XIII.

Verso mezzogiorno il tempo s’era fatto grigio, quasi freddo. Marianna stava accanto al fuoco, come nella sua casa di Nuoro nei lunghi giorni d’inverno e d’attesa, e di nuovo le sembrava che tutto, la visita di Costantino, l’ambasciata di Simone, le grottesche minacce di Sebastiano, tutto fosse stato un sogno.
Solo, quando si scuoteva e sollevando gli occhi a guardare attraverso il finestrino vedeva le cime degli alberi agitate dal vento, le pareva fosse stata la visita di Costantino a rompere la quiete della primavera e a lasciare nella tanca e via per lo spazio quell’agitazione di angoscia.
Meglio così, però, meglio vivere nel dolore sicuro che nell’umiliazione dell’incertezza e dell’attesa vana.
Aveva deciso di ritornare quel giorno stesso a Nuoro; ma poco dopo mezzogiorno, mentre il cavallo già sellato aspettava pazientemente sotto la quercia della spianata, il tempo si fece ancora più minaccioso. Cominciò a piovere. Il vento si sbatteva contro il bosco con un rombo continuo.
Il padre, dopo aver messo al riparo il cavallo, rientrò e la guardò furtivo. Era quieta la sua Marianna coraggiosa, ed egli capiva che ormai il dramma era finito, il pericolo scongiurato; eppure, non sapeva perché, non era contento. L’ammirava più che mai, la sua figliuola silenziosa, ma non era contento. Avrebbe voluto vederla piangere. Si mise accanto al finestrino, in piedi, e per un poco osservò fuori il mal tempo, a mani giunte, triste di non poter far nulla contro l’uragano; poi cominciò a ricucire una borsa di pelle per il tabacco, poi raschiò un’unghia di vitella della quale voleva fare un cucchiaio per il latte cagliato. Ogni tanto sollevava il viso per guardare fuori; tutto l’orizzonte ormai formava una nuvola sola, ondeggiante; il vento spingeva e respingeva l’erba del prato coperta d’acqua: pareva che anche la terra oscillasse.
Marianna finalmente si scosse: le era parso di sentire, tra il fragore dell’uragano, un passo che il suo cuore si ostinava ad accompagnare col suo palpito. E s’era fatta rossa, dapprima per il turbamento, poi per la vergogna del suo turbamento. Avrebbe voluto prendersi il cuore entro il pugno e schiacciarlo e spremerne come da un grappolo il sangue più vivo: eppure continuava a sentire il passo, e si sollevò sulla punta dei piedi per veder meglio fuori.
Il padre s’accorse subito dell’inquietudine di lei. «Non preoccuparti per questo tempo», disse timidamente. «Non dura. E non pensare a partire così; dà retta a chi ti vuol bene.»
Marianna non lo ascoltava neppure: sentiva sempre il passo, e le pareva che qualcuno le camminasse sopra la testa percotendola col calcagno insistente. Il padre finì col cederle il posto presso il finestrino. Rientrò anche il gran servo, dopo aver messo il bestiame al riparo, e sedette anche lui accanto al fuoco. Sgocciolava acqua anche dalle dita, e in breve intorno a lui fu tutto un cerchio umido e il fumo delle vesti che s’asciugavano lo avvolse tutto. Per qualche tempo non si udì che lo scroscio del vento e della pioggia; nessuno parlava, ma di tanto in tanto, come presi da un senso di attesa, i due uomini si guardavano e poi guardavano Marianna.
Marianna restava immobile presso il finestrino. Il piccolo gatto dell’ovile era balzato sul davanzale fissando al di fuori i grandi occhi verdi ansiosi: pareva vedesse qualche cosa di là del prato, di là del bosco; a volte volgeva la testa e fissava Marianna; poi si rimetteva ad aspettare come lei: d’un tratto saltò giù e sparve. I cani abbaiavano: la pioggia cessò, le nuvole s’aprirono; e nello spazio verde del cielo sopra il bosco apparve la luna.
Allora Marianna vide Simone uscire dal bosco e avanzarsi rapido per la spianata come nuotando fra le erbe ancora agitate dal vento. Gli occhi gli rifulgevano nel viso pallido, e la bocca del fucile scintillava pur essa come un occhio che vigilasse sopra il padrone spiando i nemici che lo inseguivano.
Marianna s’accostò al focolare e disse ai due uomini:
«Non vi muovete!», poi uscì, chiudendoli dentro.

Chiuse dal di fuori anche la porta della sua cameretta e vi si mise davanti come per impedire a Simone di entrare nella casa. No, egli non doveva rientrarvi mai più. E la casa pareva piangesse su lei, con le gocce che ancora piovevano dal tetto; e tutto piangeva ancora, intorno, sebbene la furia dell’uragano si fosse placata e il cielo s’aprisse come un grande occhio lagrimoso.
Simone andò dritto verso di lei: era tutto grondante d’acqua, col viso scomposto dalla stanchezza e dall’ansito della corsa; ma gli occhi brillavano quasi feroci. Marianna ne provò pietà e paura.
Si guardarono, come l’altra volta, in fondo all’anima: e sentivano d’essere un’altra volta pari, pari nell’orgoglio e nel dolore come lo erano stati nella servitù e nell’amore.
«Marianna», egli disse, fermo davanti a lei, così vicino che le bagnava le vesti con le sue vesti bagnate, «tu hai detto per me una parola che devi ritirare.»
Marianna lo guardava senza rispondere, stringendosi alla porta, decisa a non aprire anche se l’uomo avesse tentato di farle del male.
«Rispondi, Marianna; perché non rispondi? Vedi che sono qui e che non sono un vile.»
Ella sorrise lievemente, un poco beffarda, guardando lontano e intorno come per scrutare quali pericoli egli aveva attraversato: allora egli le afferrò i polsi, la tenne inchiodata alla porta, parlandole sul viso:
«Rispondi! Perché hai detto che sono un vile? Ti ho fatto del male, io? Potevo fartene, quella sera, qui e poi in casa tua, e poi sempre, in qualunque posto, e anche adesso potrei fartene, e non lo faccio, lo vedi che non lo faccio. Lo vedi? Rispondi».
Ella lo guardava di nuovo, con gli occhi socchiusi, la bocca stretta, il viso pallido ma fermo.
«Tu non mi vuoi rispondere! Altre volte però mi hai risposto. Vile, a me? Che ti ho chiesto, io, perché sia un vile? Ti ho chiesto i tuoi denari, forse? La tua roba, ti ho chiesto? O ti ho chiesto la tua persona? Ti ho chiesto solo amore, e amore tu mi hai dato; ma anche io ti ho dato amore; siamo pari; ci siamo scambiati il cuore. Ma tu volevi di più, da me: volevi la mia libertà e questa non te la do, no, perdio, perché la devo ad altri, prima che a te, la devo a mia madre, a mio padre, alle mie sorelle… Vile, a me?», riprese rauco, delirante di rabbia per il silenzio di lei. «Eri tu che mi volevi vile; tu, che volevi farmi andare in carcere, tu che volevi legarmi a te come un cane al guinzaglio… Tu…»
D’improvviso tacque e le lasciò i polsi, pallido, freddo di terrore. Marianna aveva chiuso gli occhi per non vederlo, e piano piano si abbandonava scivolando con le spalle lungo la porta: cadde seduta sullo scalino ed egli credette di averla uccisa. Si piegò ai piedi di lei, come l’altra volta, sedette sull’erba bagnata, le riprese le mani, la guardò dal basso supplichevole.
«Marianna? Marianna? Rispondimi, Marianna!»
Era la voce di un altro, la voce del Simone buono di quella sera; ma ella taceva, a occhi bassi, incerta, chiusa al dolore di lui come lo era stata alla sua collera.
«Marianna, rispondimi: sono io, sono il tuo Simone; mi vedi che sono venuto: sono qui, riprendimi, fa di me quello che vuoi, Marianna, perdonami. Dimmi almeno che mi perdoni.»
Ella non rispondeva. Era morta, per lui. Ed egli lo sentì bene, ch’ella era morta per lui, e si strappò la berretta, la buttò via, si tolse il fucile e lo buttò giù, si torse le mani disperato. Balbettava parole senza senso, minacce assurde, imprecazioni contro se stesso e contro tutti.
Ella rimaneva inerte, cieca e sorda, morta a tutto.
«Infine, che ho fatto?», egli disse allora, riavendosi; e s’allungò per riprendere la berretta che si rimise calcandosela bene sulla fronte. «Era vero che la tua casa era circondata di spie. La colpa forse era mia, sì, perché dovevo tacere da uomo forte, il nostro segreto, e dovevo andare io, a cercare il sacerdote, dovevo, se fossi stato uomo di coraggio. Invece mandai mia madre; sì, e il segreto fu noto anche alle mie sorelle, anche alle vicine di casa… Sì, mi comportai da donnicciuola; ma fosse pure mia la colpa, la tua casa era circondata di spie, e mio dovere era di non farmi prendere in casa tua, di non darti questo dolore e questa vergogna. Mi capisci, Marianna; dimmi almeno che mi capisci! Vedi che parlo come se fossi la tua stessa coscienza! Ma no; tu taci, tu non rispondi.»
Ella riaprì gli occhi e lo guardò: ed erano placidi, i suoi occhi, come un tempo, ma troppo placidi, come se appunto guardassero da un luogo lontano ove si è sicuri, ove si giudica spassionatamente; dal di là, infine.
Simone riprese il fucile e se lo mise sulle ginocchia; poi le riafferrò una mano ch’ella gli abbandonò fredda e inerte.
«Tu intendi la ragione, Marianna. Povera Marianna mia! Vedi, tu intendi la ragione. E anche qui, nella tua tanca, c’è qualcuno in agguato, che vuol farmi del male: così, almeno sono stato informato. Ecco perché non venivo. Farmi prendere, farmi magari uccidere davanti a te! Che male non sarebbe per te? M’intendi? Parla, dimmi una sola parola. Eppoi, vedi» aggiunse piano, ma chinando la testa quasi si vergognasse delle sue parole «a pensarci bene era una cosa pazza…, Marianna…, una cosa da ragazzi… e noi non siamo più ragazzi… Eppoi c’è questo.. che tu sei ricca ed io sono povero…»
Allora la vita parve tornare in lei; arrossì e non ritirò la mano ch’egli le stringeva forte, ma disse piano, con voce calma:
«Ma questo tu lo sapevi bene; e se io ero ricca davanti a te povero, tu eri povero davanti a me ricca…».
Anche lui arrossì: inghiottì la saliva, con disgusto, come inghiottisse un boccone amaro, e scosse la testa. Non capiva più nulla, o gli pareva di non capire: era stanco di tutte le cose che aveva detto, come del lungo cammino fatto; fatica tutta inutile; e avrebbe voluto ancora una volta chinare la testa sulle ginocchia di Marianna e addormentarsi.
D’un tratto però lo sdegno lo riprese. Infine, lei non aveva ritirato il suo insulto; e non lo ritirava neppure adesso, neppure vedendolo così stanco e disfatto ai suoi piedi: anzi aggiungeva l’insulto all’insulto. Ma se lei non voleva riaprirgli la sua porta, anche lui non intendeva andarsene come un mendicante a cui si nega l’elemosina. Pensò alle beffe di Bantine Fera, se avesse saputo: e la bestia feroce gli si tornò a scuotere dentro. Cominciò ad ansare; si rimise il fucile ad armacollo e ricordò ch’era partito dalla grotta col tizzone in mano coll’intenzione di incendiare la tanca di Marianna e la casa di lei e di massacrare il bestiame e uccidere i servi, i parenti di lei, e anche lei, se lei non ritirava la parola. Vedeva tutto rosso; l’acqua che lo inzuppava si mischiava al suo sudore e diventava calda; e gli pareva di essere tutto intriso di sangue, del sangue sgorgato dalla ferita terribile che Marianna con quella sola parola gli aveva scavato nel cuore.
Ma lo sguardo di lei lo frenava. Ella non cessava di guardarlo, silenziosa, con la testa reclinata un po’ a destra: quell’atteggiamento gli ricordava Costantino e gli pareva che anche Marianna sapesse tutto, che lo avesse seguito passo passo in quei mesi di errori e di servitù mille volte peggiore della servitù antica, e lo guardasse dal fondo della sua coscienza. Abbassò la testa e fra il ronzio delle orecchie gli parve di sentire una voce ch’era quella di lei, o quella di Costantino, o quella di Bantine Fera, o forse la sua stessa voce, che gli ripeteva la parola di Marianna.

Allora balzò di nuovo, inferocito contro se stesso, e fuggì, attraversando di corsa il prato.
E solo allora Marianna cominciò a tremare. Credette ch’egli andasse a farsi del male e il suo primo istinto fu di seguirlo o di gridargli che si fermasse; ma l’orgoglio la teneva ferma, muta, inchiodata alla porta. Subito però anche a lei una voce interna cominciò a gridare ch’era stata ingiusta, che aveva detto una cosa sanguinosa e falsa rinfacciando a Simone la sua povertà davanti a lei ricca. Era stata anche lei vile, rispondendo alle proteste e alle difese di lui solo con un insulto: ecco che erano pari un’altra volta. Potevano correre finché volevano: dovevano seguire sempre la stessa via e ritrovarsi sempre vicini nelle soste.
Intanto egli era scomparso nel bosco. L’ombra del crepuscolo parve cadere dietro di lui.
Marianna sollevò gli occhi: vide il cielo tutto schiarito, d’un azzurro verdognolo, con la luna grande, rosea, sopra il bosco ancora grave d’acqua. Vide il prato davanti a lei riflettere come uno stagno il chiarore lunare. Nel silenzio improvviso sentiva sempre, chiaro, il passo di Simone. E lo seguiva con angoscia, pensando in cuor suo che egli si allontanava per sempre; ma in fondo, dentro un luogo ch’era più profondo del cuore, sentiva che ancora una volta la paura ch’egli si allontanasse per sempre la ingannava. Sì, egli correva, fuggiva; ma correva e fuggiva anche lei; la loro via era la stessa e dovevano ritrovarsi sempre ad ogni sosta.

Sospirò profondamente e andò a riaprire la porta della cucina. Il servo aveva obbedito; non s’era mosso; il padre, invece, uscita lei, era corso al finestrino, aveva veduto Simone arrivare e poi andarsene, e adesso aspettava ansioso ch’ella rientrasse.
Vedendola pallida e stravolta, con gli occhi ardenti di lagrime che non volevano sgorgare, le andò incontro senz’avere il coraggio di domandarle che cosa succedeva. La guardava, solo, e sentiva che qualche cosa di terribile era già accaduto, peggio che se Simone l’avesse aggredita, peggio che se l’avesse uccisa.
Senza parlare ella ritornò al finestrino e tutto fu di nuovo silenzio, nella cucina scura. La testa di lei spiccava nera sul verde e l’oro dello sfondo, con la luna da un lato. I due uomini tornavano a guardarsi, di tanto in tanto, con un senso angoscioso di attesa: d’un tratto i cani fuori ripresero ad abbaiare con guaiti lunghi, lamentosi, e Marianna andò alla porta, poi tornò al finestrino; pareva sapesse quello che accadeva di fuori, nel mistero del bosco, e fece un cenno con la mano, verso i cani, come invitandoli a tacere perché potesse sentire meglio.
Un colpo di fucile risuonò, chiaro, vicino: l’eco lo ripeté, poi un’eco più lontana lo ripeté ancora.
Ella rispose con un grido, come ad una chiamata. E corse di nuovo fuori, questa volta seguita dagli uomini.

Trovarono Simone presso la fontana, sotto le rocce, nel punto stesso dove il servo lo aveva veduto una mattina del giugno passato, dopo la prima visita alla casa colonica.
Fu Marianna che, precedendo il padre e il servo nella ricerca affannosa e correndo davanti a loro nel bosco come una cerva ferita, lo vide la prima. Stava inginocchiato davanti alla fontana con le mani puntate alla roccia; pareva tentasse di sollevarsi; la bocca del fucile ancora dritto sulla sua spalla scintillava alla luna, vigilando ormai inutilmente sul suo padrone ferito.
Marianna non gridò. Lo prese per le spalle, per aiutarlo ad alzarsi; egli le si abbandonò fra le braccia ed ella barcollò, cadde seduta sulla pietra, sotto il peso di lui.
Erano di nuovo assieme: il sangue di lui le bagnava il grembo; ed ella, cercando con la mano la ferita, se lo sentiva scorrere caldo fra le dita, e aveva l’impressione che Simone fosse tutto squarciato e il sangue gli sgorgasse da tutte le parti.
«Simone, Simone!»
Le sembrava che egli le si abbandonasse così apposta addosso e le offrisse il suo sangue come aveva promesso quella sera.
«Non fare così; su su; non fare così.»
Poi si mise a gridare con terrore.
Subito dopo arrivarono di corsa gli uomini: le tolsero Simone e lo portarono nella casa. Il sangue sgocciolava sull’erba; ella, che seguiva da vicino passo passo, con le mani sulla fronte, se ne sentiva tutta intrisa, dalle piante dei piedi alle radici dei capelli.
E la sua porta fu riaperta a Simone.
Gli uomini lo deposero sul lettuccio di lei e cominciarono a spogliarlo. Sembrava dormisse, coi capelli ancora molli di pioggia, abbandonato stanco sul guanciale. E lasciava fare. Si lasciò togliere il fucile, che non lo abbandonava mai, la cartucciera, la cintura, il cappotto e il giubbone. Mano mano che gli uomini glieli porgevano, Marianna prendeva gli oggetti e le vesti deponendo tutto sulla panca; e senza volerlo, nonostante il terrore del momento, pensava che Simone si sarebbe un giorno dovuto spogliare così per appartenerle. Ecco, le loro nozze s’erano compiute: nozze di morte; eppure in fondo, nella profondità, sotto la profondità del cuore, ella sentiva che le loro vere nozze erano queste: si appartenevano nella morte, nell’eternità.
Apparve il petto di lui, bianco come quello di una donna, il fianco agile coi nèi simili a lenticchie. La ferita era lì, fra due costole; un piccolo buco rosso. Il sangue continuava a sgorgare, tranquillo come l’acqua dalla sorgente.
Il servo si chinò a guardare, con l’occhio esperto di un medico; prese fra due dita, stringendoli forte, gli orli della ferita, mentre con la mano libera aiutava il padrone a stendere bene di fianco il corpo di Simone.
«La ferita non sarebbe mortale se la palla non fosse rimasta dentro. Dammi l’aceto, Marianna.»
Marianna versava l’aceto in un vaso; e le sue lacrime vi si mescolavano; lo porse con una mano, reggendo con l’altra il lume, e balbettò guardando il viso di Simone:
«Ti abbiamo ucciso e ti diamo l’aceto come a Cristo…».
Solo allora zio Berte, che fino a quel momento era parso un altro uomo, risoluto e fermo, diede un grande sospiro e giunse le mani.
«Ah, Sebastiano, che cosa hai fatto!»
Dopo, non parlarono più. Si udiva, nel silenzio, il crepitìo della tela di un lenzuolo che Marianna stracciava per farne delle bende, e – di fuori – il canto dell’usignuolo.
Mentre i due uomini ancora andavano e venivano, silenziosi, cercando di far sparire le tracce del sangue, Marianna sedette accanto al lettuccio. Simone pareva continuasse a dormire. Ella gli parlava sottovoce, toccandogli la mano inerte. Non vedeva più nulla, intorno, con gli occhi accecati dal pianto; ma dentro di sé vedeva ben chiaro in ogni angolo, fino alla profondità sotto la profondità del cuore, nel nascondiglio ove la coscienza raggiava come un tesoro in un sotterraneo.
«Ti ho ucciso io», diceva a Simone, toccandogli le dita una dopo l’altra, e il cavo della mano ancora lievemente caldo. «Ti ha ucciso la mia superbia. Perdonami. Non andartene così; non fare come ho fatto io, di tacere, di dire solo parole cattive. Perdonami: e non parlare, no, se non vuoi. So tutto lo stesso, Simone, cuore mio. Tu mi avevi dato tanto; mi avevi dato l’amore; non l’amore tuo per me, no, ma l’amore mio per te, l’amore mio. Era un tesoro grande, e io non l’ho saputo tenere. Perché uno che è stato sempre povero, come me, non sa il valore delle cose: e così l’ho sperperato, il tesoro che tu mi avevi dato. L’ho disperso, l’ho buttato fuori dalle finestre della mia casa! È giusto, adesso, che tu debba andartene: perché non hai più nulla; non abbiamo più nulla; Simone, cuore mio. E volevo ancora di più, da te. Tu avevi ragione, di dirmelo. Volevo anche la tua libertà, e volevo essere sposata, misera ch’io ero, volevo l’anello, da te, l’anello che non esiste se non dove finisce l’arcobaleno. Misera me, volevo il tuo sangue, la tua vita: ed ecco che me li hai dati, come avevi promesso, il tuo sangue e la tua vita. Simone, cuore mio. Avevano ragione le tue sorelle di diffidare di me.»
Al ricordo delle sorelle forti di lui, il pianto le sgorgò finalmente dagli occhi; ma nell’angoscia stessa trovò un senso di sollievo, e le parve che le sue lagrime, bagnando il viso e le mani di Simone, riuscissero a rianimarlo. Egli infatti mosse lievemente la punta delle dita.
Ella si sollevò, rivide tutto intorno, la stanzetta solitaria rischiarata dal piccolo lume, le vesti di lui sulla panca, il fucile nell’angolo, il viso di lui, pallido, sul cuscino, con gli occhi attoniti. Pareva che egli si svegliasse da un sonno profondo e stentasse a ricordarsi.
«Marianna?», chiamò sottovoce.