VII.

Stesa sul suo letto Marianna provava di nuovo, come la mattina dopo il ritorno dalla Serra, l’impressione di aver sognato: eppure il cuore le si sbatteva ancora dentro, quasi avesse messo le ali e anelasse a volar via.
La luna e il chiarore della neve imbiancavano la camera: una campana sgranava fuori, nel silenzio freddo dell’ora antelucana, dei fitti rintocchi che cadevano come nacchere di cristallo sulla neve gelata dei tetti. Era la messa dell’aurora, e già si sentiva Fidela muoversi qua e là sul pianerottolo e nella scala preparandosi ad uscire. Marianna ne ascoltava i passi con una certa paura: paura di vederla entrare nella camera, col mento sporgente dal legaccio della cuffia nera, gli occhi rotondi austeri, silenziosa e ostile. Oramai il suo segreto, come tutte le altre cose sue, era in mano della serva.
Tanto valeva darglielo intero, il suo segreto, affidarle la chiave della sua anima: eppoi pensava che lusingandola con la sua confidenza, poteva ottenerne l’aiuto in quell’ora difficile.
Si alzò, aprì l’uscio e la chiamò sottovoce; poi mentre Fidela entrava col lume in mano, già pronta per andare a messa, vestita col suo costume rigido, con le scarpe ferrate e il rosario intorno al polso, ella tornò rapida a letto e si coprì infantilmente il viso col lembo del lenzuolo.
«Fidela… devo dirti una cosa. Ho ricevuto in casa un uomo, stanotte.»
E tosto si scoprì il viso rosso al quale gli occhi scintillanti davano un’insolita espressione di fierezza.
«Leva quel lume», disse volgendo la testa in alto sul cuscino. «Ho da dirti una cosa, Fidela. L’uomo che è venuto ieri notte è il mio fidanzato.»
La serva depose il lume sul cassettone e tornò verso il letto: aspettava che la padrona continuasse.
E la padrona continuò:
«È il mio fidanzato».
«È il mio fidanzato», ripeté dopo un momento di silenzio. E si alzò a sedere sul letto, sgomentata di quello che stava per dire ma decisa a non tacere oltre. «E povero, è più giovane di me, è uno infine col quale io non potrei sposarmi pubblicamente. Non che abbia altri legami, lui; ma infine non possiamo unirci come fanno gli altri. Eppure è necessario che ci sposiamo, per la salvezza delle anime nostre, e anche per la salvezza della sua vita. Eppoi è necessario, Fidela, perché se no possiamo morire in peccato mortale. Allora, ascoltami bene: io mi fido di te come di un uomo, Fidela; tu non parlerai; ascoltami… abbiamo deciso di sposarci in segreto. Egli si è incaricato di trovare un prete che voglia sposarci in segreto. Volevo dirti questo.»
La serva la guardava e non pareva sorpresa; solo si stringeva un po’ nervosamente il rosario intorno al polso.
«Chi è quest’uomo?»
«È un servo, cioè uno che era servo, qualche anno fa: anch’io ero serva, e così ci siamo incontrati.»
«Tu, eri serva? Marianna?»
«Sì, che cos’ero se non serva? E l’uomo, tu lo conosci; è Simone Sole.»
Fidela indietreggiò d’un passo, atterrita; il rosario tremò al suo polso.
«Marianna! Sei malata?»
Marianna si drizzò sulla schiena, con le spalle nude, e stringendosi il lenzuolo al petto che le ansava forte, protese il viso in atto di sfida.
«Sì, sì, Marianna ha fatto questo! Voi la chiudevate dentro, Marianna, come una moneta dentro la cassa, eppure essa è scappata. Sì, sposerò un servo, un bandito: che ti importa? Ma egli, almeno, non ha badato a me per la mia roba. Sì, sì, lo sposerò. Sono la padrona io, di me stessa.»
Fidela si riavvicinò e le mise la mano sulla spalla, e parve proteggerla tutta con la sua ombra.
«Marianna», disse con insolita dolcezza, come parlasse davvero ad una malata, «tu sei la padrona, chi lo nega? Tu puoi aprire e tu puoi chiudere. Non spetta a me di giudicarti. Solo ti domando una cosa: non pensi a tuo padre?»
«Mio padre non comanda più su di me. Ha comandato finché ero bambina, ed ha fatto di me quello che ha voluto: adesso basta.»
«Eppure bisogna che tu glielo dica; non lo dici a me che sono la serva?»
«No, io non lo dirò a nessun altro, Fidela! Lo dico a te perché tu sei qui e vedi quello che io faccio e non voglio che tu mi giudichi per quello che non sono.»
«Io non ti giudico! Tu puoi cacciarmi via e fare quello che ti pare e piace.»
Marianna reclinò il viso; un tremito lieve le sfiorava le spalle: vedeva l’ombra della serva oscurare il suo letto e sentiva la mano dura e possente premerle l’omero. Sì, le pareva d’essere veramente all’ombra di un albero o di un macigno, rifugiata in un’ora di tempesta; sentiva il calore del grande corpo maschio di Fidela e ricordava le notti infantili, il lettuccio della soffitta, l’ansia e gioia d’essere accanto alla serva.
Nulla era mutato, dopo quel tempo: le pareva d’essere ancora bambina: lo stesso mistero della soffitta era nella sua camera di donna; i personaggi delle leggende avevano preso vita, le cose inesplicabili avevano preso forma; eppure tutto era ancora mistero.
Afferrò con tutte e due le mani, come un ramo a cui si appigliasse per sostenersi, il braccio proteso sulla sua spalla e vi appoggiò la bocca per soffocare i singhiozzi.
«Io non so cos’è», disse poi, riprendendosi; «sono contenta di quello che ho fatto, ma ho paura. Mi pare sempre di sognare e che una mano mi conduca. Mi conduce, ma io la seguo perché questa è la mia volontà. Ho pensato bene a tutto, e non tornerò indietro di un passo, fosse pure per salvare mio padre. È il mio destino, Fidela mia! È inutile che tu mi contraddica, Fidela, è inutile che tu parli. Questo è il mio destino.»
Si stese nuovamente sul letto e sospirò come sollevata da un peso.
«Non ho mai chiuso occhio in tutta la notte. Adesso sono stanca e dormirò», mormorò ricoprendosi il viso. «Sono contenta di averti detto tutto. Stanotte egli tornerà.»
Fidela si chinò sul guanciale.
«Marianna, tu sei la padrona e puoi fare quello che vuoi, ma poiché ti sei confidata in me devi accettare un consiglio. Fa tornare a casa tuo padre, e aprigli il tuo cuore. Noi siamo tutti ciechi, Marianna, e abbiamo bisogno di sostenerci l’uno con l’altro. Eppoi tu sei una buona cristiana e conosci i comandamenti del Signore. E il padre è sempre il padre.»
Sopra il lenzuolo Marianna sentì la mano ruvida sfiorarle il viso, facendole il segno della croce, come da ragazzetta, per scacciarle via dalla mente i cattivi pensieri: ricordò il senso di terrore che aveva provato quella notte nella Serra, dopo il primo sguardo di Simone, ma non cambiò pensiero.
«Lasciami dormire; sono stanca e ho male alla testa. Dopo ti darò una risposta.»
La serva insisteva:
«Dammi il permesso di mandare a chiamare tuo padre. Dopo starai in pace».
«Ebbene mandalo a chiamare», disse lei infine, con stanchezza.
Rimasta sola provò un senso di pace; adesso che il suo segreto era fuori di lei si sentiva più libera e forte; le sembrava di tenerlo lì accanto a lei, il suo segreto, sul suo cuore, come un figlio appena nato: e si addormentò con lui.

La serva intanto andava a messa.
Aveva chiuso a doppio giro il portone, non senza un’ombra di sogghigno amaro sulla bocca dura. Per nulla al mondo avrebbe tradito il segreto della sua padrona, ma pensava al modo di salvarla. Aveva l’impressione che Marianna fosse malata, ossessa: bisognava esorcizzarla. Fosse in vita ancora il canonico potrebbe coi libri degli Evangeli scongiurare la terribile scomunica che minacciava la sua casa: ma erano due donne sole, adesso, e lei non aveva troppa speranza nell’aiuto di Berte Sirca. Era un uomo da nulla, Berte Sirca: lasciatelo con le sue giovenche, coi suoi arnesi da pastore, con la ricotta e il cacio fresco, e farà il suo dovere a puntino; ma portatelo di fronte a un altro uomo, a una difficoltà della vita, e cadrà come una foglia al vento.
Eppure bisognava chiamarlo: e perché egli si decidesse a lasciare l’ovile, con quel tempo di neve e con la necessità che c’era di badare al bestiame per nutrirlo e impedire che morisse di freddo, bisognava mandarlo a chiamare d’urgenza. Deciso questo, Fidela ascoltò con più tranquillità la messa. Ella non si rivolgeva mai a Dio per chiedere aiuto, specialmente in certi casi: Dio può aiutarci in una malattia, e provvedere ai bisogni di ogni giorno: ma quando la disgrazia, come nel caso di Marianna, ce la procuriamo da noi, Dio può anche rifiutare d’aiutarci, Fidela ricordava, del resto, come aveva invocato con terrore l’aiuto divino, quella notte, su nel soppalco dei suoi sciagurati padroni: Dio non aveva inteso, non l’aveva aiutata. In cambio, poi, le aveva concesso la forza di poter servire per tutta la sua vita senza soffrire troppo per i dolori altrui e senza più averne di propri: servire, guadagnarsi il pane e il letto, aiutare i suoi padroni. In fondo, se adesso si occupava dei fatti di Marianna era perché le sembrava il suo dovere di serva: il dolore e la passione della sua padrona non la commovevano; solo, bisognava aiutare la padrona. Se la padrona fosse stata malata, lei avrebbe mandato a chiamare il medico; nello stesso modo mandò a chiamare Berte Sirca.
Quando ella rientrò, Marianna dormiva ancora. Si alzò tardi quel giorno, Marianna, andò anche lei a messa, ritornò pallida e triste e non parlò per tutta la giornata: sfuggiva Fidela come si vergognasse di lei, e verso sera sedette accanto al fuoco aspettando il cadere della notte.
Rientrando dal cortile, dopo aver chiuso bene il portone, Fidela credette di vederla sorridere; e sorrise anche lei di un sorriso aspro che pure metteva sul suo viso duro come un riflesso di luna sul macigno di granito.
«È inutile che tu chiuda», disse la padrona, un po’ irritata e ironica, «bisogna riaprire perché lui tornerà. Lo ha promesso e tornerà.»
La serva sedette senza rispondere: per qualche momento nella cucina calda e chiusa non si udì che il tonfo della neve che continuava a cadere dal pergolato, mentre il gioco della fiamma pareva agitasse sulle pareti, con le ombre e i riflessi, l’inquietudine oscura delle due donne.
Più tardi s’udirono in lontananza passi e voci, ma parevano di un mondo lontano, assolutamente staccato da quello di Marianna.
«Vedi», ella disse dopo un lungo silenzio, «mio padre non torna. Vedi? Anche fossi stata male non tornava lo stesso: gli preme più il bestiame.»
«L’interesse è sangue: dopo tutto è roba tua.»
«Sì, ecco, sempre la roba, niente altro che la roba! E non è questo che dico?»
«E anch’io ti dico una cosa, Marianna, se non ti offendi. Tu credi che Simone, se tu non fossi stata ricca…»
Ma la padrona si volse verso di lei con fierezza sdegnosa: parve volesse morderla.
«Sta zitta, tu! Che t’intendi tu di amore?»
Fidela però era coraggiosa. E durante la giornata aveva ruminato tante cose, come erbe amare il cui sapore le rimaneva sulla lingua.
«E lasciami parlare», disse fissando gli occhi sulla fiamma il cui riflesso rendeva le sue pupille dorate come quelle del falco. «Sì, io non m’intendo d’amore. Appunto perché sono povera e sono serva. Se fossi stata ricca gli uomini mi sarebbero venuti attorno e mi avrebbero insegnato l’amore. Perché è l’uomo che insegna alla donna: la donna è come la legna: è l’uomo che attacca il fuoco. Ebbene, che ne sapevi anche tu, quest’inverno scorso?»
«Appunto! Ma non dirai che non avevo uomini attorno.»
«No, non ne avevi, Marianna! Chi avevi? Quella candela di ghiaccio di tuo cugino Sebastiano.»
«E tu, con gli altri miei guardiani, perché non me ne avete lasciato avvicinare?»
«Perché non era venuta l’ora.»
«Ah, l’ora. Quando doveva venire? Con la morte? Ebbene, del resto: adesso è venuta l’ora. Lasciami in pace.»
«Marianna!», riprese la serva senza volgersi, «pare che tu abbia paura a discutere. Pare che tu ti voglia vendicare di qualche cosa. Ma hai torto, fiore mio. Tu vai incontro alla disgrazia e lo sai bene.»
«Sì, appunto!», replicò Marianna sempre più irritata. «Vado incontro alla disgrazia! È questo che mi piace!»
«Marianna, Marianna! Tu parli come una bambina.»
«Sono vecchia, invece, vuoi dire! Sì, io lo so; è questo il mio male.»
«Il tuo male è qui», disse la serva toccandosi la fronte col dito.
«Eppoi è che sei troppo tranquilla. Bisogna essere poveri e costretti al lavoro per macinare bene i giorni della vita.»
«E tu li hai macinati bene? In che modo? Come l’asino attorno alla mola; per conto altrui. Lascia che io invece li macini per conto mio. Ebbene, sì, così mi piace», ripeté forte drizzandosi sulla schiena e battendosi le mani sulle ginocchia. «Voglio conoscere la disgrazia, sì! So tutto; non ho gli occhi bendati. Mi aspetto l’ira dei parenti, la mormorazione di tutto il popolo; ma questo è nulla. Egli sarà forse condannato: questo è l’affanno: e questo pane amaro voglio: purché siano salve l’anima mia e la sua per l’eternità.»
«Ma dimmi una cosa, Marianna. Perché lo sposi? Non puoi convincerlo egualmente ad entrare in carcere? Se ti ama lo farà.»
«Perché? Ebbene, sì, te lo dico, sebbene tu non possa capirlo: perché voglio legarmi con lui più per la morte che per la vita.»
Il suo viso s’era acceso; gli occhi brillavano. Ma d’un tratto Fidela la sentì gemere di un gemito selvaggio, e la vide piegarsi di nuovo, col viso fra le mani e le dita bagnate di lagrime.
«È inutile combattere», pensò.
Era una forza spaventosa e irriducibile, quella che portava via Marianna, era come quella che una notte aveva devastato la casa dei suoi antichi padroni: la forza stessa del destino.
Ma subito Marianna si riebbe: s’asciugò gli occhi e le dita con la manica della camicia e scosse la testa indietro per scacciar via bene le lagrime.
«Del resto egli non ha mai fatto del male. Non sarà condannato. E io lo sposo perché voglio aiutarlo: il mio sarà suo e il denaro aiuta a rendere giustizia. Eppoi dopo l’inverno viene sempre la bella stagione. Fra pochi mesi, a primavera, tutto sarà finito; saremo tutti felici e sereni. Andremo alla Serra a passare il maggio ed egli sarà davvero come il grande albero che con la sua ombra rinfresca tutto intorno. Perché star lì adesso a tormentarci? Eppoi è così. Non seguo la legge di Dio, dimmi? Dio non ha creato né ricchi né poveri, né buoni né malvagi: solo ha detto: “voletevi bene e unitevi”. E così faremo noi. E tu adesso alzati e prepara la cena per tutti. È ora, su!»
La serva si alzò e sparse il sale sul cinghialetto già infilato nello spiedo.
Ma Simone tardava a venire, e Marianna ricadeva nella sua inquietitudine; uscì nel cortiletto, stette ad origliare al portone. Il silenzio pareva addensarsi con le tenebre. Simone aveva promesso di ritornare: lei però sapeva bene che egli non era padrone della sua parola, sebbene s’illudesse d’essere libero. No, nessuno è libero: anche lei oramai si sentiva legata mille volte più di prima, tirata da una catena invisibile. Perché agitarsi? Meglio piegarsi come lo schiavo nell’angolo, aspettando la sorte. Rientrò in cucina, tornò al suo posto. La serva faceva di tanto in tanto girare lo spiedo col cinghialetto spaccato diventato nero sulla catena e d’un color rosso dorato coperto dal velo del sale nell’interno, con i visceri scuri e le costole biancastre. I dentini e le zanne luccicavano alla luce del fuoco.
L’ora passava.
Il vino e il pane erano pronti sul tavolo e Marianna, per ingannare un po’ la sua inquietudine e convincersi che tutto non era un sogno della sua fantasia, andò in soffitta a prendere dell’uva.
Con una canna in mano stette a guardare in su, scegliendo il grappolo da spiccare: erano tutti belli, i grappoli; pendevano a coppie dal trave centrale come da un pergolato senza pampini, con tutti gli acini intatti, freschi e gialli come grani d’ambra. Sollevò la canna, spiccò un grappolo, lo abbassò cautamente, lo pesò fra le mani: non le parve abbastanza bello e ne spiccò un altro, ma il giunco si ruppe, il grappolo le cadde addosso e gli acini le corsero sulla persona e rotolarono sul pavimento come i grani d’una collana rotta. Ella raccolse il meglio che poté, sollevando di tanto in tanto il viso per ascoltare i rumori della strada.
E prima di ridiscendere guardò dal finestrino chiuso. Attraverso il vetro vide un tratto della città, una distesa di tetti neri e bianchi, e sull’orizzonte scuro sotto il cielo basso, il monte nevoso, disteso nella notte come un grande orso bianco addormentato. Il tempo cambiava; veli di nebbia salivano dalla valle e l’aria si faceva umida.
Il silenzio era intenso. Ella aprì il finestrino, vi si sporse un poco e sentì una maschera di ghiaccio sul viso. Tutto il mondo, fuori, pareva una grande nave naufragata fra i ghiacci: il cielo stesso si abbassava sempre più, abbandonandosi su tanta tristezza come una vela morta.
Eppure d’improvviso a lei sembrò di vedere una sfera scintillare all’orizzonte come se d’un tratto apparisse il sole e l’usignuolo cantasse. Chiuse d’un colpo e ridiscese col lume in una mano e nell’altra il canestro con l’uva: e tutti e due, lume e canestro le tremavano fra le dita, ma pareva si facessero bilancia per sostenerla.
Simone era tornato.

Mentre la serva si attardava a chiudere il portone egli andò incontro a Marianna fino all’uscio della scaletta e si chinò a staccare infantilmente con le labbra un acino d’uva dal canestro.
«Marianna», disse un po’ contrariato, stringendole la mano che teneva il lume, «come va che Fidela mi ha aperto e lasciato entrare?»
«Sa tutto. Non temere di lei.»
«Ah, non è questo!», egli esclamò ridendo. «Mi sembra piuttosto lei spaurita. Zia Fidela, (eccola), ebbene? Così custodite la casa dei vostri padroni? Aprendo la porta ai banditi? L’altra volta, anche, avete fatto lo stesso.»
La serva lo guardava coi suoi occhi lucidi e freddi, con qualche cosa di duro e di ostile in tutta la persona che lo sfidava e quasi gl’incuteva timore; era l’odio non contro di lui personalmente, ma contro tutti gli uomini terribili e le cose spaventose ch’egli rappresentava: odio e proposito fermo di combattere contro di lui come contro il male stesso in persona.
E guardando di nuovo Marianna, che al rientrare della serva s’era scolorata in viso, egli si accorse che la situazione era ben diversa da quella della notte avanti. Adesso fra loro due sorgeva la realtà: il sogno era finito e bisognava discutere.
Si tolse il cappotto, ma non osò attaccarlo davanti al focolare come fa il servo o fa il padrone; lo gettò sullo sgabello come fa l’ospite che deve presto andarsene, e sentì una tristezza improvvisa, un senso di soggezione. E sebbene Marianna, dopo averlo invitato a sedere di fronte a lei, aspettasse ansiosa ch’egli parlasse, egli taceva, a testa china, guardando fra le sue ginocchia aperte la pietra del focolare. Per qualche momento fu un silenzio più gelido di quello che regnava di fuori.
La serva, dopo aver girato lo spiedo, sollevò il viso guardando prima Simone, poi Marianna.
«Ebbene, che dici, Simone?»
«Sono venuto a riposarmi come il viandante accanto alla fontana» egli rispose, non senza un lieve accento di scherno.
Poi subito guardò Marianna, per farsi perdonare. Marianna gli sorrise e chiese a sua volta:
«Ebbene, che cosa mi dici? Tu puoi parlare», aggiunse, «Fidela sa ogni cosa.»
«Marianna», egli disse allora, «le cose sono più difficili di quanto noi crediamo. Ho parlato con mia madre, e lei è andata in casa di un prete, per invitarlo a sposarci in segreto. Non ha detto certo il tuo nome. Disse solo che io voglio sposare una donna prima di entrare in carcere: il prete rifiutò, e disse che tutti i preti di Nuoro faranno come lui. Hanno paura come le lepri al freddo. Però mia madre non dispera. Solo… occorre del tempo…»
Marianna aveva abbassato gli occhi e taceva, un po’ diffidente; pareva non prestasse fede alle parole di lui, ed egli si accese in viso.
«Marianna!»
«Ebbene?»
«Che cosa rispondi?»
«Simone», ella disse sollevandosi, «ti credo, sì; ma ti domando una cosa. Che tua madre parli con me.»
«Va bene. Mia madre farà quanto tu vorrai.»
Fidela girava lo spiedo: e quei due la vedevano, la sentivano in mezzo a loro; era la realtà inflessibile. E anche lei disse:
«Se mi lasciate parlare vi farò osservare una cosa: il matrimonio come volete farlo voi non è valido che in punto di morte. Eppoi ci vuole anche il matrimonio per legge. Perché non fate le cose giuste?»
Simone ammiccò verso Marianna come per dirle: «adesso le rispondo io»; e scosse la testa esclamando con esagerata gravità:
«Ma, zia Fidela mia, io non posso andare dal sindaco!».
«Sì che lo puoi, Simone! Quando sarai uscito dal carcere. Tu mi guardi stordito? Eppure quello che dico io è tanto semplice: interroga la tua coscienza e vedrai. Sei certo di non venir condannato? Meglio. E se non sei certo perché vuoi legare a te Marianna? Che male ti ha fatto Marianna? Se tu hai da lamentarti non è certo di lei. Lei ti tratta da pari a pari, e da suo pari tu devi mostrarti. Non legarla a te, Simone: lei è una donna sola e nessuno la protegge. Lasciale almeno la sua libertà, se lei ha da piangerti condannato…»
«Basta, finitela!», protestò Marianna; ma il viso di Simone s’era fatto grave davvero.
«Non basta, Marianna! Se egli ti vuol bene e tu gli vuoi bene, nessun legame sarà più forte del vostro amore. E tu, Simone, mi hai inteso?», disse Fidela alzandosi e posandogli una mano sulla spalla.
Simone la guardava dal basso e ombre e luci passavano nei suoi occhi: e poiché Marianna tentava di allontanare la serva, egli tese il braccio e le prese la mano.
«Marianna», disse con voce triste, «forse forse la tua serva ha ragione! Però», aggiunse subito, vedendo il viso di lei oscurarsi, «sei tu la padrona, e tu devi decidere.»
Seguì un silenzio grave, Marianna ritirò la mano e non rispose. Pareva convinta della necessità pronunziata da Fidela. Fidela però non si sentiva sicura; preparava la cena e non parlava più perché non c’era nulla da aggiungere; ma il silenzio e l’immobilità della padrona le davano di nuovo l’impressione di qualche cosa di oscuro, di compatto, contro cui era inutile dar contro.
Simone a sua volta era triste come il fidanzato che si vede rimandato a termine lontano il giorno delle nozze; si sentiva stanco, con la mente confusa, e pensava al modo di rimanere almeno un poco solo con Marianna per toglierla dallo sconforto muto e profondo in cui sembrava caduta.
Quando tutto fu pronto sulla tavola, la serva lo invitò a cambiare posto.
Anche Marianna s’alzò, parve guardare se sulla tavola c’era tutto, sollevò la bottiglia del vino.
«Fidela, stanotte ci vuole il vino di Marreri: va a prenderlo», e poiché la serva esitava, la fissò con gli occhi scuri che comandavano.
E quando Fidela li lasciò soli, prese le mani di Simone, le giunse e disse chinandosi come a versare le sue parole nel loro cavo:
«Tu non sei uomo da badare alle parole d’una serva. Noi dobbiamo o sposarci o lasciarci. Tu, io e tua madre cercheremo e troveremo un prete che voglia unirci. Io ti aspetterò. Giura che farai quello che voglio io».
Simone sospirò profondamente, liberato di un peso: mormorò: «giuro» e unì forte le mani di lei alle sue come per chiudervi in mezzo il giuramento.