XV.

Il prete era giovine, forte: nero in viso, con le labbra grosse e i denti bianchi, avvolto nel suo mantello lucido e con una piccola papalina invece del tricorno, pareva un prete abissino.
Aveva anche lui due fratelli latitanti, e non poteva negare la sua assistenza a un moribondo.
Marianna lo salutò con un cenno del capo e lo condusse alla stanzetta. La madre aveva acceso il lumino d’ottone sospeso ad un chiodo nella parete sopra il lettuccio; l’ombra rotonda tremula copriva come d’un sudario il viso del ferito e il cerchio di chiarore sfumava nell’ultima luce del crepuscolo in alto sotto il soffitto di canne.
Simone era assopito e sembrava, sotto quel velo d’ombra, già composto nel sonno della morte.
Il prete si avanzò in punta di piedi, fermandosi a guardarlo silenzioso, a fianco della madre che s’era alzata e guardava anche lei con infinita pietà, paurosa che Simone si destasse dal breve riposo, paurosa ch’egli non si destasse più.
Poi ella si scostò e il prete sedette accanto al letto pregando.
Le donne stettero fuori, aspettando: e Marianna sempre più stanca, assonnata, pensava a Gesù nell’Orto degli Ulivi, e aveva paura di addormentarsi. Le pareva che anche sul suo viso si stendesse un velo d’ombra, eppure intravedeva una luce lontana.
«Che farò, adesso?», pensava.
Non avrebbe più amato, non avrebbe più atteso. Ma non era un senso di disperazione, il suo, era anzi un senso di speranza e di riposo: Simone sfuggiva oramai a tutti i pericoli.
Ella non avrebbe più sentito il passo di lui sulla terra; ma era lui, adesso, che doveva sentire il passo di lei sulla terra, ed aspettarla al limite dove comincia la libertà vera.
Nella cucina, intanto, il servo e il padrone preparavano da cenare: anche nelle case ove passa la morte, i vivi devono nutrirsi, e poi il prete era giovane, aveva viaggiato e bisognava onorarlo come un ospite straordinario che era. Dunque zio Berte stava chino a soffiare sul fuoco tirandosi ogni tanto in su la berretta sui radi capelli, e il servo, come quella prima sera che Simone era stato alla casa colonica, preparava l’arrosto, con le mani insanguinate. Il suo viso rimaneva fermo, impassibile. E anche quello del padrone si andava a poco a poco rischiarando: dopo tutto, Dio vede quello che fa, e le sue vie sono imperscrutabili; e l’uomo che ha inventato il proverbio «non tutto il male viene per nuocere» era uno che, certo, come tutti quelli che hanno inventato proverbi, aveva molta esperienza della vita.
Con un dito fece segno al servo di avvicinarsi, e accennando col capo alla finestra, verso il bosco, disse sottovoce:
«Quell’idiota è ancora là, presso la fontana: portagli almeno da bere».
«Bisogna pensare piuttosto alle donne», brontolò il servo, «hanno digiunato, oggi, come il venerdì santo.»
«Penseremo a tutto; pazienza uomo!»
Si alzò, appoggiandosi le mani sulle ginocchia, respirando forte. Provava, da quando il prete era là dentro, un senso di sollievo; gli pareva che tutte le cose andassero bene e piano piano tutto ritornasse a posto, più in ordine di prima.
Mandò dunque il servo in cerca di Sebastiano, poi preparò la mensa: ecco il vaso del latte cagliato, ecco il favo del miele entro un vassoio di sughero. Ripassando in casa di sua figlia aveva avuto cura di farsi dare del pane bianco da Fidela; ed ecco il cacio fresco pallido e umido come la cera, ed ecco anche il vino. Tutto c’era: poteva essere un banchetto da sposi. Il gattino lo seguiva passo passo, sfregandosi contro la ghetta d’orbace la cui lieve asprezza gli riempiva di voluttà i grandi occhi verdi: d’un tratto però stridette e balzò lontano. Il padrone gli aveva pestato una zampetta. A quello strido Marianna, di fuori, trasalì ancora svegliandosi. La luna spuntava sopra il bosco, tutto il cielo era azzurro come di giorno, e tutte le cose apparivano chiare nella radura. Un uomo s’avanzava, dritto fra l’erba del prato; ed ella lo riconobbe subito.
«È Costantino, il suo compagno», disse piano alla madre di Simone. «Certo, sapeva che lui veniva qui e non vedendolo ritornare s’è mosso a cercarlo.»
Costantino si fermò davanti a loro e Marianna si alzò per riceverlo; si guardarono, come l’altra volta, al chiaro di luna, e s’intesero.
«È lì dentro», disse lei accennando col viso pallido verso la stanzetta: «è ferito a morte ed ha perduto la conoscenza. C’è il prete».
Anche Costantino parve sollevato nel sapere che c’era il prete: mise la mano sulla testa della madre di Simone e la sentì ardere sotto le sue dita. E a quel contatto il dolore della donna parve finalmente sciogliersi: singhiozzando prese la mano di Costantino e la bagnò con le sue lagrime.

Poi si riunirono tutti nella cucina.
Zio Berte e il servo avevano portato quasi di peso la madre di Simone; e Marianna, facendo forza a se stessa, le offriva il cibo.
Il prete sedeva in mezzo a loro; era il solo che di tanto in tanto si permettesse di dire qualche parola, ma tosto la sua voce si sperdeva nel silenzio degli altri. C’era del resto qualche cosa di religioso in quella cena, in quel cerchio di persone piegate ciascuna sul proprio affanno, ma legate da un pensiero comune: tacere. E tacevano, e pareva facessero la comunione prima di prepararsi ad assistere al mistero della morte di un uomo.
Avevano poi quasi tutti, in fondo, la paura che qualcuno della giustizia arrivasse da Nuoro e turbasse il mistero: ad ogni rumore sollevavano la testa ascoltando.
Ogni tanto Marianna si alzava per andare a guardare Simone sempre assopito; finalmente vide gli occhi di lui riaprirsi e guardarla con un raggio di luce che tosto si spense.
«Simone? Simone?»
Egli fece uno sforzo per sollevarsi; ricadde, col viso pieno di disgusto; aveva l’impressione d’essere conficcato al letto da una lancia che gli trapassava il fianco; e gli sembrava che il suo corpo girasse intorno a se stesso con la lancia per pernio. Afferrò la mano di Marianna per sostenersi, per fermarsi, ma anche lei cominciò a girare con lui.
«Simone? Simone? C’è il prete: lo vuoi?»
Egli tornò a guardarla, con le pupille grandi, naufragate nel terrore. Un prete? Non capiva.
«Lo vuoi? È prete Fenu, il fratello di Giacomo e Giovanni Fenu.»
Egli accennò di sì, ma volse un po’ annoiato la guancia sul cuscino: ed ella vide come una rosa apparire sulla tela, sotto l’angolo della bocca di lui; era sangue. Si sollevò spaurita. Egli però non le lasciava la mano; pareva volesse portarsela via, nel suo cammino. Ricominciò a vaneggiare.
«Il prete… l’anello… l’arcobaleno. Madre, datemi la bisaccia…»
Marianna volse la fronte verso il muro e sentì le sue viscere tremare, ma le pareva che Simone le stringesse la mano per ricordarle la promessa.
«Una donna che ama un uomo come me non deve piangere.»
Il prete riprese il posto accanto al lettuccio e reclinò il viso di Cristo barbaro sul viso del bandito: pensava ai suoi fratelli, Giacomo e Giovanni, smarriti fra i boschi e le pietraie, cacciatori e selvaggina al tempo stesso; e dal profondo del cuore assolveva Simone come un ragazzino alla sua prima confessione.
E Simone, fra i sogni della febbre, si sforzava di ricordare, di raccogliere i suoi peccati; essi però gli sfuggivano intorno come si fossero già staccati da lui e gli passassero e ripassassero davanti irridendolo: allora mormorava parole rotte; poi taceva e pareva addormentarsi; ma nel sentire il prete pronunziare le parole per l’assoluzione, fece un grande sforzo per destarsi, annaspò le lenzuola, parve volersi appoggiare forte al lettuccio e si sollevò a metà, con la bocca di nuovo piena di sangue e di disgusto.
Il prete gli mise una mano sul petto, lo costrinse dolcemente a rimettersi giù, gli asciugò il sangue dalle labbra.
«Pride Fenu… Pride Fenu…», egli mormorò ansando, «c’è altro…»
Il prete volse la testa per ascoltarlo.
«Ho rubato… in chiesa… Ho rubato un anello col diamante… a Nostra Signora del Miracolo… È lì… nella cartucciera.»
Il prete corrugò la fronte, meravigliato e quasi offeso: i banditi non rubano mai nelle chiese.
«Perché hai fatto questo, Simone?»
«Volevo darlo ad una donna, in pegno di fede.»
«Ebbene, tu mi consegnerai l’anello e lo riporterò io a Nostra Signora del Miracolo.»
«No; lo vorrei consegnare… consegnare a Marianna… perché lo riporti lei.»
«Va bene: lo consegneremo a Marianna perché lo riporti lei. Altro, Simone?»
«Nulla.»
Allora il prete si fece il segno della croce e finì di pronunziare l’assoluzione.

Poi le donne furono ammesse nella stanzetta: Marianna si avanzò rapida per riprendere il posto accanto a Simone, ma subito ricordò che c’era la madre e si scostò. D’altronde bisognava preparare per la comunione al ferito: trasse fuori una tovaglia e la distese, doppia, sul tavolo, poi andò a prendere il lume della cucina per fare un po’ più di luce; quando rientrò vide che la madre aveva portato un piccolo cero e lo teneva acceso fra le dita come uno stelo pallido dal cui fiore d’oro cadevano dei semi di perla.
Anche gli uomini entrarono e s’inginocchiarono in fondo alla stanzetta, a testa nuda, con la berretta in mano. La porta rimase aperta e la luna vi stese davanti un drappo d’argento. Di fuori l’usignuolo cantava.
Dopo aver aiutato il prete a sollevare Simone, Marianna s’inginocchiò nello stretto spazio fra il lettuccio e la parete, con la mano ferma dietro il guanciale e la fronte sulla coltre. Sentiva le parole del prete chino sulla bocca del moribondo con la particola fra le dita, e le sembrava di rivedere la luna sopra i monti e l’albero che scintillava come una sfera. Poi tutto fu silenzio. Una mano le si posò sulla testa; Simone la chiamò una terza volta.
«Marianna!»
Si alzò e vide che il prete, ancora con la stola, fissava su lei i vividi occhi scuri.
«Marianna», le disse, «Simone vuole consegnarti un anello che deve essere portato da te a Nostra Signora del Miracoli. Cercalo: è nella cartucciera.»
Ella attraversò la stanzetta e sollevò la pesante cartucciera dalla panca ove l’aveva deposta col cappotto e la cintura di lui; l’aprì, e nella borsetta interna trovò l’anello. Il cerchio era annerito, ma il diamante brillò nell’ombra e tutti, nella stanzetta, lo videro.
Marianna lo portò sulla palma della mano e l’offrì al prete; e questi lo prese fra due dita e lo fece vedere a Simone.
«È questo?»
«È questo.»
Gli occhi di Marianna scintillarono come il diamante: il suo cuore intendeva tutto.
«Simone», disse, tendendogli la mano, «mettimi tu l’anello nel dito.»
Allora la mano di lui, ch’era diventata scarna e pallida, già bruciata e lavata dalla morte, si sollevò verso quella del prete: le dita tremanti ripresero l’anello e lo infilarono nel dito di Marianna.
Queste furono le loro nozze.

In settembre ella andò alla festa di Nostra Signora del Miracolo, per riportare l’anello. Erano ospiti, lei e suo padre, di una ricca famiglia di proprietari di Bitti: e il figlio maggiore, ch’era ancora scapolo mentre tutti i suoi fratelli avevano già moglie e figli, stette, tutto il tempo che durò il pranzo della festa e poi mentre gli uomini cantavano e le donne ascoltavano, a guardare Marianna. Vedendola pallida, chiusa in sé, indifferente a tutto, s’informò s’era malaticcia; gli dissero di no, che era così di sua natura, e che era religiosa, tanto che aveva offerto a Nostra Signora tutti i gioielli che possedeva: allora egli pensò di chiederla in moglie.
Lo fece molto tempo dopo, perché bisogna pensarci bene, prima di muovere certi passi: e anche Marianna chiese del tempo per decidersi. Finalmente egli andò a trovarla, per la festa del Redentore; fu suo ospite e lei lo accolse quieta e seria; ma quando si trattò di dargli la risposta decisiva lo guardò negli occhi ed ebbe un tremito che parve scuoterla dalla sua morte interiore. E disse di sì, perché gli occhi del pretendente rassomigliavano a quelli di Simone.