XI.

Cenarono nella cucina illuminata da un gran fuoco. Fuori tutto era quieto sotto la luna il cui chiarore s’avanzava sulla soglia tentando di fondere la sua tenerezza placida con l’ardore di quell’interno pieno di passione.
Marianna offriva il pane e il vino e spargeva il sale come la sera della prima visita di Simone: era calma, quasi rigida. Suo padre aveva offerto ospitalità a Costantino, e non toccava a lei rompere le leggi dell’ospitalità.
S’accorgeva dell’incertezza dell’ospite e dell’equivoco in cui stava suo padre, ma aspettava che il primo se ne andasse per chiarire ogni cosa: taceva anche perché il servo, rientrato, osservava curioso senza dimostrarlo: e fu il primo lui a sollevare la testa nel sentire un passo lontano di cavallo.
«Dev’essere Sebastiano.»
E Marianna spalancò gli occhi ma tosto si ricompose.
Da tanto tempo non rivedeva Sebastiano: ecco che egli ricompariva nel momento in cui pareva che la sorte avesse deciso tutto. Il rumore del passo del suo cavallo risuonava come quello delle prime gocce di pioggia d’un uragano.
In breve fu davanti alla porta; e la sua ombra e quella del suo cavallo oscurarono la soglia cancellando il mite chiarore della luna. L’abbaiare dei cani rompeva la quiete della notte.
Marianna non si mosse; ma s’era drizzata ostile, e i suoi occhi, incontrandosi con quelli di Costantino che interrogavano, brillarono di una luce così metallica che il bandito ebbe l’impressione di veder scintillare un’arma.
Sebastiano entrò e all’invito sedette davanti al desco; era pallido più del solito come se il chiarore della luna gli avesse tinto il viso.
Non volle mangiare, ma lasciò che gli altri finissero il pasto; e non accettò neppure il vino.
«Ti senti male?», domandò zio Berte.
«Mi sento male, sì», rispose fissando uno dopo l’altro gli astanti, per assicurarsi che tutti intendevano qual era il suo male; ma solo Marianna rispose al suo sguardo, con uno sguardo dritto, lucente.
Egli le fece cenno di sì. Sì, era venuto per combattere. Se lei era mutata, se s’era spogliata della sua veste morbida di donna mite e saggia e come presa da pazzia si armava e voleva fare del male, anche lui era mutato, anche lui era armato; e il suo malessere raddoppiava, come la febbre convulsa, la sua forza. Fossero stati soli! Si sentiva capace di afferrarla per la vita e spezzarla sul suo ginocchio come una canna.
Il modo tranquillo con cui gli uomini cenavano parlando di cose indifferenti, di pascoli e di bestiame, cominciò ad esasperarlo. Non aveva neppure domandato chi era l’ospite, e lo guardava con indifferenza non priva di disprezzo, come fosse un servo di qualche pastore vicino. Marianna sparecchiò portando via il canestro del pane e il tagliere. Allora egli si batté forte la mano sul ginocchio, per richiamare se stesso allo scopo della sua visita: e scosse più volte la testa china sul petto, meravigliato di quello che succedeva. Poi disse al servo:
«Va a guardare se il mio cavallo mangia», e il servo capì che doveva allontanarsi, sebbene abituato a prender parte a tutti gli affari dei suoi padroni.
Anche Marianna s’avviò per andarsene; egli si volse tutto d’un pezzo a lei, corrugando la fronte.
«Marianna! Ti dico di stare qui perché dobbiamo parlare.»
Ella si fermò ma non sedette. Costantino con un gomito sul ginocchio e il viso sulla mano pareva raccolto in sé, estraneo come l’ospite che pensa alle cose sue; zio Berte sentiva però l’odore della burrasca e il cuore gli batteva come quello d’una donna, non sapeva se di gioia per la speranza che la sorte di sua figlia mutasse, o di paura per le cose tristi che in fondo sentiva inevitabili.
Non si fidava molto di Marianna, e tanto meno si fidava della quiete, della bontà di Costantino; eccolo lì calmo come un vecchietto sazio mezzo addormentato; toccalo e balzerà su terribile come la fiera svegliata nel suo covo.
«Marianna», disse, tentando di scongiurare la burrasca, «e versa dunque da bere a tuo cugino.»
«Non ne vuole! Lasciatelo dunque!»
«Siediti, allora. Beviamo noi, Costantino Moro; su, hai tempo di dormire. Prendi, bevi, uomo!»
Costantino si sollevò, spalancando un po’ gli occhi.
«Sì, perdio, mi stavo davvero addormentando… Sono stanco, Dio m’aiuti!»
Allora Sebastiano diventò aggressivo.
«Ah, sì, hai camminato, oggi; il mestiere del paraninfo è faticoso più di quello del bandito.»
Costantino depose il bicchiere pieno per terra, sulla pietra del focolare; e il vino, alla superficie brillò come un occhio sanguigno.
«Che cosa vuoi dire?»
«Tu sai bene quello che voglio dire.»
«Io non so nulla… Io non ti conosco. Chi sei tu?»
S’era sollevato, ingrandito: dentro sentiva voglia di ridere, pensando che Sebastiano arrivava un po’ tardi alla battaglia e combatteva contro i morti; ma non esitò un attimo a difendere la dignità di Simone e a non lasciarlo né a lasciarsi offendere.
Dall’alto Marianna lo guardava con diffidenza ma anche con ammirazione, quasi animandolo alla difesa, mentre il padre, vuotato con un sorso tremulo il vino, le porgeva dietro le spalle il bicchiere ch’ella non prendeva.
Allora anche zio Berte finì col deporre il bicchiere per terra, ma discosto; poi allontanò quello di Costantino come sgombrando il terreno per il combattimento. La mano gli tremava un poco: tentò di dire con rimprovero: «Sebastiano, Sebastiano!», ma la sua voce si perdette in quell’impeto di bufera.
«Chi sono io?», gridava Sebastiano, incrociando le braccia sul petto. «Sono un uomo.»
E l’altro sghignazzò.
«Lo vedo, perdio, che sei un uomo!»
«Lascia lo scherno! Non ti conviene, a te che dicono vai ogni giorno a pregare nelle chiese in mezzo ai monti. Ascolta piuttosto. Perché sei qui?»
«Che t’importa dei fatti miei? E tu perché sei qui?»
«Sono qui perché c’è una donna da difendere».
«E chi l’offende questa donna!»
«Tu l’offendi! Tu! Che cosa sei andato a cercare in casa sua questa mattina a Nuoro, e che sei venuto a fare qui adesso? Perché non viene lui, il tuo compagno, invece di mandare te per suo messo? Ah, ha paura adesso, il valente uomo, ha paura… Non è più sola, la donna, perché egli possa avvicinarsi.»
Costantino fece un movimento per alzarsi, ma vide Marianna pallida davanti a lui, con le labbra che le tremavano convulse, e tornò a sedersi, d’un tratto calmo, ironico.
«E tu, che sei così bravo, perché non vai a dirle a lui, queste cose, invece di contarle a me?»
«Ma non sei tu il suo messo? Sì, le dico a te; ma non dubitare, anche a lui le dirò. Non mancherà occasione. Ed ecco quanto ancora tu devi dirgli: che si ricordi di quello che era, e non creda di aver mutato condizione. Marianna Sirca non fa per lui. Lui è sempre il suo servo: e se lei ha perduto la ragione c’è, perdio, chi la ragione la conserva ancora…».
Allora Marianna si piegò in avanti quasi stesse per cadere, coi pugni stretti, le ginocchia tremanti.
«Padre», gridò, «ma ditegli dunque che stia zitto, che se ne vada!»
Zio Berte agitava le mani per calmarli tutti.
«Andiamo, andiamo, finitela! Sono questioni di famiglia, che aggiusteremo fra noi.»
«Voi!», gli si volse con disprezzo Sebastiano. «Non è certo da voi che vostra figlia possa sperare di veder aggiustate le sue cose. E tu, cugina, mandami pure via, se credi, chiama il tuo servo e aizzami il cane contro; ma io ti difenderò egualmente, contro te stessa, come si difende una pazza. E adesso ascoltami anche tu! Ascoltatemi tutti. Il gridare è inutile. Ma io mando a dire a Simone Sole che non si avvicini mai più in vita sua a te, Marianna Sirca: altrimenti, per il segno di questa santa croce, lo ammazzo come un cinghiale, come una volpe, che va dentro l’ovile.»
Si tolse la berretta e fece un gran segno di croce sul fuoco, dividendo con la mano la fiamma. Marianna s’era di nuovo fieramente drizzata.
«E io ti dico, Sebastiano Sirca, che le tue parole sono come il vento che passa.»
«E va bene! Ma bada a te, donna: e a te mi rivolgo, Costantino Moro, a te che dicono credi in Dio. Cerca tu di rimediare; se no, forse risponderai tu davanti al Signore di quello che accadrà.»
Costantino continuava a guardarlo ironico.
«Davanti al Signore risponderò delle mie colpe, non delle tue! Né Simone Sole può avere paura di uno come te. Perché vuoi essere tu il padrone della sorte?»
«Questa è la tua risposta?»
«Per adesso, sì. Poi ti darò la risposta alle parole che hai rivolto a me. Adesso sono in casa altrui. Anzi, facciamo una cosa: andiamocene, passiamo in terreno che non sia di Marianna Sirca, e saprò subito rispondere meglio alle tue domande.»
Marianna disse: «Nessuno, né in casa mia né fuori, ha diritto di discutere dei fatti miei: sono io la padrona, ripeto; e neppure mio padre che è qui presente può comandarmi».
Zio Berte fece cenno di sì, poi diventò grave e triste.
Sebastiano s’era alzato, accettando l’invito di Costantino; si guardavano attraverso il focolare come due nemici mortali, loro che non s’erano mai prima incontrati e nulla avevano da dividere: d’un tratto però Costantino reclinò la testa e parve ascoltare, nel silenzio tragico che s’era fatto intorno, il sussurro della fiamma ai suoi piedi.
«No, io non ho più nulla da dirti, per adesso. Se Dio vuole ci incontreremo ancora», disse con calma.
Sebastiano non insisté: andò a riprendere il suo cavallo, vi montò su e ripassò davanti alla cucina; e di nuovo la sua ombra oscurò la chiarità della luna. Poi il passo del suo cavallo risonò a lungo, nella serenità della notte.
Marianna s’era rimessa a sedere; suo malgrado, lagrime di angoscia e di paura le cadevano dagli occhi. Costantino rattizzò il fuoco e nel protendersi il rosario – un piccolo rosario rosso che pareva fatto di bacche di agrifoglio – gli cadde dalla cintura battendo sulla pietra del focolare.
Il piccolo rumore parve svegliarli tutti; zio Berte giunse le mani fra le ginocchia, e mentre Costantino raccoglieva il rosario, mormorò:
«È questo, che noi ci dimentichiamo di Dio e che dobbiamo morire. Marianna, figlia mia, ascoltami: mi pare d’essere davanti alla morte e di parlarti libero delle cose terrene: ascolta, Marianna, non rovinare due cristiani. Perché, vedi, Simone può ancora salvarsi, e Sebastiano anche, se tu lo vuoi. Tu invece vuoi la loro rovina. Marianna, dobbiamo morire; la vita è breve come il sentiero fra questa casa e quell’albero lì, mentre la vita eterna è tutto».
«Io non posso farci nulla», disse Marianna; «lo so, sicuro; la vita è breve, sì, ma appunto perché la sua strada è piccola bisogna farla d’un tratto, senza voltarsi. Per il dopo, Dio solo è giudice.»
Allora il padre si volse a Costantino.
«Che ne dici, tu? Tu credi in Dio.»
«Anch’io credo che lui solo è giudice: è quello che ho sempre pensato anch’io. Marianna, perché tu non dici a tuo padre la verità?»
Allora lei si alzò e disse con voce ferma:
«Padre, tutto è finito fra me e Simone».
E andò nella sua cameretta, si chiuse dentro, s’accostò al finestrino. La luna splendeva nel mezzo del cielo d’un azzurro puro come quello delle albe estive e ogni filo d’erba esalava il suo odore più dolce; eppure di tratto in tratto il grido dell’assiuolo pareva il gemito del cuore della terra che fra tanta quiete si doleva d’una pena segreta inguaribile. E Marianna pensava che dunque anche lei doveva chiudere così la sua pena, fra le apparenze di gioia e di buona sorte che la vita le dava: vivere e morire così, senza sollevare un lembo di velo dal volto misterioso della felicità.
E le pareva di essere forte, sostenuta dal calcagno alla nuca da una verga di orgoglio; ma di tanto in tanto le balenava davanti, coi raggi della luna tra le foglie, il ricordo degli occhi di Simone, e dentro le risuonava l’eco delle vane promesse di lui. Allora tutte le sue viscere si sollevavano, il dolore si sbatteva contro l’orgoglio, come il mare in tempesta contro un fragile palo. E le lagrime di lei cadevano sul davanzale del finestrino e di là rimbalzavano sull’erba del prato confondendosi con le lagrime di rugiada che la notte piangeva sul grembo della terra.