contenti di questo, gli avversari ogni notte andavano sotto le sue finestre a cantare canzoni oscene e la offendevano nel suo onore. Era vedova, non aveva nessuno che la difendesse, tranne Costantino, che era ancora un ragazzo, allora, e religioso, attaccato alla madre come una figlia femmina. E una notte si alzò e sparò un colpo di archibugio contro gli offensori di sua madre: uno di essi cadde morto. Il mio compagno voleva presentarsi alla giustizia; la madre lo consigliò a fuggire, a tenersi la sua libertà. Ed egli fuggì. Fece bene, perdio!»
Parlando, il petto gli si gonfiava, qualcosa di felino gli rendeva il viso più bello: gli uomini lo fissavano, approvando col capo.
Solo Marianna osò replicare.
«Dio solo ha il diritto di uccidere.»
Ma tosto fu di nuovo il servo a sviare la conversazione.
«Questa mattina, saranno state le cinque, ho veduto una donna a cavallo, giù verso Funtana ‘e litu: aveva un lungo cappotto d’uomo, era alta, bella: ma questo non importa. Era armata: e quando mi vide spronò il cavallo e si nascose. Credi tu, Simone, che fosse Paska Devaddis, la donna che va coi banditi di Orgosolo? Tu, la conosci?»
Simone non la conosceva; non aveva mai fatto parte della banda Corraine, i banditi di Orgosolo, e poneva anzi una certa cura a vivere libero, solo col giovine compagno che gli si era attaccato come un cane fedele; tuttavia era amico e ammiratore dei Corraine, e cominciò a parlarne con rispetto; e fu allora un grave discutere sul fato tragico di questa famiglia divorata dall’odio: parenti contro parenti, vecchi che vivevano solo ancora per vendicarsi, donne e fanciulli travolti dal turbine fatale; madri che vigilavano il focolare aspettando nella notte il grido che annunziava la morte d’uno dei figli e all’alba il canto del gallo che apriva una nuova giornata di sangue.
«E perché tutto questo poi», disse Marianna con la sua voce placida; «per poche monete vili! La causa prima dell’inimicizia della famiglia è stata questa: pochi denari male partiti, una eredità divisa con ingiustizia. Ahi, eppure non sono i denari a far la gente felice!»
Simone ribatté irritato:
«Tu parli così perché stai comoda in casa tua e il bene lo hai, e tuo zio ti ha lasciato un letto di rose! Ma prova a sapere cos’è il bisogno; prova a sapere cos’è l’ingiustizia! Marianna, l’uomo ha diritto ad avere il suo: e l’uomo vero dice: il mio è mio, e guai a chi lo tocca!».
«Nulla è nostro sulla terra perché siamo di passaggio.»
Allora Sebastiano le riprese il lembo del grembiale e tirandolo e scuotendolo esclamò:
«Sembri il canonico quando predicava, Marianna, cugina mia! Allora, giacché siamo di passaggio dammi gratis il sughero della tua tanca di soveri! Ah, da quell’orecchio non ci senti, fiore mio bello!».
«Anche il canonico, buon’anima, predicava bene, ma le chiavi le teneva strette nel pugno», riprese Simone. «Sì, sì, Dio mi salvi, i ricchi siete tutti come i mercanti alle feste, che mettono la loro mercanzia per terra e pare la disprezzino, ma poi la vendono a più caro prezzo del solito.»
Che doveva rispondere, Marianna? Lasciò dire, ma di tanto in tanto guardava Simone e incontrava sempre gli occhi di lui come attenti ad aspettare il suo sguardo. Adesso egli raccontava di essere stato ultimamente a conferire appunto coi banditi di Orgosolo, per un affare che non spiegava quale; ma questo non importava; l’interessante era la narrazione del viaggio, su per il monte Santu Janne, per chine, borre, dirupi, labirinti, passaggi sotterranei, grotte e nascondigli misteriosi.
«Costantino mi seguiva ansando come un cane: ci trovammo in una caverna tutta bianca che pareva di marmo; la volta era bucata e il sole entrava dentro come in un vaglio; il bello è che c’è, in fondo, un altare, un vero altare, con una croce, e un Cristo di pietra naturale, così ben fatto che sembrava vero. Ebbene, Costantino s’inginocchiò; e anch’io, dico la verità, sentii freddo alle giunture. Più sopra si attraversò una gola con un torrente profondo che d’un tratto sparisce entro un burrone come un filo d’acqua dentro un bicchiere: lassù ci aspettava Corraine. Era venuto in fretta e aveva sete; si curvò a bere e, così Dio mi salvi, parve volesse bersi tutta l’acqua di quel bicchiere profondo.»
«Dicono che è molto bello, Corraine, com’è?», domandò Marianna, e Simone a sua volta parve un poco geloso.
«Bello?… È alto e serio. Quello piacerebbe a te, Marianna.»
«Perché? Non è la bellezza che fa l’uomo.»
Sebastiano cominciò a contare sulle dita.
«Ricchezza no, bellezza no, superbia no, che cosa vuoi dunque, tu, cugina? Così lasci cadere i tuoi giorni, come quel torrente, senza sapere dove finiscono.»
«E a te che importa? Seguita a raccontare, Simone: quando Corraine bevette…»
«Quando Corraine bevette si asciugò la bocca!»
«E Costantino aveva paura?»
«Costantino non aveva paura. Di che doveva aver paura?», disse vivamente Simone, sempre pronto a burlarsi del compagno ma più pronto ancora a difenderlo dalle beffe altrui.
«E allora bevi! Pare che tu, però, abbi paura più di questo piccolo che di quel grande bicchiere. Bevi, Simò!», disse bonariamente zio Sirca.
Per dimostrare che neppure il vino, che è uno dei peggiori nemici del bandito, gli faceva paura, Simone bevette: e continuava a fissare Marianna, al disopra della tazza.
«Marianna, e che è accaduto di te in tutto questo tempo? Non pensi a prendere marito?»
«Sceglie», rispose per lei Sebastiano, «li sceglie come si scelgono le pere selvatiche in cerca di quella matura!»
Lei non rispose: raccolse nel cestino il pane, i piatti, il tagliere e porse tutto al servo perché sparecchiasse: poi si alzò e ripose qualche oggetto; e poiché Sebastiano scherzava dicendo che zio Berte avrebbe dovuto sposarsi con Fidela la serva del canonico, poiché era questa a impedire col suo esempio a Marianna di sposarsi, ella uscì nello spiazzo e fece alcuni passi.
La notte era calda e chiara; le stelle rasenti al bosco parevano così vicine da poterle toccare, e tutto, erbe, foglie, fiori, odorava dolcemente. Marianna non si sentiva offesa per gli scherzi del cugino; solo le dispiaceva che egli parlasse così in presenza di Simone.
Sebastiano uscì fuori a cercarla mentre il padre e il servo andavano di là nel recinto ov’era chiuso il bestiame, e le disse avvicinandole il viso al viso:
«Non fare il broncio a Simone: tientelo amico, Marianna…».
«Io non ho bisogno di amici», rispose lei aspra, tuttavia rientrò e per qualche momento si trovò sola con Simone: e gli notò sul viso e in tutta la persona, che s’era alquanto piegata, un’aria di stanchezza e di tristezza.
«Bevi, Simone.»
Egli le afferrò il polso della mano che gli porgeva la tazza.
«Marianna, così Dio mi assista, ti sei fatta bella!», mormorò: e gli occhi gli lampeggiavano felini eppure tristi, quasi supplichevoli. «Marianna, ti ricordi quando mi davi da bere, quando tornavo assiderato dall’ovile?»
«Pensavo appunto a questo, Simone!»
«Che hai pensato di me, in questo tempo? Tante volte mi passò in mente il pensiero di venirti a trovare; ma, ti dico la verità, avevo soggezione.»
«Soggezione di me?»
«Di te, perché tu sei superba. Anche allora eri superba: con me, no, però, allora, e neppure adesso.»
«Né allora né adesso: non ho ragione di essere superba. Bevi, dunque!»
«Marianna», egli disse, prendendo la tazza con l’altra mano, senza lasciarle il polso; «sì, quando mi dissero: “Marianna è alla Serra”, pensai subito: “voglio andare a trovarla”. Contenta sei, di vedermi?»
Marianna si mise a ridere, ma tosto si rifece seria, perché lui, bevendo, non cessava di stringerle il polso; e con le dita sottili gli afferrò le forti dita aprendogliele ad una ad una per liberarsi.
«Lasciami», impose, corrugando le sopracciglia.
Egli obbedì, come quando era servo.
D’improvviso però ella lo vide fissare le dita al suolo come artigli, quasi volesse abbrancare la terra, e poi tendere l’orecchio ai rumori di fuori e balzare in piedi scuotendosi tutto come per liberarsi d’un mantello pesante; e di nuovo le parve un altro, – il servo affrancato che la guardava da pari a pari, spoglio della schiavitù passata.
Ma rientravano gli uomini ed egli non le disse più una parola.


  1. Fare il bandito.