XII.

Costantino seguiva la stessa strada fatta da Simone un anno prima per tornare al rifugio. Ed era intorno la stessa serenità chiara di luna, la stessa dolcezza di primavera; lui però non si sentiva alto e forte come il compagno: andava piano, piccolo come un ragazzetto, a testa china, sicuro perché aveva ancora il lasciapassare, ma egualmente guardingo per paura d’essere seguito e spiato. E portava con sé il peso del dolore di Marianna e l’umiliazione della parola di lei per Simone.
Gli sembrava di essere come un povero servetto che avesse, per incarico forzato del padrone, recato un dono oltraggioso a qualcuno, e ritornasse con la restituzione di un dono più oltraggioso ancora.
Ma a momenti il ricordo delle offese di Sebastiano lo pungeva fino all’osso. Allora si fermava, e anche lui, come il compagno, sentiva svegliarsi dentro, ben dentro, una bestia feroce che lo costringeva a volgersi indietro col desiderio di ritornare da Sebastiano per ricacciargli in gola col proprio sangue le parole stolte, gl’insulti vani.
«A me? A me parlare così? malafaccia, vigliacco! Aspetta marrano, aspetta», diceva a voce alta, minacciando le ombre dei cespugli.
Poi s’acquetava; gli pareva di sentire un mormorio lontano di preghiera; ed era il silenzio stesso della notte che lo avvolgeva e lo trasportava come un’onda, separandolo dalla sua pena. Allora camminava e camminava, come un sonnambulo, lungo i sentieruoli grigi fra l’erba argentea, sopra l’ombra dei cespugli e dei fiori; e Marianna e Simone, con la loro passione fatta più di odio che d’amore, gli sembravano lontanissimi, ai limiti opposti del mondo; e anche lo sdegno stolto di Sebastiano, e l’umiliazione sua stessa e il suo rancore – tutto gli sembrava ombra.
Ma bastava un passo lontano, una pietruzza che rotolava, un uccello che si scuoteva nel sonno, perché anche lui si scuotesse e sobbalzasse nuovamente.
Arrivò prima dell’alba. Simone non c’era; anche lui aveva lasciato la cordicella legata la piuolo e dalla cenere fumante di grasso, dalle ossa sparse, da avanzi di vivande, Costantino si accorse che altri compagni erano stati lì a banchettare od a complottare, durante la sua assenza. Sedette stanco davanti al fuoco spento, sentì un impeto d’ira a poco a poco di nuovo vinta da una grande tristezza: e cominciò a parlare fra sé con Marianna, come s’ella lo avesse seguito fin lassù e lo ascoltasse seduta al buio nella grotta.
«Lo vedi? Ti ha ingannato. E chi sa se tu: conoscendo tutta la verità, avresti pronunziato quella parola! Chi sa mai nulla? Tu credi che Simone ti lasci per amore, per debolezza, e invece ti lascia per vanità o per coraggio, forse… Chi sa mai nulla? Intanto io non ti ho detto tutto, disgraziata. Non ti ho detto che quei tre di un anno fa sono venuti ancora a cercare Simone, e lo hanno lusingato, adulato, e il più giovane, Bantine Fera, ha riso sapendo Simone innamorato, ed ha sputato in segno di disprezzo sapendo che Simone voleva sposarsi in segreto e presentarsi al giudice. Ecco perché Simone ti lascia: perché ha vergogna di amare. Io avevo un bel predicare: un bel dirgli: “Simone, bada alla tua coscienza, Simone, non rendere infelice una donna che ti ama”. Finché è stato davanti a me, soli, ha riso di me e delle mie prediche; lui è il più forte, o si crede il più forte, e si capisce che ascoltava solo il suo desiderio. Ma venuto l’altro, Bantine Fera, che è più forte di lui, si è piegato; ma per fingere anche a se stesso che è forte, ha tirato fuori la solita scusa: che non sapeva cosa si faceva, ch’era ammaliato, che tu lo avevi ammaliato, ma che ora vuol essere forte, libero, generoso. Perché Bantine Fera ha abbandonato una donna (che non valeva neppure l’unghia tagliata del dito mignolo del tuo piede, Marianna!) anche lui ti abbandona. E ti ama, Marianna! Chi non deve amarti? Scendessero i giganti dal monte si piegherebbero davanti a te. Ma egli vuole imitare Bantine Fera: ed egli esagera; per imitarlo, gli corre davanti come il cane corre davanti al cavallo!»
E Marianna era lì, quieta e pallida, col viso fra le mani e ripeteva piano le sue parole:
«Gli dirai da parte mia che è un vile».
«Glielo dirò, sì!»
Si accorse che il coraggio di parlare chiaro al compagno non gli veniva dalla sua coscienza ma dalla rabbia di non averlo trovato ad aspettarlo, di saperlo con l’altro amico che era diventato il loro padrone, il più forte di tutti. E tornò a piegarsi, tornò a soffrire per conto suo. Poi il sonno lo vinse.
Simone non era lontano. Non aveva, per la prima volta dopo che s’erano incontrati, seguito Bantine Fera nelle sue imprese. Bantine Fera era il vero bandito, tutto di un pezzo, incosciente e brutale. Andava dritto al suo scopo; quello che voleva voleva, accadesse quel che aveva da accadere. Aveva ucciso per vendicarsi di una ingiuria patita: rubava e continuava a uccidere non perché lo credesse suo diritto ma perché l’istinto lo portava così. Era il più giovane dei compagni e li guidava, li dominava.
Per sfuggirgli, poiché aspettava il ritorno di Costantino, Simone aveva finto di essere malato; ed era malato, infatti, di incertezza, di amore, di rimorso. S’era accucciato sopra le rocce, per spiare il ritorno di Costantino, e ricordava l’alba del suo ritorno dalla Serra; e cercava di non pensare a Marianna, poiché pensare a una donna per cui si deve perdere la propria libertà. Bantine Fera diceva ch’era debolezza; e anzi gli pareva di serbarle rancore, di odiarla quasi; come s’ella avesse conoscenza di un delitto commesso da lui, e pure di lontano, pure amandolo, lo dominasse e anche lei lo ritenesse debole e spregevole.
Poi il pensiero e il desiderio di lei lo riassalivano.
Ma allora la sua irritazione cresceva. Era scontento di sé: gli pareva d’essere diviso in due parti, e una seguiva Bantine Fera nelle sue imprese guerresche, nella conquista del denaro e della roba altrui, nell’ebrezza felina di sfuggire agli agguati; e l’altra continuava nei suoi pensieri d’amore e di dolore, era ai piedi di Marianna e piangeva sulle ginocchia di lei, e di questo dolore e di questa umiltà si formava la propria gioia.
E lottavano fra loro, le due parti di lui, s’ingiuriavano, soffrivano, si sollevavano e ricadevano avvinte nella lotta, stanche ma pronte a risollevarsi e a ricadere.
Così quando vide tornare Costantino non discese alla grotta: non voleva apparire debole, lui; non voleva mostrare che aveva atteso. Intanto attendeva, palpitando, con la speranza che il compagno lo cercasse; e poiché Costantino non si moveva cominciò a ingiuriarlo fra sé per la sua indifferenza. Si decise a scendere solo quando l’alba imbiancò le cime degli alberi e la luna, come l’altra volta, si sfogliò come un narciso nell’acqua della fontana.
Costantino dormiva, quieto; aveva il rosario attortigliato al polso e per svegliarlo Simone prese la crocetta e tirò: la mano inerte si sollevò e parve la prima a svegliarsi.
Simone ricordava ostinatamente l’altra volta e, suo malgrado, provava un senso di gioia in fondo al cuore aspettando che il compagno gli descrivesse il dolore di Marianna, e, chi sa, forse anche l’ammirazione di lei. Allora si mise, quale conveniva a un uomo forte pari a lui, col fucile al fianco, il busto rigido, le mani sulle ginocchia: pareva un idolo, col viso composto a una calma artificiosa, i folti capelli lucidi al riflesso argenteo che penetrava nella grotta, incoronati dal cerchio nero della berretta, gli occhi socchiusi fissi dall’alto sul compagno che si svegliava a poco a poco rabbrividendo e stiracchiandosi.
Gli veniva un nodo di rabbia alla gola, al vedere la lentezza tremula con cui Costantino si svegliava; gli pareva che lo facesse apposta per divertirsi, ma più quello indugiava, più lui si ostinava a parer calmo.
D’un colpo Costantino spalancò gli occhi e si mise a sedere: d’un colpo, quasi volesse fargli spavento. Egli tentò di sorridere: ma dall’espressione grave del compagno si accorse che non bisognava scherzare. Un’ombra di ansia e di sdegno gli passò sul viso; strinse i denti e non poté frenarsi oltre.
«Ebbene, ti han dato l’acqua del sonno? Parla, maccabeo.»
Costantino lo guardava, come lo vedesse la prima volta: e infatti Simone gli sembrava diverso, gli sembrava diventato piccolo. Non gli incuteva più né paura né rispetto. Era quale Marianna lo aveva denudato con una sola parola.
«Dov’eri?», domandò severo.
«E che t’importa? Adesso sono qui. E dunque parla. L’hai veduta?»
«Veduta l’ho.»
«Dove? a casa sua?»
«A casa sua, nella Serra!»
«Ah, nella Serra!», disse Simone.
Il brivido di luce e di gorgheggi che tremolava fuori gli penetrò nel cuore; la sua rigidezza continuò a scomporsi. Tolse le mani dalle ginocchia, si tirò in giù sulla fronte la berretta, abbassò il capo.
«Perché nella Serra?», domandò sottovoce come a se stesso.
«Perché è stata malata ed è andata in campagna per riaversi.»
«Ah, è stata malata!», disse allora pensieroso; ma tosto parve vergognarsi del suo turbamento. «Be’!», esclamò rimettendo le mani sulle ginocchia; «le donne hanno sempre qualche cosa, oppure fingono di averla.»
«Simone! Marianna non è come le altre e non ha bisogno di fingere.»
«Ah, uomo! pare che te ne sii innamorato, Costantino Moro!»
«Marianna non è donna per me.»
«Come lo dici! Hai paura che io diventi geloso?»
«Non puoi diventare geloso perché Marianna non è donna per te.»
Simone abbassò e sollevò rapido la testa, con un gesto che voleva essere di minaccia ed era, invece, di sorpresa e di offesa.
«Così Dio mi assista, tu vuoi farmi arrabbiare, quest’alba, Costantino Moro. Bene, finiamola che io ho altre cose più serie in mente. Non è più tempo di canzoni. Racconta come è andata la cosa.»
«C’è poco da raccontare. Sono dunque andato a cercarla alla Serra: l’ho trovata, seduta quieta sotto la quercia della spianata. Dapprima s’è rallegrata tutta, nel vedermi; poi ha capito, ed è ridiventata quieta… quieta come una morta.»
«E che disse, infine? È questo che voglio sapere.»
Costantino esitava; aveva il presentimento di quello che sarebbe accaduto e gli pareva d’essere come davanti a un mucchio di stoppie con l’acciarino in mano: bastava una scintilla per destare l’incendio. E nello stesso tempo pensava che era necessario dire la verità: era necessario e giusto: e spesso l’incendio è buono.
Simone, d’altronde, si esasperava sempre più; sentiva che il compagno gli nascondeva la verità e volle ricomparirgli davanti da padrone.
«Ebbene, parla, pezzente: sono qui che aspetto!»
«Che furia! Potevi scendere appena mi hai veduto tornare. Eri lassù.»
«Sì, ero lassù. Ebbene, che t’importa? Non devo render conto a te dei fatti miei.»
«A Bantine Fera però, sì!»
«A Bantine Fera però, sì: è un uomo, Bantine Fera, non è un pezzente come te.»
«E allora, ascoltami. Invia Bantine Fera da Marianna Sirca, e fatti portare da lui la risposta!»
«Ah, tu mi esasperi, basta!», gridò Simone, afferrando un tizzone come per sbatterglielo contro. «Se sei geloso di Bantine Fera, ebbene, ne parleremo dopo: è un altro conto. Adesso…»
«No, non è un altro conto», disse Costantino, pure colpito al vivo. «Bantine Fera e Marianna Sirca sono le braccia della tua croce, Simone, e fanno lo stesso conto. È lui che ti fa da demonio per distoglierti da lei…»
«Ma se sei stato tu, il primo, a consigliarmi di non andarle dietro, di non perdermi per lei?»
«E perché non mi hai dato ascolto, allora? No, diavolo: di me che avevo buone intenzioni, ti ridevi; e sei tornato da lei, e le hai promesso di fare quello che voleva lei, e di sposarla, e le hai fatto rivelare il suo segreto a tutti, e l’hai esposta alle persecuzioni, alle beffe, al vituperio di tutti; le hai fatto rompere ogni strada intorno, per rimanere sola con te, e quando era sola con te l’hai abbandonata, senza dirle niente, solo perché un prepotente malfattore ti ha detto che è vergogna amare una donna e rimanere con lei; sì, sì, l’hai abbandonata senza dirle niente, perché è da molto che tu l’hai abbandonata, col pensiero, e lei credeva d’essere ancora con te e invece era sola e tu correvi a fare il male col tuo compagno… e neppure hai avuto il coraggio di andare a dirle la verità; sì; e hai mandato me, come si manda il servo, come si manda il messaggero che non sconta pena. E adesso ti dirò…»
Gli riferì parola per parola l’ambasciata di Sebastiano, ma esitava a ripetergli quella di Marianna.
Simone ascoltava, col tizzone in mano, sbalordito. Gli occhi gli rifulgevano d’odio: odio per tutti, per Sebastiano che gli era sempre stato indifferente, per Marianna che s’era fatta amare, per Bantine Fera che lo aveva distolto da lei, per Costantino che gli diceva la verità: un furore sordo cominciò a farlo ansare: la bestia feroce, dentro, si agitava.
«Taci, lepre morta! Non ti vergogni a non avergli lavato il muso col suo sangue? Non parlare oltre: tu non sai quello che sei!»
«Sei tu che non sai quello che fai e quello che sei», insisté Costantino, fermo, immobile come rassegnato ad aspettare l’assalto. «Sei un miserabile! Mi fai pietà.»
Simone balzò, col tizzone in mano come una clava ardente.
«O tu stai zitto o ti sigillo la bocca con questo.»
«Toccami! Toccami e allora ti ripeterò anche la parola che Marianna mi ha incaricato di riferirti.»
Simone allora balzò e lo percosse di dietro alla testa col tizzone. Le scintille, nell’urto, parvero sprizzare dai capelli di Costantino; eppure egli non fece che reclinare appena la testa, col moto che gli era abituale, portandosi istintivamente le mani al berretto che odorava di bruciato: e disse, senza gridare, senza alzarsi, senza neppure sollevare gli occhi che gli si erano riempiti di lagrime:
«Vile!».
Simone diede un grido e si lanciò fuori della grotta col tizzone in mano come an-dasse a incendiare il mondo.