V.

Per alcuni giorni Simone e Costantino non si mossero dal rifugio; il primo perché, senza dirlo, aspettava che i tre malfattori tornassero, l’altro perché senza il compagno non sapeva dove andare. Costantino però sentiva Simone sfuggirgli; pure coricandoglisi a fianco gli pareva di essere solo abbandonato, e la gelosia lo rodeva. Non capiva la necessità di associarsi ad altri banditi: stavano così bene, loro due soli. Una volta Simone s’era procurato un cane, uno di quei famosi cani della Barbagia, vigili e feroci; e se lo tirava sempre appresso e la notte lo faceva dormire fra lui e il compagno. Costantino ne aveva sofferto molto; aveva odiato il cane come si odia un uomo: tanto che, essendo poi la bestia morta di malattia, Simone accusava il compagno di averla uccisa.
Dopo erano vissuti completamente soli, anche perché tenuti in poca stima dagli altri banditi. Vivevano con poco, senza grandi ambizioni, attenti solo a sfuggire gli agguati dei carabinieri: del resto non venivano neppure ricercati, perché non c’era taglia su di loro. Di questo, Simone si doleva, fra sé, come di un torto o di una ingiustizia, e Costantino che lo conosceva bene a fondo, se voleva umiliarlo, a volte, faceva il calcolo delle taglie offerte per la cattura di altri banditi.
«Per Corraine duemila scudi, per Pittanu, che pure è un’immondezza, mille scudi; per Battista Mossa, (peuh!) mille lire; persino per Bantine Fera cento scudi. Ma egli dice che arriverà a duemila come Corraine a costo di fare qualche sciocchezza.»
Simone sputava con disprezzo, ma si sentiva umiliato.
Loro due vivevano di piccole razzie, e una sola volta, in principio della loro vita di banditi, avevano assalito un negoziante di capretti, togliendogli i denari; si vergognavano però di questa impresa da ladruncoli di strada, o ne parlavano come di una birichinata.
Imitavano i grandi banditi solo nel cercare la stima e l’aiuto dei pastori e dei proprietari di bestiame, ai quali in cambio offrivano più o meno tacitamente la loro protezione contro i malfattori e i ladri comuni. Quando a Simone occorreva qualche centinaio di lire andava da un proprietario e gliele chiedeva in prestito. E il proprietario gliele dava senza contare sulla restituzione. O chiedeva un cavallo, o una giovenca, o un montone, sempre in vendita, ma con la condizione di pagare più in là, quando avesse i denari; e i denari non li aveva mai.
I pastori del resto, non avevano paura di loro. Sono più forti dei banditi, i pastori: sono quasi i loro padroni, poiché ne conoscono i passi, le vicende, sono spesso loro ospiti e protettori; possono, dal loro posto fermo di osservazione, coglierli al passaggio e vendicarsi facilmente se ricevono da loro qualche torto.
Costantino, per conto suo, riceveva denari da sua madre; e le rendite dei suoi pascoli erano triplicate dopo ch’egli faceva quella vita perché i pastori ambivano essere suoi fittavoli. Né lui né Simone amavano versare sangue cristiano, pronti però a difendere la propria libertà a qualunque costo.
In quei giorni vissero come eremiti, cibandosi di caccia e di erbe. Parlavano poco, ma una sorda ostilità era fra loro. Costantino era sopratutto geloso del pensiero che il compagno rivolgeva di continuo a Marianna, e il suo sorriso beffardo si cambiava quasi in sogghigno quando si parlava di lei. In fondo gli pareva impossibile che una donna così come la descriveva Simone potesse commettere la follia di amare e di aspettare un bandito: fosse stata una ragazza di quindici anni, pazienza, a quest’età tutte le donne sono leggere; ma una donna di trent’anni, allevata così, con tanti pretendenti attorno! E si confortava sperando che tutto fosse una illusione della vanità del compagno.
I tre malfattori intanto non tornavano: Simone cominciò ad irritarsene, e spesso diventava cupo, con gli occhi pieni d’ombra. Dentro, la bestia gli si moveva; poi un giorno ritornò calmo, col viso duro irrigidito dalla fermezza della decisione presa.
Seduti davanti alla grotta, mentre Costantino sfogliava un manoscritto di Canzoni sarde egli ricuciva uno strappo della sua giacca di pelle e si faceva indicare minutamente l’itinerario per arrivare allo stazzo del prete: e non imprecava più, come nei giorni avanti, non mostrava più segno di collera o di disprezzo per l’azione assurda del compagno. Questi sollevava e abbassava rapido gli occhi sul libro, indovinando il segreto pensiero di Simone: infine disse mordendosi il labbro:
«Simone! Il demonio ti tenta! Simone! Io preferirei rubare in casa mia piuttosto che in casa di un prete».
Simone pungeva forte l’ago sul cuoio, curvandosi molto, e faceva bene dentro i suoi calcoli senza più badare ad altro.
«Vedi, Simone! per quella donna!»
Marianna stava in mezzo a loro; non li abbandonava un istante. Simone arrossì; sollevò il viso e parve volesse rispondere con violenza; tosto però si ricompose, e con l’ago tracciò sul cuoio alcune linee, come disegni di strade e di viottoli.
Durante la notte fu inquieto. Costantino lo sentì agitarsi, alzarsi, uscire e rientrare; anche lui non dormiva, ma non osava più parlare perché in fondo aveva anche paura del compagno, quando lo vedeva in quello stato, e lo sentiva diverso dal solito, non più il Simone buono di tutti i giorni, ma come ossesso, posseduto dal demonio che gli lavorava dentro. Allora era meglio lasciarlo quieto, abbandonarlo a se stesso e al suo male: Dio non lo avrebbe abbandonato.
E Costantino pregava, col cavo della mano sopra le reliquie che gli pungevano il petto come un cilicio. All’alba sentì il compagno acquetarsi e anche lui si addormentò. Ma non tardò a svegliarlo il rumore sordo e lontano e poi sempre più fragoroso di un temporale che scoppiava d’improvviso nell’alba tragica. Non pioveva ancora, ma dall’apertura della grotta si vedeva il cielo basso, livido, come decomposto dal calore afoso di una atmosfera che odorava di zolfo: il tuono rombava sopra il rifugio con un fragore continuo: pareva che dei giganti distruggessero la montagna facendone rotolare i macigni fino alla valle.
Simone s’alzò e stette un momento a guardare fuori: i suoi occhi riflettevano il tempo, e la tentazione continuava ad agitarsi dentro di lui come l’uragano nell’aria.
Costantino, seduto già col suo libro di canzoni sul limitare della grotta, guardava lo sfondo nero del cielo dove il vento di levante sbatteva furiosamente le cime degli alberi, ma volgeva di tanto in tanto il viso e vedeva Simone ripulire bene il suo fucile, legarsi forte le scarpe e cercare infine qualche cosa in un ripostiglio, sollevandosi e allungandosi come un gatto per arrivarci meglio. Era il ripostiglio delle munizioni di riserva.
«Simone», disse chiudendo il libro sul suo ginocchio e appoggiandovi il gomito, «e vai via con questo tempo?»
Simone si volse, senza staccarsi dalla roccia; aveva un viso cattivo; guardò lontano, fuori, con gli occhi metallici e sghignazzò; pareva gittasse un cenno di sfida al temporale; poi riprese a cercare: trasse una cartucciera che si strinse forte alla vita guardandovi su a capo chino; e quando l’ebbe aggiustata bene la spolverò col lembo della giacca di cuoio e parve sorridere alla triplice borsa che vi era applicata e sulla quale fiorivano primitive roselline gialle e rosse ricamate con la seta. In ultimo si mise il fucile ad armacollo, se lo aggiustò bene sopra l’omero, e stette un po’ fermo sul limitare del rifugio a guardare ancora l’orizzonte e il luccichio fosco dell’acqua giù fra le pietre e le macchie scosse dal vento: pareva un guerriero pronto alla partenza.
Costantino s’era fatto pallido; i suoi occhi sempre fissi sul compagno si accendevano foschi e dolorosi.
«Quando torni?», domandò sottovoce. «Va all’inferno, quando torni?», ripeté irritandosi.
Invece di rispondere alla domanda, Simone gli diede alcune avvertenze come ad un servo che restasse a custodire la casa. Poi balzò fuori, ma ristette un poco più giù della grotta perché grosse gocce di pioggia, dure e brillanti come perle, cominciavano a cadere con violenza, e guizzi di fuoco, seguiti da rombi spaventevoli, sfioravano il bosco e parevano cadere nella fontana che se ne accendeva tutta. Dopo un momento di esitazione si scosse come preso dalla rabbia stessa dell’uragano, con una smania folle di combattimento in cuore: voleva vincere tutto, voleva varcare il muro della prigione che da troppo tempo lo stringeva; perché due o tre gocce di pioggia e il rumore del tuono dovevano fermarlo come una donnicciola all’uscita di casa?
E continuò a scendere a lunghi passi la macchia. La pioggia scrosciava finalmente, sollevata dal vento come un velo intessuto di fili d’acciaio, e si contorceva e strideva ricadendo con furore sugli alberi e sui cespugli a loro volta convulsi d’angoscia. Nella radura i lecci secolari, presi entro quella rete d’acqua, si agitavano come ragni enormi nelle loro tele. Sul cielo passavano serpenti di fuoco, passavano mostri incalzati dal vento, e anche la pioggia pareva corresse, fuggisse lontana, di qua e di là, spaventata dalla sua stessa violenza. Tutto fuggiva, spinto da un impeto di terrore; e tutto quello che non si poteva staccare dalla terra, le pietre corruscanti di un fosco riflesso, le macchie, l’erba che ondulava folle, tutto quello che non poteva prendere parte alla fuga si torceva in uno spasimo disperato.
Simone allungava sempre più il passo: arrivato alla radura si mise a correre come incalzato dall’istinto di mescolarsi agli elementi; il suo fucile e la giacca di cuoio, bagnati dalla pioggia, luccicavano nel grigio; in breve sentì la berretta pesargli sul capo e i capelli stillare acqua come l’erba del prato; eppure respirava con un ansito di sollievo; gli sembrava di essere come quella mattina nel bagno, col nome di Marianna che gli sgorgava dal cuore e rombava col tuono riempiendo di rumore il mondo.
Quando il fragore dei tuoni fu placato sentì un passo alle sue spalle; si volse e si fermò un attimo, irritato, poi riprese a camminare. Era Costantino che lo seguiva come un cane finché lo raggiunse e gli si mise a fianco guardando davanti a sé taciturno con gli occhi fissi che pareva vedessero un punto solo lontano. Non si dissero una parola, continuando a camminare rapidi.
Camminarono a lungo, sotto la pioggia che diventava tranquilla, fitta, incessante; Simone scrollava la testa per liberarsi dall’acqua che gli riempiva la berretta; la compagnia di Costantino gli dava fastidio, gli sembrava più d’impaccio del solito.
Verso il tramonto la pioggia cessò e il sole apparve fra le nuvole che s’erano tutte radunate in cerchio all’orizzonte. Distese di stoppie d’orzo brillavano come stagni argentei tra il verde delle brughiere. Una cerbiatta che sembrava d’oro, col pelo biondo lucido d’umidità e gli occhi spauriti di cristallo nero, attraversò d’un balzo la strada. Una donna a cavallo, coperta tutta da un gabbano d’orbace, s’avanzava lentamente, staccandosi dal paesaggio fantastico di nuvole che faceva da sfondo alla sua figura. Arrivata davanti ai due uomini li guardò dall’alto rispondendo con un cenno del capo al loro saluto. Era giovine e bella, con lo sprone al piede come un uomo; i suoi grandi occhi castanei, all’ombra del lembo del gabbano con cui s’era coperta la testa, rassomigliavano a quelli della cerbiatta, ma sereni, fiduciosi: e Simone pensò alla donna veduta dal servo di Marianna e da Marianna stessa, e disse, scrollando la testa:
«Se quell’altra fosse coraggiosa così!».
«Quando sono con noi, le donne non hanno bisogno d’essere coraggiose!», rispose irritato Costantino.
Eppure seguiva con occhi infiammati la figura della cavalcante. Simone rise; ma anche nel suo riso vibrava un fremito: e tutto intorno a loro tremava come se il passaggio della donna scuotesse l’immobilità stessa del paesaggio.
Essi pensavano che se fossero stati due semplici viandanti l’avrebbero forse assalita: erano invece due banditi e dovevano rispettare, più che la donna, se stessi. E poi Costantino sentiva le reliquie sul cuore agitato dal desiderio e pensava che Dio manda le tentazioni per vincerle.
Questo incontro parve avvicinarli, come se la scossa improvvisa li avesse sbattuti l’uno contro la spalla dell’altro. Simone guardò il compagno come lo vedesse solo allora.
«E dove sei incamminato, gioiello! Lo sai dove si va?»
Costantino non rispose: si chinò a prendere un sasso e lo buttò lontano, entro una pozza d’acqua, che si franse come un vetro.
«Pensaci», riprese Simone. «Io vado allo stazzo del prete. La vecchia forse ti riconoscerà…»
«E lascia che mi riconosca: anche Dio ci conosce e ci riconosce.»
Simone non replicò, infastidito, ma la baldanza con cui era partito gli svaniva dal cuore. Cadeva la sera e il crepuscolo gettava anche sopra di lui la sua ombra. Sì, in fondo sentiva che la compagnia di Costantino gli dava noia come quella di un testimone pericoloso: inoltre ricordava di aver promesso a Marianna di non fare più del male, e gli sembrava che trascinando alla sua impresa il compagno riluttante ed esponendolo al rischio di essere riconosciuto, il suo peccato fosse maggiore. Di tanto in tanto però si scuoteva tutto per liberarsi dell’umidità che gli penetrava fino alle ossa e dei suoi scrupoli tediosi; e così andavano, lui e il compagno, inquieti tutti e due, risalendo il sentiero di una valle, e pareva camminassero senza scopo verso le nuvole dell’orizzonte.
Allo svolto del sentiero videro una capanna a cono, sullo sfondo delle nuvole, sul ciglio della valle, col fuoco che brillava nell’apertura e accanto la figura nera del pastore: e volsero i passi da quella parte, per asciugarsi e rifocillarsi, ma prima di arrivare Simone disse accigliato al compagno:
«Guardati bene dall’accennare a dove andiamo: se no è meglio che tu non venga oltre con me».
Costantino si fermò, si morsicò la nocca dell’indice; poi sollevò il viso infiammato di sdegno.
«Simone! Tu non credi a quello che pensi! Non sono Caino! Se tu mi ripeti una terza volta di andarmene me ne andrò davvero, ma, ascolta, non mi vedrai più. Ricordati che ci siamo giurati fede la notte di San Giovanni; e il compare di San Giovanni, quale io sono per te e tu per me, è più che la sposa, più che l’amante, più che il fratello, più ancora del figlio. Non c’è che il padre e la madre a superarlo. Per questo vengo con te, oggi, anche contro la mia coscienza e con pericolo di vita; e tu mi tratti come un cane! Il pensiero della donna ti mangia il cervello e perciò ti compatisco.»
Simone non replicò: a testa bassa andò oltre, incontro al pastore che li salutava dall’alto.

Camminarono anche tutto il giorno seguente. Dopo il tramonto giunsero verso il litorale, sotto le falde di un monte desolato, nero sul cielo rosso come un cumulo di carboni spenti. Un paesetto con le casupole grigie affondate in certe buche scure simili a cave di pietra abbandonate, con le strade coperte di polvere gialla, accresceva la desolazione del paesaggio. Più in là tutto cominciò a brillare nel crepuscolo: in fondo alla landa selvaggia del litorale, fra il giallo dorato delle dune e l’azzurro del mare, lunghe chiazze di acqua paludosa vibravano argentee e rosse al riflesso del cielo come enormi pesci guizzanti sulla sabbia.
Fra le grandi rocce nere, forse scogli che il mare ritirandosi aveva lasciato scoperti, stridevano le aquile marine; e Simone giudicò bene fermarsi in una di queste fortezze solitarie dalle quali si dominava il mare e la terra. Appoggiato pensieroso alla punta della roccia guardava davanti a sé come il pilota che esplora. Tutto era silenzio; nell’ombra sotto la montagna pochi lumi brillavano nel paesetto e si spegnevano e si riaccendevano, scintille in un focolare coperto di cenere: di tratto in tratto un alito lieve di vento frugava le macchie e portava l’odore del mare; e la rete d’oro delle stelle si abbassava sempre più sulla terra silenziosa.
Costantino, stanco ma di nuovo rassegnato ad accettare gli ordini di Simone, sperava di passare la notte laggiù, e s’era già piegato con le braccia intorno alle ginocchia che gli servivano di guanciale, quando il compagno si volse, duro, inflessibile come un capitano verso i suoi soldati.
«Costantino, alzati. Tu devi procurare due cappotti lunghi, uno per te, uno per me.»
E Costantino si alzò e s’avviò, senza rispondere una sola parola.
Allora Simone, vedendolo sparire nel buio, s’intenerì per lui come per un fratello piccolo che partisse per un luogo lontano sconosciuto: e d’un tratto gli parve di essere vile, di tradirlo e di violentarlo.
Erano luci vaghe della sua coscienza, simili ai guizzi di chiarore che sfioravano il cielo sopra le montagne della costa e non erano lampi. Le ore passarono, il cielo si separò dal mare e le aquile stridettero svegliandosi. Che è accaduto di quello scemo di Costantino? A quest’ora un uomo svelto sarebbe già di ritorno mille volte. Certo, non è riuscito a rubare i cappotti: neppure a quello è buono.
E il cielo diventò rosso, e il mare parve tutto sparso di sangue dorato.
Costantino non ricompariva e Simone dapprima s’irritò, poi cominciò ad inquietarsi. Quando vide il sole sorgere dal mare si decise a rimettersi in cammino, solo: dopo tutto forse era meglio che la sorte lo avesse liberato del compagno: ma eccolo che ritorna, con un involto nero sotto il braccio, calmo come un servo che è stato a fare una commissione.
Simone svolse i cappotti, li sbatté, li guardò da una parte e dall’altra e se ne misurò uno: andava bene, era largo, copriva la sua sopragiacca, e il cappuccio gli calava fino al naso.
«Qui dentro ci sta una chiesa coi santi e tutto», disse, mentre Costantino guardava triste e invece pareva sorridesse. «Misura il tuo.»
«L’ho già misurato.»
Simone si tolse il cappotto e lo sbatté di nuovo prima di ripiegarlo stretto: e gli uccelli volarono via dalle macchie attorno, scintillando nell’aria azzurra.

Ripresero il viaggio camminando per un sentiero della brughiera che scendeva fino al mare.
«Adesso mi racconterai come hai fatto, Costantì! Hai tardato ma sei stato abile.»
Costantino guardava il mare, e i suoi zigomi sporgenti davano più che mai al suo viso un’aria di triste sarcasmo.
«Come ho fatto? Ho fatto così. Li ho comprati!»
«Adesso ascoltami, Costantino. Il rischio è grande, e forse il profitto sarà poco. Chi lo sa? Ecco lassù lo stazzo; pare che tutto sia tranquillo, ma come possiamo esserne certi? Se la vecchia ha dato credenza a te, se non ti ha preso per un vagabondo scemo, avrà provveduto; avrà nascosti i denari e le cose preziose, avrà chiamato nella sua casa gente a sorvegliare ed aspettare i malfattori. Noi dobbiamo prima assicurarci se lo stazzo è indifeso, e dobbiamo fare il colpo di pieno giorno. Fidati di me: io benderò la vecchia perché non ti riconosca: e ti giuro sul nome di mia madre che non le farò del male. E adesso ascoltami; tu resta qui; io andrò ad esplorare lassù intorno.»
Erano arrivati ad una regione strana, melanconica; il mare era scomparso all’orizzonte e oltre la brughiera, a sinistra verso l’interno dell’isola, sorgeva una catena di colline nerastre dentellate come scogli, ma fra un dente e l’altro s’affacciavano cime azzurre di monti lontani che lasciavano dietro la muraglia scura un paese più vago e fresco.
Di qua tutto era triste nella desolazione della brughiera che si arrampicava fino alle falde delle collinette brune. Sulle alture sorgeva qualche stazzo: casette grigie o imbiancate con la calce, in mezzo a recinti di lentischio o di fichi d’India, silenziose e come abbandonate. Una di queste, fra due piccole valli rocciose sopra un ciglione rafforzato da muri a secco, bianca e dritta come un piccolo castello, era la casa del prete.
Simone dunque s’avviò, lasciando Costantino fra i cespugli in fondo alla valletta a sinistra; un sentieruolo tracciato fra l’erba chiara delle chine pietrose lo guidava: e intorno la solitudine era completa, grave sotto il cielo melanconico del meriggio.
Sotto il muro del ciglione si fermò; provava quasi un senso di timore; aveva l’impressione che dentro lo stazzo chiuso stesse qualcuno in agguato pronto alla difesa; ma pensò a Bantine Fera e tirò avanti.
Intorno al piazzaletto della casa l’erba cresceva alta, e sulle foglie azzurrognole dei fichi d’India già si aprivano i fiori d’oro. L’ovile dietro lo stazzo, le mandrie di rami secchi, una tettoia simile a una palafitta con la mangiatoia di pietra, e il fochile per ferrare i cavalli, tutto dava l’idea d’una abitazione preistorica abbandonata dal tempo dei tempi. Possibile che dentro esistessero dei tesori? Tutto è possibile nel mondo, e oramai Simone lo sapeva meglio degli altri. Girò dunque due volte attorno allo stazzo, in un cerchio sempre più stretto, procurando di non lasciar tracce dei suoi passi, come la volpe. Le finestruole al pian terreno, alte, munite d’inferriata, – buon segno per il tesoro – e i balconcini di legno, quasi rasenti al tetto, la porta e il portone, tutto era chiuso. Allora ritornò giù nella valletta, scontento.
L’impresa gli appariva troppo facile.
«Muoviti», disse a Costantino che aspettava seduto dietro la macchia e guardava come un tesoro l’involto coi cappotti. «Bell’impresa da marrani! Non ci sono neppure mosche.»
Costantino tuttavia sciolse l’involto e indossò il cappotto tirandosi il cappuccio sugli occhi; Simone rideva, ma un po’ per giuoco un po’ sul serio si camuffò anche lui: e andarono su, piano piano, sotto il sole che li faceva sudare. La loro ombra li divertiva.
«Così Dio mi assista, mi pare di essere mascherato e di andare al ballo», diceva Simone; però la sua allegria era cattiva.
Giunti allo stazzo picchiarono: nessuno rispose, nessuno aprì. Solo in fondo alla valletta opposta un cane cominciò ad abbaiare ed altri risposero. E i due compagni si guardarono con l’impressione che i cani si burlassero di loro. Il più strano fu che avendo Simone spinto con insistenza la porta, questa cedette e si aprì: apparve un atrio con la cucina a destra e una piccola stanza a sinistra; e in fondo una scaletta di pietra rischiarata da un finestrino munito di inferriata.
Nessuno appariva. Entrarono e Simone gridò:
«Oh, i padroni!».
Il silenzio solo rispose.
La casa era deserta, disabitata: anche i mobili erano stati portati via, e solo nella cucina intorno al focolare di pietra ove biancheggiava un mucchio di cenere, due vecchi sgabelli neri pareva aspettassero tristi ma fermi il terribile avvenimento che aveva costretto i padroni ad esulare.