IV.

Marianna era di nuovo nella sua casa di Nuoro.
Stesa sul suo gran letto fresco, abbattuta da una stanchezza piacevole, aveva l’impressione, addormentandosi, di trovarsi ancora sul limitare della casa colonica, con la testa di Simone sulle ginocchia. E parlava al giovine, piano, quieta e grave, dicendogli tutte le cose che la notte prima non aveva saputo dirgli; e si faceva ardita ad accarezzargli i capelli morbidi e caldi, e a quel contatto un brivido la percorreva tutta, dalle ginocchia al mento; anche le sue palpebre tremavano, ma le chiudeva forte per non piangere, per non svegliarsi.
«Una donna che ama un uomo come me non deve piangere…» Sì, sì, Simone, non devo piangere.
E rimaneva immobile, e le pareva di avere un legaccio ai polsi, una catena ai piedi; passassero pure gli anni, non si sarebbe mossa, poiché il legaccio era lui, la catena era lui.
Questo era dunque l’amore: affanno nascosto nel più profondo del cuore, e schiavitù a questo affanno: eppure era dolce addormentarsi così, legata, col proprio segreto entro il cuore.
Svegliandosi, la mattina presto, provò la gioia vaga del prigioniero che conta i giorni della sua pena sapendo che devono pur finire; uno ne comincia ma un altro ne è già passato, e ogni attimo porta verso la liberazione.
«A Natale, se non prima…»
Natale verrà: ella è abituata ai lunghi mesi di solitudine e di silenzio: e un tempo non aspettava nulla, aveva l’impressione che nulla mai di nuovo arriverebbe per lei. Adesso invece i giorni le apparivano pieni di attesa, di speranza: e giorni e mesi erano sulla punta delle sue dita, lievi come i petali d’un fiore. A Natale Simone verrà! E se non veniva? Se la sorte selvaggia a cui si era dato lo allontanava per sempre, li staccava di nuovo?
A questo pensiero balzò, corse ad aprire la finestruola perché le pareva di soffocare.
La finestruola bassa, di quattro piccoli vetri guardava dietro la casa, sopra orticelli e casupole nere al di là delle quali s’alzavano sull’orizzonte chiaro le cime rocciose dell’Orthobene.
La luce rosea dell’aurora illuminò la vasta camera bassa col soffitto di legno tinto di giallo: lo specchio di un armadio nuovo brillò accanto alla cassapanca antica decorata di uccelli e di fiori primitivi; e Marianna tornò verso il suo grande letto di legno volgendo le spalle alla parete di fondo per non vedersi seminuda nello specchio.
Ma nel vestirsi, i movimenti della sua immagine riflessi dal cristallo attiravano i suoi occhi contro la sua volontà; e si volgeva alla sfuggita, guardandosi con curiosità timida. Sì; era un’altra donna, oramai, quella che abitava la sua camera; una donna viva e bella. La vecchia Marianna era rimasta sepolta sotto le foglie morte degli elci della tanca. Perché non doveva guardarsi? Si volse, risoluta, e si guardò, con curiosità casta, come guardasse una statua.
Vide, sopra le gambe lunghe e lisce, le piccole ginocchia pallide e lucide come due frutti di marmo levigato; e vi posò su il cavo delle mani; poi si curvò a calzare le scarpe. Le trecce disfatte le scivolarono come serpentelli neri dagli omeri cadenti al petto bianco venato di viola; le rigettò indietro con una mano mentre con l’altra stette un po’ ad accarezzarsi il piede arcuato dal calcagno roseo; ma d’un tratto arrossì, balzò di nuovo accanto alla finestra e cominciò a riattorcersi i capelli e a lisciarli bene sulla fronte in modo che gliela fasciarono come di una benda di velluto nero segnata appena dalla linea bianca della scriminatura. L’odore degli orti, il silenzio dell’ora, le ricordavano la tanca; ed ecco di nuovo Simone accovacciato ai suoi piedi, che le legava le ginocchia, le impediva di muoversi. Eppure bisognava muoversi, riannodare il filo rotto dell’antica vita. Le sembrò di chinarsi e dirgli: «Su, Simone, bisogna che tu mi lasci, un poco». Egli non la lasciava; la seguiva, la stringeva. Allora le parve di portarselo attorno come un bimbo in braccio, a fargli rivedere la casa ove era stato servo e adesso diventava padrone.
Ecco il pianerottolo sopra la scala ripida di ardesia un po’ scura fra due nude pareti bianche, col pavimento di antichi mattoni scrostati. Sul pianerottolo s’aprivano gli usci delle camere giallicci di umido. Tutte le stanze erano umide, a causa di un grande pergolato che copriva il cortile fra la casa e la strada: le pareti intonacate con la calce si macchiavano di verde e qua e là i soffitti di legno si marcivano, sebbene spesso rinnovati; solo la cucina al piano terreno, con la finestra che dava su un orticello a levante e la porta sul cortile, era calda e allegra perché col focolare sempre acceso.
Quando Marianna scese, la serva era già uscita. Il caffè bolliva accanto alla brage del focolare e la luce del sole nascente faceva scintillare i recipienti di rame appesi alle pareti scure. Attraverso l’inferriata della finestra tremolavano i ciuffi di canne dell’orticello e più in là fra i cespugli di rose bianche brillanti di rugiada e piccoli ciliegi coperti di frutti che sembravano nacchere di corallo, un pettirosso svolazzava, gittando il suo allegro grido di richiamo.
Marianna spalancò i vetri e scosse un po’ l’inferriata rugginosa, quasi con un desiderio di liberazione. Sì, Simone aveva ragione a non voler cedere la sua libertà: tutto, fuorché la libertà!
Ma di là dell’orticello, nel vicolo che lo rasentava e sboccava nella strada davanti alla casa, risuonò un passo di cavallo: la canna di un fucile e la cima di una berretta sfiorarono il muro: ella riconobbe Sebastiano e di nuovo l’impressione della realtà la fece arrossire. Sperò che il parente passasse dritto. Egli invece si fermò e batté col piede al portone. Ella attraversò senza fretta il cortile ancora tutto coperto dell’ombra del pergolato, e aprì; e subito vide che Sebastiano la guardava dall’alto sforzandosi all’usuale sorriso di malizia ma con gli occhi sospettosi e in fondo anche tristi.
«Volevo sapere se zio Berte è ripartito.»
«È ripartito, sì, da ieri.»
«E tu, Marianna, hai dormito bene, stanotte?»
«Io dormo sempre bene.»
«Lo so… Non hai pensieri! Ma… cosa volevo dire? ah, che l’aria di campagna ti ha fatto bene.»
Marianna lo fissava, aspettando qualche frase pungente; egli però guardava davanti a sé nella strada deserta e d’un tratto rallentò il freno e partì salutandola un po’ triste.
«Sta con Dio, Marianna: addio.»
Ella stette sul portone finché il cavallo non svoltò all’angolo della strada: aveva l’impressione che Sebastiano indovinasse già il suo segreto e la sorvegliasse e la guardasse come si guarda una persona minacciata da un pericolo o da una malattia. Ebbe un attimo di paura: paura di lui, paura di se stessa; subito però si scosse sdegnosa, pensando ancora una volta che era padrona di sé e della sua sorte, che era stata abbastanza serva degli altri e non doveva rendere conto di nulla a nessuno.
E come per provare a se stessa che era libera e sola rimase sul portone, cosa che non le accadeva mai, guardando su e giù per la strada solitaria. Lievemente in pendìo la strada svoltava giù fra casupole e case antiche con loggie di legno e balconi di ferro arrugginito; e su, passato il vicolo, s’apriva su uno spiazzo, con un po’ di verde e le torri della Cattedrale in alto sul cielo chiaro del mattino. Nessuno passava; in lontananza s’udiva solo qualche roteare di carro, qualche canto di gallo. Finalmente una donna apparve, in alto, con un recipiente di latta in mano, e Marianna s’accorse ch’era rimasta sul portone per questo, per dimostrare alla sua serva che era tempo di libertà: da lontano infatti la vide corrugare le sopracciglia fitte grigie sugli occhi rotondi di vecchia aquila, ma non si ritrasse. La donna affrettò il passo: i suoi grossi scarponi risuonavano sul selciato come ferri di cavallo, e tutta la persona alta, dura, fasciata dal costume barbaricino, aveva qualche cosa di ferrigno, di protervo, già vecchia eppure ancora indomita.
«Che guardi?», domandò alla padrona spingendola lievemente nel passare.
«Ero con Sebastiano», rispose Marianna; e subito le vide negli occhi il sospetto.
«A quest’ora? Che voleva?»
«Voleva rubarmi!», disse lei ridendo, mentre la serva chiudeva a chiave il portone.

Purché il portone fosse chiuso bene e Marianna dentro quieta silenziosa a lavorare, la serva non domandava altro: lavorava anche lei, taceva anche lei: solo il suo passo risuonava in tutta la casa facendo tremare i pavimenti.
Eccola, infatti, dopo aver rimesso in ordine le camere, seduta per terra, nella stanza terrena attigua alla cucina, a stacciare la farina d’orzo per il pane degli uomini dell’ovile.
Il rumore dello staccio dà un senso di sonnolenza a Marianna seduta anche lei presso la finestra a cucire; il suo pensiero è lontano; invece delle canne e dei piccoli ciliegi dell’orticello i boschi della Serra e i monti azzurri le si stendono davanti; e la vita le pare un sogno. Per scuotersi talvolta si alza, va fuori nel cortile, s’avvicina al pozzo e, senza volerlo, vi guarda dentro; ma la sua immagine sola si riflette nell’acqua ferma metallica e rotonda come uno specchio brunito: egli non è più neppure lì, è in un luogo ancora più profondo e misterioso.
Marianna rientra, e dà un’occhiata all’opera della serva: la serva, a sua volta, ha sollevato il viso per sorvegliarla, e visto che il portone non è stato aperto e la padrona non è uscita di casa, continua la sua faccenda: senza il movimento delle braccia lunghe che agitano lo staccio entro il grande canestro d’asfodelo, parrebbe, coperta com’è di farina fino alla cuffia, una statua di pietra imbiancata da un poco di nevischio.
E Marianna ritorna al suo seggiolino presso la finestra; ma le ore sono lunghe a passare; mai le sono parse così lunghe. Si alza di nuovo e va su nella sua camera, e apre la cassa e vede tutte le sue cose in ordine; ma il corsetto ben ripiegato con le maniche distese e i bottoni d’argento abbandonati uno su l’altro, e la tunica anch’essa ben distesa, coi gheroni riuniti, il nastro rosso in fondo, le dànno l’idea di una Marianna morta, distesa entro la bara pronta alla sepoltura.
Tutto il passato le appariva così, morto, tagliato di netto dalla sua vita come un ramo inutile dall’albero. Chiuse la cassa e andò nelle altre camere; ma in tutte, a cominciare da quella che era stata del canonico, col letto ancora coperto dalla coltre verde, il ritratto del prete sopra il cassettone, i libri nella libreria dai vetri smerigliati, gravava un odore di chiuso, di umido, di sotterraneo.
Allora salì nella soffitta. Era una vasta stanza sotto il tetto a pendìo, abbastanza alta, con due finestrini dai quali si dominava il cortile e la strada, e si vedevano gli orti, la valle e la montagna. Dalle travi pendevano grappoli d’uva e di pere, sul pavimento si stendevano le mandorle dorate e i pomi di terra ancora gialli come mele: e c’era anche il pane, nei canestri; il pane grigio d’orzo per l’ovile, il pane scuro per la serva, il pane bianco per lei; e la farina e la pasta, e i legumi e tutte le provviste che occorrono in una casa per bene: nulla mancava: e in un angolo, tra i due finestrini, c’era infine il giaciglio della serva, un lettino basso di legno tarlato con una rozza coperta di lana grigia e nera che pareva la pelle di una tigre.
Marianna ci si sedette sopra, ricordando tante cose. L’aria fragrante passava da un finestrino all’altro, e si vedeva il cielo azzurro sopra l’Orthobene, con una nuvoletta rossa come un fiore. Voci lontane vibravano nel silenzio, e a lei pareva di sentire ancora le voci della tanca; eppure riviveva nel passato, ricordava il giorno quando suo padre e sua madre l’avevano condotta per mano in casa dello zio, e le avevano fatto vedere le camere, la scala e quella soffitta piena di ogni ben di Dio. Anche allora s’era seduta sul lettuccio, toccando con la manina bruna la coperta ruvida, pensando che non avrebbe più giuocato scalza nella strada, non sarebbe più andata alla fonte, di sera, coi ragazzi, non avrebbe più potuto dir male parole e bestemmie se non fra sé sottovoce. Addio, libertà; bisognava tener sempre le scarpe, le scarpe nuove pesanti che le pareva le tirassero giù le gambe, gliele allungassero, le fermassero i piedi al suolo costringendola a meditare sui passi che voleva fare.
Nei primi tempi la serva Fidela l’aveva distratta coi suoi racconti e i suoi modi strani. Ecco, si rivedeva coricata in fondo al lettuccio, coi grossi piedi duri della serva sulla schiena. Con tanti letti larghi e piccoli in casa, con tante camere vuote, Fidela voleva dormire lassù, e raccontava perché.
«Devi sapere che qui, se si sente un rumore, c’è modo di guardare e di vedere da ogni parte.»
Infatti spesso la notte si alzava e si sporgeva da un finestrino e dall’altro: Marianna, sollevata ansiosa a metà sul lettuccio, la seguiva con gli occhi ardenti nella penombra, se c’era la luna: e la intravedeva tutta nuda ma con la cuffia, grande e dura come una statua di legno che si muovesse per opera di magìa. E aveva paura, Marianna, aveva paura di tutto, della serva in agguato al finestrino, dei rumori di fuori, e sopratutto se non si sentivano ma dovevano da un momento all’altro risuonare; degli oggetti che si intravedevano in fondo alla soffitta, dei grappoli neri che pendevano come teste scarmigliate dalle travi oblique: aveva paura di tutto, eppure la sua paura le piaceva e di giorno, quando si annoiava od era costretta a stare ad occhi bassi sospesa davanti allo zio, pensava con gioia alle ore della notte, alla vita misteriosa della soffitta, ai racconti della serva.
«Racconta, racconta! Quando eri là, in casa dei tuoi padroni… allora? Allora?… Racconta o salto giù», diceva agitando la coperta, quando Fidela tornava a letto.
«Allora… aspetta… cosa dicevo? Ma sta ferma, cavalletta!»
«Ricomincia da principio: tienimi i piedi, Fidela!»
Fidela le teneva i piedini fra le sue ginocchia di pietra, e ricominciava.
«Dunque devi sapere che a quell’età, a quindici o sedici o diciotto anni, non so bene, ero serva in casa di Cristina Zandu. Erano ricchi, i miei padroni: ricco è questo padrone qui, Dio lo consoli, ma ricchi erano anche quelli: avevano persino la fontana d’acqua dolce in casa; e denari e argenteria e reliquie come in una chiesa: persino nell’entrata della casa, in una cassa, c’era danaro; le monete di rame, in un canestro come le fave. Ora io non ti so dire bene com’è accaduto; ma una sera ecco, una sera di festa, il padrone tornò a casa, col suo bastone, e si mise a letto senza cenare; forse aveva bevuto: in coscienza mia non lo posso affermare, ma forse aveva bevuto. Noi donne stavamo in cucina; il servo dava da mangiare ai cavalli quando ecco lo vedemmo entrare con gli occhi grandi spaventati gridando: “Madre mia, padrona mia, che paura! Che paura!” e subito fuggì su per una scaletta a piuoli che dava in un soppalco sopra la cucina: e io dietro di lui, coi capelli dritti per il terrore, sebbene non sapessi di che si trattava. Ed egli fu svelto a tirar su la scaletta, e l’appoggiò al muro, salì, sfondò il tetto e sparve. Io ero caduta sul soppalco, e da una fessura vedevo la cosa orribile che succedeva in cucina: un mucchio di uomini mascherati, che sembravano orchi, vi si era precipitato, e tre di essi avevano preso la mia padrona e uno di essi aveva una scure! Gli altri andarono subito nell’andito e di là salirono nelle camere di sopra: si sentivano i loro passi come quelli di demoni sfrenati usciti dall’inferno. Hai capito che era una banda di grassatori? Erano molti, forse trenta, forse più: il servo, sul tetto, gridava chiamando aiuto, ma nessuno osava mostrarsi per paura di buscarsi una fucilata dai malfattori. In pochi minuti essi uccisero il padrone, presero tutte le cose preziose; e non erano contenti: quello che aveva la scure e i due altri conducevano qua e là la padrona, trascinandola come morta, perché indicasse loro i nascondigli del denaro. Di fuori risuonarono due fucilate; erano i vicini di casa che cercavano di spaventare i grassatori; ma alcuni di questi, rimasti a guardia nel cortile, gridavano a quelli di dentro: “coraggio e avanti!” e tutta la casa era sottosopra come per il terremoto. Io vidi quei tre ricondurre la padrona in cucina: ella trascinava i piedi per terra come due stracci e aveva il viso bianco tutto storto per il terrore. Le davano pugni alle spalle, la minacciavano con la scure, perché non aveva saputo indicare i nascondigli: poi la spogliarono: le trovarono addosso, cuciti al corsetto, due biglietti da mille lire l’uno e parvero placarsi. Lei balbettava: “abbiate cuore buono, pensate a vostra madre!…” e loro ripetevano: “ancora un altro poco: ci dirai dov’è il danaro, se no ti metteremo a sedere nuda sul trepiede infocato…”. E uno infatti mise a infocare il trepiede; ma altre fucilate risuonarono fuori e d’un tratto tutti fuggirono; anche la mia padrona, vedendosi sola, scappò: io rimasi lassù tutta la notte; mi nascosi tra fasci di canne che stavano nel soppalco e ancora a volte mi sembra di essere là, di sentire i passi dei malfattori, di morire soffocata. Dopo quella notte, per lo spavento, cessai di essere donna.»
Questa conclusione divertiva molto Marianna e la faceva ridere, con la gola ancora chiusa dal terrore. Le pareva di vedere Fidela nascosta tra i fasci di canne, nel soppalco, balzar fuori e d’un tratto da ragazza mutarsi in ragazzo; e ogni volta aspettava la fine della storia con ansia, palpitando di paura e di pietà, e tuttavia mordendosi le labbra, per non ridere prima del tempo.
«Dopo sono stata serva del canonico, che era venuto lassù parroco; saranno venti o venticinque anni, e quando egli ritornò a Nuoro venni con lui. A dire la verità, sempre le cose sono andate bene: solo una volta ci hanno rubato una gallina, ma dev’essere stata Maria Conzu la vicina di casa. A dire la verità, Nuoro non è un paesetto ove possa succedere una grassazione, con tanta forza che c’è: e i tempi sono cambiati: ma i malfattori esistono sempre e fidarsi non bisogna.»
Marianna però non badava a queste considerazioni: spingeva i piedini sul ventre duro della donna, e insisteva sollevando il viso dal guanciale:
«Com’è che siete diventata ragazzo? Perché siete diventata ragazzo? Perché spaccate la legna col ginocchio? Perché levate i chiodi coi denti? Su, rispondete! Allora siete un servo, non una serva! Su, rispondete! A dire la verità…».
«Sì, a dir la verità, avrei preferito essere un servo maschio.»
Allora il riso soffocato di Marianna riempiva di gioia l’ombra misteriosa della soffitta.
Poi ricominciavano i racconti.

A tanti anni di distanza, Fidela non cambiava parere. Mentre Marianna si indugiava nel cortile, verso sera, sotto l’ombra del pergolato nero sul cielo di rosa, eccola a inchiodare un’asse del portone spaccatasi un poco al calore del sole di giugno.
Marianna le aveva dato i chiodi, poi s’era seduta nella penombra e guardava di tratto in tratto la luna nuova che tramontava languida come un occhio socchiuso nella voluttà: e pensando al suo segreto aveva negli occhi qualcosa della dolcezza lunare. Ma la presenza della serva la infastidiva: di giorno in giorno, di ora in ora, il problema si riaffacciava sempre più urgente al suo pensiero.
Se Simone arrivava?
Come riceverlo? Come evitare la vigilanza della guardiana del suo carcere?
C’era tempo ancora; ma ella aspettava e aspettava, e nel silenzio le sembrava di sentire il passo di lui che si avvicinava sempre più.
I suoi giorni erano diventati un solo sogno di attesa: aspettava con ansia anche il ritorno del padre, la visita di Sebastiano, i giorni di festa per poter andare alla messa e respirare accanto alle sorelle di Simone: tutto era buono purché le portasse qualche cosa di lui.
Quando Fidela, finito d’inchiodare l’asse, si ritirò, ella s’alzò ed andò a riaprire cauta, sporgendosi a guardare di qua e di là della strada. Era un sabato sera e forse almeno il servo sarebbe tornato dalla Serra: ma il crepuscolo s’addensava, anche le rondini si ritiravano silenziose solcando un’ultima volta il cielo rosso sopra le case nere, e nessuno arrivava. Al di là della strada deserta sopra le torri rossastre della chiesa una nuvola rossa si incurvava come un arco di fuoco; tutto era nero e sanguigno, tutto ardeva di una fiamma misteriosa che l’ombra a poco a poco spegneva: e i canti corali dei giovani amanti paesani riempivano l’aria di passione nostalgica. Ella appoggiò la tempia allo stipite del portone pensando che il suo amante non poteva cantare per lei sotto la sua finestra. Come erano lontani! Lontani come alle due estremità della terra; tanto lontani che, a pensarci bene, pareva ch’egli non esistesse neppure… Ma ecco, a pensarci meglio, il cuore le si gonfiava per la stessa disperazione: e il passo di Simone le risuonava ben dentro, mentre dalla profondità del suo cuore era la voce di lui che cantava riempiendo la sera dei gridi d’amore.
Ritornò sotto il pergolato; ad ogni rumore di passi sollevava la testa, finché la serva non tornò nel cortile e s’avanzò per chiudere di nuovo il portone.
«E lasciate un po’ aperto!», disse Marianna con durezza.
«Qualcuno può entrare.»
«E se entra lasciatelo entrare!»
Fidela chiuse egualmente senza replicare; il rumore dei suoi scarponi, sul selciato del cortile, pareva davvero quello dei passi d’un guardiano di carcere.
«Andiamo, è pronto», disse ripassandole davanti.
Accese il lume ad olio sporgendone il lucignolo alla fiamma del focolare e preparò la mensa; il pasto era frugale, un pasto quasi di povera gente: pane cotto condito con formaggio ed erbe; ma un’intera forma di cacio stava sul tavolo, e la serva ne tagliava di continuo larghe fette mangiando pane in grande quantità come un pastore. Poi sollevò la brocca dell’acqua e bevette a lungo mentre Marianna, quasi irritata da quella serenità rozza, prese solo un pezzo di pane duro e se ne tornò fuori.
I grilli cantavano tra le foglie della vite e in lontananza gemeva il lamento di un assiuolo. Dove era Simone? Nel mistero della notte, nel lamento dell’assiuolo. O nel passo che si avvicinava. Il passo si fermò al portone ed ella balzò, col cuore che le faceva male. Andò ad aprire e sentì subito l’odore di tabacco e di selvatico di Sebastiano.
«Oh oh», egli disse entrando, sempre con qualche cosa di malizioso nella voce e nello sguardo, «aspettando mi stavi?»
Sedettero davanti alla porta ed egli si sporse chiamando la serva.
«Oh, venite qui: ho veduto cinque uomini lì fermi all’angolo del vicolo, incappucciati. Così Dio mi assista, forse sono grassatori. Zia Fidé, attenta stanotte.»
«Rimani tu a difenderci», disse la serva, non senza ironia, «il coltellino a serramanico ce l’hai.»
«Zia Fidé!», egli insisteva minacciandola scherzoso. «Così Dio mi assista, stanotte tornate sul soppalco!»
Marianna rise, ma quando egli aggiunse:
«Marianna non la toccano, tanto sanno che se anche le portano via la camicia non se ne cura affatto».
«Perché?», ella disse, animandosi, «forse trascuro i fatti miei?»
Sebastiano si volse, accostò il suo sgabello a quello di lei: era in vena di scherzare, quella sera, ma diceva anche cose che pungevano.
«Li fai, sì, i fatti tuoi; ma trascuri il migliore, Marià; lasci passare il tempo! Che cosa fai qui sola come una donnola nel suo buco?»
«Che t’importa? O hai qualche proposta da farmi?»
«Può darsi anche! Intanto datemi da bere, donne! Datemi da bere, e vino buono; malanno, potete dare un po’ di vino buono.»
La serva andò a prendere il vino.
«Sei stato alla Serra?», domandò Marianna, abbassando suo malgrado la voce: e subito gli parve che gli occhi di lui scintillassero ed ebbe quasi paura della risposta.
Sì, era stato alla Serra; aveva veduto il padre di lei, il servo di lei, gli armenti di lei, gli uomini che estraevano il sughero per conto degli Ozieresi. E null’altro. Ma il solo sentire parlare dei luoghi dove aveva lasciato il cuore, dava a Marianna un tremore interno, un senso di luce nelle tenebre. E aspettava che egli dicesse altro; ma egli scherzava con la serva; porgendole il bicchiere perché glielo riempisse di nuovo, e tirandola per il grembiale.
«E sedetevi qui, e versate, che non è il vostro sangue. E ditemi per dove scappate, questa volta, se tornano i vostri amici… Uno dunque era giovane e bello come una donna… Com’era, dunque? E la scure era affilata?»
La sua insistenza a ricordare il terribile fatto cominciò a dar ombra a Marianna; ella si ritrasse indietro, mentre la serva, che non amava gli scherzi su quell’argomento, versava il vino senza rispondere. Sebastiano depose il bicchiere per terra e continuò:
«Eppure, vedrete, zia Fidé, se questa Marianna non mette giudizio una di queste sere gli amici sono qui. Vegliate, zia Fidé, tenete gli occhi aperti… Ma adesso ci vedete e ci sentite poco: vi voglio regalare un cane, poiché il vostro, come tutti i cani dei canonici, non abbaia più. È troppo grasso e dorme sempre».
Infatti il vecchio cane che le due donne tenevano di là, nell’orticello, non abbaiava mai: Marianna però sentiva o credeva di sentire, troppe allusioni maligne nel discorso di Sebastiano; cominciò a irritarsi e disse con l’accento freddo che sapeva trovare quando si trattava di mettere a posto qualcuno:
«Sebastiano, non offendere la gente».
Egli riprese il bicchiere e bevette in silenzio: poi rispose, a sua volta freddo e compassato, ad alcune domande di lei, senza più scherzare.
Parlavano di pascolo e di raccolto, d’orzo e di agnelli, e del come Marianna avrebbe voluto impiegare i denari ricavati dal sughero: voleva acquistare una tanca attigua alla sua, ma occorrevano altri denari; bisognava aspettare un altro anno o vendere del bestiame: ma era peccato vendere il bestiame, tanto più che zio Berte non voleva perché era affezionato alle sue vacche, alle sue giovenche; dunque bisognava aspettare un altro anno: o convincere il proprietario della tanca a cederla a rate; questo era difficile, però, anzi impossibile, che il proprietario volesse cederla a rate o aspettare ancora un anno: forse era già in trattative con qualche altro compratore, forse a Marianna toccava il rischio di non poter più acquistare la tanca, e di aver inoltre qualche vicino incomodo. Ella ne parlava tranquilla, come di cosa che non la riguardasse: nulla più, delle cose terrene, la toccava troppo da vicino, avvolta com’era da quell’altro pensiero. D’un tratto però Sebastiano tornò ad animarsi; sporse il viso verso di lei, fissandola nella penombra e disse sottovoce, come fossero d’intesa sul significato delle parole che egli pronunziava:
«Mandiamo Simone, dal proprietario della tanca, per convincerlo…».
Marianna rabbrividì; sentì come un’ala nera mostruosa sfiorarla, e per la prima volta intuì tutto l’orrore, tutta la distanza che separava lei, onesta, coscienziosa, pura, da un bandito, un malfattore qual era Simone.
Un attimo: e altre visioni demoniache le passarono davanti: il portone si spalancava, Simone veniva, sì, secondo la sua promessa, ma per aiutarla a fare del male, o per fare del male a lei stessa, per derubarla, per violentarla, per ricattarla…
Un attimo: e Sebastiano non s’era ancora sollevato, ridendo un risolino beffardo, come contento di averla burlata e atterrita, ch’ella già a sua volta reagiva violentemente contro se stessa più che contro di lui. Le pareva di aver sospettato dell’anima sua stessa, di essersi creduta capace delle cose più mostruose.
«Sebastiano», disse, grave, ma con un tremito di collera in gola, «sei sempre più sciocco!»

Lungo tempo, dopo ch’egli se ne fu andato e la serva tornò a chiudere bene con la spranga e il catenaccio il portone, mettendosi poi nell’angolo sotto la finestra in attesa che la padrona si ritirasse, Marianna rimase al suo posto, silenziosa, immobile.
Pensava ancora alle parole di Sebastiano; non c’era più dubbio ch’egli sospettasse; ma ella si sentiva forte, di fronte a lui; bastava parlargli aspro per rimetterlo a posto. Pensava piuttosto al modo di liberarsi della vigilanza della serva, se veniva Simone.
Era difficile, difficile quanto necessario.
Piegata su se stessa, mentre il russare lieve di Fidela che si era addormentata le dava fastidio come il rumore sordo di una lima, ricordava l’ora del loro incontro, le pareva di parlare a Simone, chino sulle sue ginocchia, dicendogli tutta la sua pena e la sua ansia. E aveva coscienza di tutto, e si ascoltava, e sentiva di formare due Marianne ben distinte, una che parlava a Simone, curva su lui come sull’acqua di una fontana nella quale tentava invano d’immergere le labbra arse, l’altra vigile fredda ad ascoltare, pronta a difendersi e a difendere la compagna incauta. Ma quando un passo d’uomo risuonò nella strada, chiaro, e sempre più vicino, e si fermò al portone, sentì di nuovo il cuore dolerle: balzò, senza respiro, corse ad aprire. L’uomo era un passante che s’era fermato per caso e andò via subito: ella tornò indietro ancora palpitante d’ansia; vide la serva sollevarsi rigida; ma sentì che ogni vigilanza era inutile, che, giunto il momento, avrebbe saputo rompere e vincere ogni ostacolo: e andò a buttarsi sul suo letto, stanca, aspettando ancora.