VI.

L’Estate fu lunga e calda; poi tutto d’un tratto, alla fine di ottobre, cominciò il freddo. La nebbia velava le notti già lunghe e il monte Orthobene fumava di continuo, sull’orizzonte dietro il cortile di Marianna: pareva che le rocce stesse si sciogliessero in vapori grigi; e anche il cuore di Marianna si disfaceva di tristezza. Il tempo passava: passava invano.
Verso Natale nevicò. La sera della vigilia ella si affacciò un momento alla finestra e il paese e le valli e i monti, fatti di marmo dalla neve gelata, più bianchi ancora sotto la luce di un cielo pallido, le parvero un grande cimitero. Intorno alla sua casa sentiva maggiormente stringersi questo silenzio, questo chiarore lugubre; e le pareva che l’inverno non dovesse cessare mai più. Di tanto in tanto risuonava un breve tonfo sordo; era la neve che cadeva a blocchi dalle sbarre del pergolato.
Neppure quella sera gli uomini tornarono. Nel pomeriggio Sebastiano le aveva fatto una delle sue solite visite affettuose ma inconcludenti, aveva scherzato con la serva dicendole di chiudere bene il portone quella notte perché i re Magi s’erano già messi in viaggio e molti ladroni scorrazzavano in cerca di loro profittando intanto di quel che trovavano: e infine accomodandosi bene il cappotto sulle spalle, mentre se ne andava, disse alla cugina, guardandola negli occhi:
«Stasera l’innamorato ti porterà certo il dono, un porchetto grasso di cui mi serberai la parte».
Così egli continuava a turbarla con le sue allusioni; forse non erano che semplici scherzi, ma lei finiva col sentirsi battere il cuore ogni volta che lo vedeva: eppure il nome di Simone non era mai stato pronunziato da loro.
Andato via lui, Fidela chiuse il portone: la serata si annunziava triste, per le due donne sole; d’altronde era stato sempre così, fino dai tempi del canonico, il quale andava alla messa di mezzanotte scortato da un servo, senza permettere alle donne di accompagnarlo, né di invitare gente in casa, e al ritorno si ritirava digiuno nella sua camera. No, in verità, Marianna non si era divertita mai, neppure a sedici anni.
Dopo cena sedette accanto al camino; e pure tutta circondata dall’aureola rossa della fiammata, le pareva di aver freddo, di essere ancora ragazzetta, sola, scesa di nascosto ad aspettare il ritorno dello zio dalla messa con la speranza che egli rientrasse con qualcuno, e si facesse un po’ di festa come nelle altre case cristiane.
Un anno era stato Simone ad accompagnare il canonico; ma al ritorno aveva chiesto il permesso di andare a cena in casa dei suoi parenti, e Marianna non ricordava altro.
Del resto non amava ricordare il breve periodo in cui egli era stato suo servo; era un altro, il Simone di allora, umile e schiavo; una delle tante immagini melanconiche cancellate dal quadro del passato, una figura sommersa in fondo al pozzo.
Finite le sue faccende, Fidela sprangò la porta e sedette anche lei davanti al fuoco, per terra. Marianna sollevò il viso, stette a guardare sulla parete l’ombra grande aquilina del profilo della serva e disse con amarezza:
«Come ci divertiamo, in questa sera di festa zia Fidé!».
«Colpa tua, Marià; non sei nata per spassarti, tu!»
«Come dovrei fare?», domandò lei, chinando il viso, più seria di quanto l’altra credesse. «E voi vi siete mai divertita?»
«Il mio destino non era il tuo, Marianna! Ma di sicuro se io fossi stata al tuo posto non avrei fatto la tua vita.»
«Ditemi che avreste fatto!»
E poiché la serva esitava a rispondere, ella s’irritò.
«Avreste preso marito, ecco tutto, ecco cosa volete dire. È questo il divertimento? Sì, e stanotte egli avrebbe fatto venire i suoi amici a cantare, e si sarebbero ubbriacati: e a noi, dopo aver lavorato tutto il santo giorno, ci sarebbe toccato di versare il vino; null’altro.»
«Marianna, non è così! Un uomo sensato, un buon marito, è ben altra cosa per sua moglie.»
«E dove lo trovo questo buon marito? Nessuno mi vuole.»
Allora la serva la guardò con rimprovero.
«Non insultare Iddio. Sei tu che non vuoi, Marianna; io sono la tua serva e non dovrei parlare così; ma stanotte nasce Cristo e lui disse che siamo tutti eguali davanti a lui. Lascia dunque che io ti dica una cosa, Marianna: tu hai chiuso il tuo cuore come uno scrigno. E cosa c’è dentro? Tu sola lo sai. Ma è qualche cosa che ti pesa.»
Dapprima Marianna aveva sollevato il viso con fierezza, e le sue sopracciglia si sbatterono un poco, lievemente, come due sottili ali d’uccellino; d’un tratto però sentì davvero come un peso sul cuore che glielo schiacciava, e il suo segreto le salì alla gola e parve soffocarla. Chinò ancora la testa e un velo di lagrime ardenti le bruciò gli occhi: lagrime di amore, di umiliazione e anche di disperazione. Perché oramai non aspettava quasi più, e il suo segreto le pesava sull’anima come un moribondo sulle braccia d’una persona che lo ama e spera di vederlo rivivere ma agonizza con lui. E la serva aveva letto attraverso i suoi occhi, dunque, e sapeva: questa umiliazione era più grande ancora perché inutile.
A volte le pareva di odiare Simone. Perché era venuto nella sua vita? Le aveva portato via la pace, l’orgoglio, come gli agnelli dall’ovile depredato, ed era tornato nella macchia a nascondersi.
Ogni domenica mattina ella vedeva le sorelle di lui in gruppo, prima due, poi altre due, in ultimo la più anziana quasi a guardare le altre, immobili inginocchiate sul pavimento nudo della chiesa ancora deserta. Erano vestite di rosso e nero, con le bende nere che lasciavano appena intravedere il pallore diafano dei loro volti di medaglia. Pregavano, con le mani composte sul grembo, col rosario che girava lentamente fra le dita rigide, come per moto proprio. E le due prime e le due seconde si rassomigliavano talmente che parevano coppie di gemelle. Marianna s’inginocchiava accanto all’ultima e sembrava loro sorella. Il cuore le batteva, tutta la persona vibrava come una corda per il desiderio di protendersi verso le fanciulle e domandare notizie di Simone; quando esse volgevano gli occhi per salutarla le pareva di rivedere gli occhi di lui, da lontano; giù nel pozzo del sogno e del dolore: ma non osava chiedere di lui e se ne andava calma in apparenza, chiusa nel suo amore che di giorno in giorno diventava dolore.
No, se Simone avesse voluto, non gli sarebbe mancato né il modo né il coraggio di mandarle notizie. Un uomo che ama veramente non può vivere così, lontano e silenzioso come un morto.
E mille inquietudini le ronzavano dentro. Visioni fosche, mostruose come le nuvole che incessantemente salivano dal monte le passavano in mente; poi d’improvviso tutto si rasserenava; il ricordo delle parole di lui le soffiava sul cuore come un vento di gioia, una diana che riportava l’alba serena della speranza. La certezza che egli sarebbe tornato le faceva allora sollevare il viso in ascolto; e le pareva di sentire il passo di lui lontano che camminava camminava per le vie del mondo solo per riavvicinarsi a lei.
Eccolo! Anche adesso, mentre la serva brontolava ancora qualche cosa che lei non ascoltava più, il passo si avvicinava. Era attutito dalla neve; ma lei lo distingueva egualmente, rapido, agile, sicuro come quello del muflone sulle montagne.
L’illusione fu così forte ch’ella balzò appoggiando la mano alla parete per non cadere; poi fece qualche passo verso la porta, e come la serva fu pronta ad aprire ed uscire la prima, ella la rincorse e l’afferrò per le braccia costringendola a fermarsi.
«Zia Fidela, lasciate che apra io… e non badate a chi viene. Zia Fidela, fatemi questo favore…»
Il suo viso pallido, l’alito ansante e la voce supplichevole rivelavano, meglio che ogni parola, chi era la persona che stava dietro al portone.
Fidela tentò quindi d’essere ancora la più forte poiché sentiva che l’uomo atteso dalla padrona era un nemico.
«Marianna, bada! Siamo due donne sole, Marianna…»
Per la prima volta in tanti anni di schiavitù Marianna si ribellò; la passione le diede una forza quasi brutale, le fece trascinare la serva fino alla scaletta, e là nel silenzio e nel buio la sua voce risonò diversa, rauca, imperiosa:
«Andate. La padrona sono io».
Mai dimenticò il rumore dei passi della serva su per la scala e nelle camere di sopra; risuonava forte nel buio, quel rumore prepotente; e a lei parve che tutta la casa le tremasse sopra come un peso da cui invano tentava di liberarsi.
Tornò fuori; ma non aprì subito: aveva quasi terrore ad aprire. Colpi lievi ma non timidi risuonavano al portone: una voce sommessa chiamò due volte: «Marianna, Marianna?» e pareva le rimproverasse di esitare, di tardare tanto ad aprire.
Un attimo, e il lungo dolore e il lungo inverno cessarono: era ancora la notte della Serra, con la luna e il canto dell’usignuolo. Allora parve che il portone si aprisse da sé, spalancato da una forza misteriosa che toglieva ogni ostacolo fra i due amanti. Simone apparve, alto, nero, col cappuccio orlato di neve come il profilo di un monte; entrò risoluto, come un tempo, quasi tornasse dall’ovile o dalla messa di mezzanotte, e andò dritto in cucina. Si guardò attorno per assicurarsi che erano soli, poi si tolse il cappotto, lo attaccò vicino al focolare come faceva quando era servo, si sfilò dalle braccia la tasca umida e gonfia, la depose per terra e si sollevò con gli occhi scintillanti di gioia.
«Marianna! Sono dunque qui!»
E scuotendo la testa come per scacciarne via l’umidità ma anche per dire a lei: «sì sono proprio io» le prese le mani con le sue mani fredde.
Si guardarono, in silenzio. Marianna tremava, le gambe le si piegavano. Le pareva ch’egli le sorbisse l’anima con gli occhi e che le loro mani non dovessero staccarsi mai più. E ogni sua volontà si disfaceva davanti a lui come la neve ch’egli aveva portato di fuori si disfaceva davanti alla fiamma del focolare.
Senza lasciarla, Simone indietreggiò d’un passo per vederla meglio, poi guardò verso l’uscio del corridoio e rise piano piano, muovendo di nuovo la testa col suo gesto fanciullesco.
«Zia Fidela dirà bene che sono entrati i banditi, stanotte!»
Bastò questo perché Marianna tentasse di riaversi.
«La padrona sono io, non lei», disse con voce grave, cercando di liberare le mani. «Lasciami, Simone, dimmi piuttosto cosa mi hai portato. Lasciami», ripeté con più forza, divincolandosi, poiché lo sentiva tanto vicino che l’alito di lui le penetrava in bocca.
«Che cosa ti ho portato? Ecco che cosa», egli disse subito, intimidito; e piegandosi sulle ginocchia trasse dalla tasca un involto umido di sangue.
«Non credere sia un porchetto rubato, oh! È un cinghialetto!»
Marianna guardava dall’alto, grata e commossa; e provava anche un senso di compatimento, di tenerezza, come per il dono di un fanciullo: dono piccolo ma sincero.
Egli intanto svolgeva sulla pietra del focolare il panno insanguinato. Il cinghialetto con la cotenna rossa, sventrato e ripieno di foglie di mirto, vi si distese; la bocca aperta, con le zanne lunghe sporgenti fra i dentini bianchi, pareva volesse mordere ancora con uno spasimo di dolore. Marianna prese il panno per i lembi e lo depose sul tavolo, poi si asciugò la punta delle dita insanguinate e si mise a sedere accanto al fuoco accennando a Simone di mettersi vicino a lei.
«Ti ringrazio», disse con la sua voce di nuovo quieta, incrociando le mani sul grembo. «Siedi, Simone. Sei stato da tua madre?»
«Sì, sono stato. Va sempre male, e le mie sorelle non volevano neppure lasciarmi entrare. Sì, sono stato», aggiunse un po’ timido e incerto, riprendendole una mano ch’ella tentava di non dargli, e nettandole fra il pollice e l’indice un dito ancora roseo di sangue.
Tacquero di nuovo, senza più guardarsi: pensavano alla stessa cosa e lo sapevano. E fu Marianna la prima a parlarne; gli abbandonò la mano e domandò sottovoce:
«Hai detto a tua madre che venivi qui?».
«Detto gliel’ho, Marianna.»
«Tu hai fatto bene, Simone. E lei che disse?»
«Mi raccomandò di non farti del male. Ed è questo, Marianna: io bado alla mia coscienza. Per questo non sono venuto prima. Marianna, ascoltami, in fede di cristiano: io ho paura di farti del male, ed anche il mio compagno me lo dice. Eppure… eppure non ho resistito al desiderio di rivederti… E tu? Mi aspettavi?»
Marianna taceva: sentiva il cuore gonfio e un nodo le stringeva la gola; la realtà non le era mai apparsa così chiara come in quel momento di sogno; sapeva che il suo destino e quello di Simone dipendevano da una parola e avrebbe voluto non dirla; tutto glielo impediva, eppure non poté mentire.
«Sì, ti aspettavo.»
E tosto tornò a ritirare la mano dalla mano di lui, e si piegò come sotto il peso della sua responsabilità. Ma egli sembrava diventato un altro; si era sollevato sulla schiena e si guardava attorno, con gli occhi corruscanti.
«Tu mi aspettavi! Marianna, dunque ho fatto bene a venire. E adesso?»
Ella rispose con un gesto vago della mano.
«Adesso siamo qui… assieme.»
«Assieme…», ripeté lui; ma per la terza volta tacquero come fossero lontani e non avessero più nulla da dirsi.
«Assieme!», pensava Simone, a testa bassa, umiliato dalla sua impotenza. «A che serve che siamo vicini se non la posso toccare? Che cosa sono venuto a fare?»
«Assieme», pensava lei, irrigidendosi nel suo orgoglio. «Ma è inutile che io lo abbia aspettato tanto; è inutile che egli sia venuto se non mi ama dell’amore con cui lo amo io.»
Ma neppure lei sapeva quale era quest’amore: non poteva esisterne che uno, di amore fra lei e Simone, amore fatto di dolore e di oblio d’ogni speranza. Ella aveva aspettato mesi e mesi ed egli aveva camminato lungamente per arrivare; eppure tutta l’attesa di lei e il cammino di lui erano stati vani se l’orgoglio li divideva ancora.
«Che hai fatto in tutto questo tempo che non ci siamo più veduti?», domandò finalmente.
Simone parve esitare, diffidare; poi sorrise.
«Che ho fatto? Ebbene, ti dirò tutto, sentimi.»
Raccontò l’avventura dello stazzo, e come aveva passato il resto del tempo col compagno quasi sempre nascosti nel rifugio come due eremiti, a vivere di piccole rapine, a questionare per futili cose, a cantare e ridere assieme. In ultimo, verso l’autunno, Costantino s’era ammalato. Era voluto andare su alla chiesetta in vetta al monte per pregare; e gli era parso di essere inseguito, cacciato per la boscaglia come un cervo. Per non tradire il compagno non era tornato al rifugio, passando la notte e il giorno seguente in una buca in fondo alla valle verso Olzai.
«E me lo vidi tornare con la morte in faccia dopo tre giorni: aveva la febbre alta e la polmonite, e parlava sempre di fuggire. Lo buttai giù sulle pelli calde, accesi un fuoco di qua un fuoco di là, lo tenni fermo per le mani, seduto presso di lui, per otto giorni. Sudavo con lui, così Dio mi assista, e deliravo con lui. Gli pareva sempre di fuggire e io fuggivo con lui. Poi quando stette bene un poco andai da sua madre ed ella venne su con me, e stette con noi tre giorni. Questo gli fece bene, lo guarì. Poi venne su da noi, un giorno dello scorso novembre, sì, saranno circa cinque settimane, venne su da noi Bantine Fera…»
Pronunziò questo nome a bassa voce, quasi con religione ma anche con timore e con vanità; e tosto sollevò gli occhi per osservare l’effetto che le sue parole producevano in Marianna. Marianna ascoltava quieta, col viso tra le mani. Il nome di Bantine Fera non le sembrava più importante né più terribile di quello di Costantino Moro; tutti e due le destavano solo un poco più d’ombra in fondo al cuore: e Simone se ne sentì offeso.
«Tu sai chi è Bantine! È coraggioso e anche feroce, se occorre. Ma mi vuol bene; sì, mi vuol bene come ad un fratello. Così, dico, venne su… Era la seconda volta che mi cercava.»
D’un tratto tacque. Poiché Marianna non capiva l’importanza dell’andata di Bantine Fera al rifugio, era inutile raccontarne le conseguenze: ma era anche un istinto oscuro di diffidenza che gli troncava le parole. Parlò quindi di altre piccole avventure: ogni tanto però il nome del nuovo compagno gli tornava alle labbra.
Marianna ascoltava, sempre china; quando i racconti furono terminati sollevò gli occhi e il suo sguardo fu così triste e grave che Simone si oscurò in viso.
«Tu non sei contenta?»
Invece di rispondere, ella domandò:
«E se la vecchia c’era?».
«Quale vecchia?»
«Quella dello stazzo.»
Simone provava un impeto d’ilarità ogni volta che ricordava l’avventura; rise dunque e tornò ad afferrare la mano e se la strinse al petto.
«Sei stata gelosa della vecchia dello stazzo? Se c’era la facevamo ballare, ti giuro sulla mia coscienza; null’altro. Marianna, io non amo il sangue: Marianna, hai veduto come l’ho asciugato dal tuo dito? Ma tu non credi in me; tu non sei contenta di me. Ebbene, guardami», disse volgendosi tutto a lei e costringendola a sollevarsi, «guardami in viso; guardami! Ti sembro un uomo malvagio, io? E se tu mi credessi un uomo malvagio, mi vorresti bene, tu?»
«No», ella rispose subito.
«E allora sta su e guardami. Non vergognarti di guardarmi, Marianna! Io vincerò tutto, come in guerra. Ebbene, andrei anche in carcere, se occorresse: che anche in guerra non si fanno i prigionieri? E poi sarei libero e tornerei ad essere il tuo servo; scaverei la terra ai tuoi piedi perché non ti fosse dura. Che altro vuoi da me? Dillo, che cosa vuoi da me; dimmelo, Marianna. Sì, non te lo nego; prima di rivederti, il carcere e la morte e l’inferno erano la stessa cosa per me: volevo sempre vivere in mezzo alle pietre e alle macchie come il cinghiale. Che m’importava il resto? Sì; e aspettavo il tempo e l’occasione per diventare ricco e aiutare la famiglia. Null’altro m’importava. Ma adesso tutto è cambiato. Quando la madre di Costantino venne su da noi, pregavano, madre e figlio, come se la grotta fosse una chiesa. Dicevano le litanie al suono del vento. Ebbene, Marianna, ti giuro, io stavo accovacciato in fondo alla grotta e non muovevo le labbra ma pregavo con loro. Questo tu hai fatto di me: così Dio mi aiuti, mi hai fatto ritornare come un bambino! Così sono, Marianna! Guardami!»
Ed ella lo guardò con gli occhi così umidi di desiderio che egli ricordò la sorgente in mezzo al bosco del rifugio: e gli parve d’immergersi, di sprofondare in quell’acqua e di morirvi. Le appoggiò la testa sul seno e poi gliela lasciò cadere sul grembo, come si fosse d’un colpo addormentato. E lei a sua volta ricordava il loro primo incontro, il canto dell’usignuolo che purificava la notte e pareva scacciasse d’intorno a loro tutti gli spiriti del male; e si passò la mano sugli occhi per togliersi il velo d’orgoglio che la divideva da lui.
Ecco, sì, il velo cadde, la muraglia cadde; adesso lo vedeva bene, il Simone ch’ella aveva atteso e atteso, il Simone che aveva camminato e camminato per arrivare a lei. Era sul suo grembo, ritornato davvero bambino. Era l’uomo in grembo alla donna; il fanciullo innocente al quale la madre insegna la buona strada.
Allora ella non ebbe più vergogna, né paura, né orgoglio: solo aveva il senso di una responsabilità quasi spaventosa. Un uomo era lì, ai suoi piedi; ella poteva stroncarlo come un fiore, servirsi di lui come di un’arma; poche parole e il destino di lui era mutato.
Esitava quindi a parlare. Gli passava le dita fra i capelli umidi e un tremito lieve agitava le sue ginocchia sotto il peso della testa di lui.
«Alzati», disse finalmente. «Tu sai quello che io voglio da te, Simone. Non credere che io lo voglia per paura: desidero che tu torni davvero innocente, che ti lavi l’anima come il viso alla fontana. Come ti ho aspettato sei mesi ti aspetterò sei anni, venti anni, ma tu devi venire a me come di nuovo battezzato. Finché starai così in giro come Lucifero scacciato dal cielo, il demonio appunto ti terrà compagnia. Prenderà forma di uomo, il demonio, per tenerti compagnia e succhiarti il sangue; sarà Costantino Moro, sarà Bantine Fera, sarà chiunque ma sarà il demonio, e a volte ti starà così vicino che ti parrà di averlo dentro.»
«È vero!», egli disse con un sospiro profondo.
«Ebbene, Simone, bisogna sfuggire il demonio. Bisogna che tu ti rinchiuda come in un convento, per castigo e penitenza; però devi prima interrogare bene la tua coscienza, e seguire il mio consiglio solo se questo è la tua precisa volontà.»
«Ebbene, sì, se tu lo vuoi», egli cominciò, ma già il soffio della realtà lo gelava di nuovo, più crudo di quello della tormenta di neve che lo aveva accompagnato dai monti. Rivide il sorriso lieve della grande bocca ferina di Bantine; esitò a promettere.
Furono momenti penosi durante i quali entrambi sentirono nella piega più scura dell’anima il desiderio di essere di nuovo lontani, di non essersi incontrati mai. Marianna disse con voce un po’ rauca:
«Simone, tu non devi promettere nulla, se la coscienza non ti dice che manterrai».
Egli sospirò ancora, profondamente; pareva gli mancasse l’aria.
«Sentimi il cuore, Marianna: pare mi si rompa. Sì, andrò in carcere. È questo che vuoi. Ma anche io vorrei essere sicuro di te! Non mi importa neppure di morire: una volta sola si muore; ma vorrei essere sicuro di te. Che devo fare, se tu non credi alla mia parola?»
Si chinarono assieme verso il fuoco, silenziosi, come scrutando nelle forme delle brace il loro destino. Entrambi pensavano di nuovo la stessa cosa ma non osavano dirla.
«Anch’io non voglio farti del male», disse infine Marianna, sottovoce. «Ho la coscienza anch’io, e non so adesso se, consigliandoti di andare in carcere, faccio bene o faccio male. E se poi ti pentirai? Sei tu proprio certo di non aver fatto tanto male da non essere condannato a lunghi anni di pena?»
«Male da essere condannato a una lunga pena, no, se c’è una giustizia. Ma ho dei nemici, e vengo accusato di reati che non ho commesso. Però, te lo giuro, Marianna, te lo giuro su mia madre, ch’io non la riveda se mentisco: non ho mai sparso sangue cristiano.»
Dopo un momento di silenzio Marianna riprese:
«Non credere che io non sappia la gravità di quello che ti chiedo, Simone. Lo so, Simone, e so quello che tu mi chiedi in cambio. E siamo dunque pari, sì, siamo dunque pari… Simone… sì…».
Arrossì tutta, fino alle mani, poi cominciò a tremare.
«Ebbene, ecco; non c’è che questo. Sposiamoci.»
Simone si sollevò rigido, spaventato dalla gioia. L’afferrò per le braccia e la volse tutta verso di sé. Cercò di parlare ma non poté; e si mise a ridere, piano piano, come fosse impazzito.
Marianna ebbe paura; lo guardò e ritornò padrona di sé.
«Non ridere. Non ridere così!»
«Lo so… è una cosa seria… Scusami», disse lui umilmente.
Poi pensò che altro poteva dirle per farle piacere, per compensarla. Non riusciva; gli sembrava di averle già promesso tutto, di averle già dato tutto; gli venne in mente di ferirsi al polso e di lasciar cadere il suo sangue davanti a lei, anche perché la gratitudine gli dava una sofferenza inesprimibile.
Finalmente si alzò e tirò su anche Marianna, guardandola da capo a piedi come per misurarsi con lei.
«Marianna», le diceva sul viso, «sarò bravo. Vedrai che sarò un altro.»
Poi la strinse ai fianchi con le dita aperte, per prenderla meglio tutta fra le mani, la sollevò un poco come un’anfora da cui volesse bere e la baciò sulla bocca.