II.

L’avvenimento dell’estate fu l’arrivo del Circo Fumagalli. V’erano delle amazzoni giovani, belle, elegantissime, che avevano messa la rivoluzione nel campo dei Crociati. Ai bagni dell’Acquasanta, dalle compagne che prendevano il fresco dinanzi al mare, ella udiva le notizie dei successi, delle rivalità, tutta la cronaca delle relazioni già strette e delle trattative avviate.
Che cosa vedevano gli uomini in quelle creature? Come era possibile far delle pazzie per esse? Come si poteva credere a quegli esseri volgari e interessati? Senz’amore, ella non riusciva a concepire che potessero esistere rapporti fra uomini e donne. Un giorno che le sue amiche parlavano delle amazzoni con maggiore insistenza, ella disse:
— Io non capisco come si possano cercare queste femmine.
Non le risposero; solo la Carduri sorrise un poco.
Le due più ammirate fra quelle saltatrici erano la Doreley e la Ruscalli; la Francese già era l’amante di Toscano; ai bagni s’incontravano quasi tutti i giorni. Quando Giulia Viscari era lì, ella studiava il contegno dell’amica, per notare che effetto le faceva quel veder l’uomo da lei un tempo amato in compagnia di un’altra donna. Giulia non lasciava scorgere nulla, continuava, ridendo, a conversare: era dunque senza cuore, per averlo dimenticato così? Ed ella imaginava che Toscano ostentasse quella relazione come per vendicarsi.
Ma chi fosse l’amante della Ruscalli non si sapeva ancora. Tutte le volte che ella ne chiedeva, non le sapevano rispondere. La Leo parlava un giorno di certi doni che l’amazzone aveva ricevuti; ella domandò:
— Da chi?
— Non so, non rammento… Me l’ha detto Anna Sortino.
Ella non serbava rancore a costei; un giorno le chiese:
— Chi è dunque che protegge la Fumagalli?
— Non lo so.
— Come non lo sai, se l’hai detto a Giovannina? Sentiamo, chi è?
— Se non lo so! Chiedilo a tuo marito.
E ad un tratto ella comprese certe reticenze di Giulia, le difficoltà che Guglielmo aveva fatte ogni volta che lei aveva chiesto di andare al circo. Fu come una sferzata in pieno viso, come se la saltatrice, dall’alto del suo cavallo bianco, le avesse dato il frustino sul viso. Più che il dolore del tradimento, più che la rovina della sua fiducia, era l’affronto che le cuoceva, l’idea di quella rivalità umiliante, della derisione di cui sarebbe stata l’oggetto per la volgare creatura che le rubava il marito, delle intime rivelazioni che egli avrebbe fatto, ridendo, intorno a lei; della profanazione d’ogni ideale di affetto e di rispetto! — Una cavallerizza, una donna senza nome, educata nelle stalle, per cui tutti i palafrenieri erano passati, esposta ogni sera, quasi nuda, alla concupiscenza dei curiosi! Un brivido di disgusto e di ribrezzo la scuoteva; ma al circo, intanto che l’altra passava, ritta in piedi sul cavallo galoppante, al suono d’un’orchestra rauca, fra lo schioccar delle fruste, nell’abbacinamento delle piramidi luminose, coi capelli disciolti, una gamba levata, le braccia inarcate, un sorriso sulla bocca rossa; intanto che gli applausi cominciavano a scoppiare e si propagavano per tutto il teatro, ella comprendeva, sì, la seduzione di quel corpo serpentino che tutti desideravano, l’ebbrezza che quel clamoroso trionfo doveva destare, l’esaltazione che si sarebbe provata pensando: «Questa donna che vi vedete passare dinanzi, che v’infiamma con uno sguardo, con un sorriso e con un bacio fittizio, io la posseggo, tutta; e voi non sapete che con la vostra ammirazione, coi vostri applausi di folla anonima incapace di arrivar mai fino a lei, non fate se non accrescere per me il suo valore!» Allora, ella restava come ammaliata a fissare quella figura giravoltante, seguendola in ogni atto, non vedendo altro che lei, credendo di sorprendere degli sguardi d’intelligenza scambiati fra lei e suo marito, che poi la lasciava sola con delle visite, per andarsene nella barcaccia, a guardar quell’altra più da vicino… Nella nervosità dolorosa di cui quel pensiero fisso le era cagione, ella credeva adesso di esser guardata da colei con uno sguardo tra curiosa e sprezzante, e una sera ne fu certa: colei la sfidava, le agitava dinanzi il frustino… e tutto il sangue le si ritirava al cuore, e tutta la sua persona tremava, dall’umiliazione, dalla vergogna.
— Signora Duffredi, si sente male?
— Io? No, davvero… — e si studiava di sorridere, intanto che quell’uomo solo con lei nel suo palco, quel conte di Toledo che suo marito le lasciava al fianco, le diceva, col solo sguardo, senza aprir bocca: «Avete ragione! Vedete chi vi preferisce? Non sapete che tutti gli occhi sono rivolti su di voi? Ecco di qual uomo voi siete!»
Era uno strano fascino che l’attirava ancora a quello spettacolo, un bisogno malsano di sentirsi straziare da quella vista, di comporre il suo viso a una indifferenza disinvolta sotto gli sguardi inquisitori che le pesavano addosso, intanto che il cuore le tumultuava, che dei propositi di scandalosa vendetta, attraversavano come baleni il suo cervello… Lanciare il suo guanto in viso a quella donna! Alzarsi, chiedere il braccio del primo venuto, e dirgli: «Andiamo!» così, a fronte alta, in presenza di tutti!
Adesso ella era sicura che a Roma, nei primi tempi della loro unione, egli era stato a trovare un’altra donna, che l’aveva trascurata per un’altra: la Balsamo, le amiche di Palermo quasi glie l’avevano detto. Voleva fargli intendere che sapeva tutto, voleva ingiungergli di rispettarla; e col ricordo di quel che aveva sofferto la sua mamma, il suo rancore si esasperava. Se credevano di far di lei una vittima, come quella poveretta! Ella sentiva a momenti di dover vendicare, coi proprii, i dolori della morta: allora si proponeva di parlar alto e chiaro; e i rimproveri amari, le parole di sdegno le salivano alle labbra; ella cercava assiduamente il modo con cui aprire finalmente il proprio animo al marito; ma, come l’occasione si offriva, ella taceva, indietreggiava, presa da una soggezione paurosa dinanzi a quell’uomo freddo, muto, che non le chiedeva più i suoi abbracci, che era nuovamente diventato l’estraneo, il nemico… Ella non si riconosceva più, non trovava più la nativa energia, la naturale schiettezza del proprio carattere, si sentiva avvilita da quel silenzio a cui era ridotta, quando invece avrebbe voluto prorompere, lagnarsi, ottenere giustizia, esemplarmente! Egli rientrava a casa tardi, passava il pomeriggio in compagnia dell’amante; e la tentazione di andarli a sorprendere l’assaliva tratto tratto. Ogni sera egli era al Circo, e all’idea che essi si guardavano, si sorridevano, si comprendevano attraverso la folla, nell’assenza di lei, una insofferenza, una smania, un’ansia la distoglievano da ogni occupazione, da ogni discorso, da ogni altro pensiero. Un giorno, mentre erano a colazione, il cameriere venne ad annunziare:
— C’è di là il fattorino del teatro, con la pianta… dice se vogliono un palco, per la serata della Fumagalli…
Guglielmo fece un gesto di contrarietà.
— Sì — rispose lei, subitamente.
— Ma passerò io dal botteghino…
— Non è meglio fissarlo subito? Dite che segnino il solito numero 10.
Egli non disse più nulla. Solo quando ella era già passata nella sua camera, se lo vide dinanzi.
— Un’altra volta — cominciò, lentamente — quando io dico qualche cosa, ti prego di non contradirmi. Hai capito?
— Guglielmo! — esclamò lei, guardandolo in viso.
— Se no, mi costringerai ad alzar la voce dinanzi ai servi.
Ella dovè appoggiarsi con una mano alla spalliera d’una seggiola.
— Che cosa significa questo?
— Significa che io faccio quel che mi pare, in casa mia; hai capito? E che se dissi di non fissare il palco, avevo le mie buone ragioni…
— Le tue buone ragioni? Ah, le tue buone ragioni! Dunque ho torto io? E tu credi che io non le sappia, le tue buone ragioni?
— Che cosa sai? Di’ su: che cosa sai?
— Ah, tu credi che il torto sia mio? È mio, infatti! Se sono la favola di tutta Palermo… se non ho il coraggio di ribellarmi…
Egli le si fece più vicino, con le mani in tasca.
— Ribellarti? A che cosa vuoi ribellarti?
— Alla tua condotta! Ai tuoi abbandoni! Ai dolori che mi procuri, ogni giorno, dacchè siamo insieme, da Roma a qui…
Aveva cominciato a parlare rapidamente, con impeto, ma la sua voce veniva morendo, nella commozione che la faceva tremar tutta e che le gonfiava le palpebre.
— Un piagnisteo, adesso, eh?
Egli batteva nervosamente un piede; a un tratto, alzata la mano col pugno stretto, esclamò:
— Senti, mettiti bene in testa che io ho fatto e farò sempre quel che mi pare e piace, sempre e semprissimo, a Roma, a Palermo e a casa del diavolo…
Le lacrime di lei s’arrestarono. Cogli occhi spaccati e inariditi, ella disse:
— Tu? Tu parli così? E allora, perchè? Che cosa ti ho fatto? Perchè mi hai presa?
Di repente, egli scoppiò in una risata, appuntandosi l’indice contro il petto, additando replicatamente sè stesso.
— Io? Ah, ah! Io t’ho presa? Dice che l’ho presa io!
— Chi dunque?
— T’ho presa io, che non volli mai saperne nulla? Che scappai di qui, quando mi seccarono l’anima? Che fui trascinato per forza al municipio? Che vi feci intendere, a quanti eravate, di…
— Guglielmo!
— Ma domandalo un po’ a tutti, ai miei amici, a tutta Palermo, se t’ho presa io, se volevo prender moglie, se pensai mai a te…
— Guglielmo, per carità…
— Ah, mentre ci siamo, una volta per tutte, sai! Adesso il fatto è fatto, e giacchè sei qui, bisogna che ci resti; ma bada, non mi seccare, lasciami fare quel che mi piace, pensa alle cose tue, non mi chieder nulla, se no…
Ella portò una mano alla gola, girando il capo ansiosamente, scongiurando: «No! no!» e ad un tratto cadde sopra una poltrona, con le braccia pendenti, invasa da un freddo mortale…
Quando riaprì gli occhi, Guglielmo era chino su di lei, le faceva fiutare dell’etere, le chiedeva:
— Teresa… sei desta? M’hai fatto paura…
Ella potè dire soltanto:
— Che male… che male!
Si reggeva la testa con una mano, e le orribili parole le echeggiavano ancora all’orecchio. Ah, i suoi terrori! il presentimento che l’aveva sempre fatta arretrare dinanzi a una spiegazione, con la certezza di provocare qualche cosa d’irreparabile! Sì, sì; egli aveva ragione: era vero, non l’aveva voluta, aveva dimostrato abbastanza di non amarla! Ella lo aveva compreso fin da principio; quante volte, durante il fidanzamento, era stata tentata di rompere? E s’era lasciata persuadere dall’amor proprio, dalla vanità stolta; e il ricordo di quel che aveva sofferto la sua mamma non era valso a salvarla! Erano dunque inutili, le lezioni della vita? L’esperienza non valeva dunque a nulla! E adesso, che cosa poteva sperare ancora? Che cosa aspettava?
La scossa nervosa prodotta dalla triste spiegazione si prolungava, in un eccitamento della sensibilità, in una trepidazione continua. Ella aveva ora come una sbarra sulla fronte, come un nodo alla gola, e le convulsioni tornavano ad assalirla. Per alcuni giorni, Guglielmo parve mutato: le stava vicino, ricevendo le visite delle amiche che si succedevano intorno al letto di lei, chiacchierando, studiandosi di distrarla. Ella rispondeva sorridendo a fior di labbro, col cuore stretto, aspettando invano che egli le si buttasse ai piedi, che le chiedesse perdono, che cancellasse coi baci, con le proteste d’affetto, le amare parole. Nelle lunghe ore che passava a letto, o sopra una poltrona, col corpo indolenzito e la testa confusa, ella si perdeva dietro a imaginazioni, a progetti che la forza della fantasia quasi le dimostrava realizzabili e di cui poi scopriva a un tratto l’assurdità. Voleva confidarsi al vecchio marchese che era tanto buono con lei, rivelargli la condotta di suo nipote affinchè lo costringesse al rispetto dovutole — ma non avrebbe fatto peggio, a mettere un altro di mezzo? E malgrado la ragione fosse dalla parte sua propria, pensava di cedere, di umiliarsi dinanzi a suo marito; di dirgli: «Sì, ama quell’altra… io non sono gelosa… capisco che in una persona come te, dopo la vita che hai fatta, quelle donne esercitano sempre un gran fascino… ma capisco pure che è un fascino passeggiero, che pel tuo cuore, per la casa, per la società, la tua donna son io! Ebbene, vedi come mi faccio una ragione? Dapprima avevo delle fisime, credevo che le cose andassero altrimenti! Io ti lascio libero di fare quel che tu vuoi; anzi, imagina di avere in me non una moglie, ma un amico; confidami i tuoi segreti, ti prometto di ascoltarti, di darti dei consigli… ma non mentire, non fare scandali, non espormi alle risa, non mi dire delle cose dure, perchè… perchè…» e in una súbita rivolta dell’orgoglio ferito, nel nuovo e più doloroso ricordo della lunga tortura, della lenta agonìa di sua madre, ella si tacciava di vigliaccheria, insorgeva contro di lui e contro sè stessa, lanciava una sorda sfida: «Bada! bada!» Allora delle torbide visioni le sfilavano tumultuosamente dinanzi, un’oscurità tetra avvolgeva l’avvenire, delle rovine si accumulavano sulla sua via… e con la testa fra le mani, ella si diceva: — «Mio Dio, no! Salvatemi, risparmiatemi!»
Ella si sentiva buona, piena d’indulgenza: ammetteva che gli uomini sono fatti ad un altro modo, era disposta al perdono, alla rassegnazione; e come Guglielmo una sera le chiedeva affettuosamente se si sentiva meglio, invasa da una gran tenerezza ella l’attirò a sè:
— Vieni qui vicino… sì, mi sento meglio… perchè tu sei buono con me! Guardami in viso: ti ricordi quel che mi hai detto? Come hai potuto? Dimmi che non è vero, che io sono l’amor tuo… È vero che non è vero? Guardami, non sono bellina? Non sono tutta tua? Non ti ho data tutta me stessa? Non ti so amare anch’io?
Egli aveva mormorato qualche cosa, dei monosillabi, intanto che lei gli passava soavemente una mano sui capelli; poi a un tratto, con un impeto di desiderio, la prese. Uno scontento rimaneva in lei: non era questo che voleva; ella sentiva il bisogno di buone parole, di proteste sincere, di giuramenti teneri; e non ne otteneva. Poi, degli argomenti dimenticati le tornavano alla memoria; avrebbe dovuto dirgli: «Come puoi dire che non m’hai voluta, se m’hai domandata tu stesso? Chi ti forzava? C’era qualcuno che t’appuntava una pistola al petto, quando mi domandasti se ti volevo?» Però, malgrado tutto, la speranza tornava a fiorirle nel cuore, le tristi visioni si dileguavano; e la sera della beneficiata della Fumagalli, per dargli una prova della sua rinata fiducia, ella lo pregò di andar fuori.
— No; preferisco restare… — rispose lui, passeggiando di su e di giù per la stanza.
— Fammi questo piacere… va’ fuori un poco, al circolo, a vedere i tuoi amici… poi mi dirai che novità si narrano… fammi questo piacere; starai fuori un’oretta; io t’aspetterò in piedi…
Si lasciò finalmente persuadere. Tornò a mezzanotte, quando la scappata delle carrozze annunziava la fine della rappresentazione. Ella lo aveva aspettato di minuto in minuto, rifiutandosi di credere che fosse al teatro, e quando Guglielmo entrò nella camera di lei, a chiederle come si sentisse, gli rispose:
— Meglio, grazie. Tu sei stato a teatro?
— Sì, un momento…
Ella si morse le labbra, chiudendo un poco gli occhi. Poi disse, disinvoltamente:
— Una bella serata? Molti applausi? Molti regali?
— Così, discreta…
Vi erano quelli di lui, fra i regali: ella ricevette il domani un giornaletto satirico, il Ficcanaso, che alludeva agli omaggi raccolti dalla Fumagalli presso le corti estere, specialmente dallo czarevitch… Lesse quelle righe tremando, con la vista intorbidata, sentendosi divenuta la favola di tutta la città, aspettando di leggere un’allusione a sè stessa… Lo sconforto tornava ad abbatterla, tutto sarebbe stato inutile: le recriminazioni come il perdono, l’odio come l’amore. Che cosa dirgli? Perchè tentare ancora di ricondurlo a sè? Adesso, ella era preparata a tutto, s’aspettava uno scandalo pel giorno in cui la compagnia sarebbe andata via; era sicura che egli l’avrebbe seguita o che l’avrebbe raggiunta.
Con suo grande stupore, Guglielmo restò. E prevedendo il peggio, credeva di respirare sapendo oramai rotto quell’intrigo. Però, dacchè la compagnia era partita, egli si mostrava più brusco, più duro, la trattava con minori riguardi. Se ella si vestiva pel passeggio o per le visite, egli gettava un’occhiata sulla toletta di lei, osservando:
— Come ti vesti male! Ti metti come una contadina…
— Ti pare? — rispondeva ella, fingendo di prender la cosa con indifferenza e continuando a guardarsi allo specchio.
— Le contadine fanno di questi sfoggi di colori! Ma non li vedi, i figurini? Non vedi come si vestono le altre? Ma già, poveretta, la colpa non è sua; chi doveva formarle il gusto, in quella bicocca dove è stata educata?
L’amor proprio di lei sanguinava, e in quel preciso momento che egli la denigrava, le tornavano alla memoria tutte le lodi che aveva raccolte in società, da Toledo, da Basile, da tutti: «Come siete elegante! Dopo aver visto voi, non si può guardare più nessuna! Siete la Dea dei nostri salotti!»
Più dei tradimenti, la ferivano i suoi sarcasmi; e adesso ella vedeva tutti i suoi difetti; la sua leggerezza, la sua ignoranza, la sua ridicola vanità. Se discendeva da una stirpe reale, era molto degenerato! Quella nobiltà del sangue non riscattava la volgarità dell’animo, il vuoto della mente! E si proponeva di non curare le sue derisioni; ma quando egli la pungeva più duramente, si voltava un poco verso di lui, chiedendo:
— Adesso sono una contadina, eh? E quando mi trovavi graziosa, elegante?
— Io? — esclamava Guglielmo, come cascando dalle nuvole.
— Tu, sì; precisamente tu… Quando mi dicesti, a Misilmeri, sulla terrazza: «Come sei bella, stamani!»
Allora egli alzava le spalle, con una smorfia di noncuranza.
— Ah, era questo? Sì, te lo dissi… perchè in quel momento avevi la bellezza dell’asino… la sai qual è, la bellezza dell’asino? Adesso vorrei sapere a che cosa mi servi? Non sei neppur buona a fare un figliuolo!
Era forse la vera disgrazia. Nei primi tempi, ella non si era molto lagnata della mancata maternità, parendole che fosse borghese divenire incinta appena maritata; adesso riponeva le sue speranze su questo; ma che colpa aveva ella? E quando capitava l’occasione, l’altro non mancava di vilipenderla.
— Già, prima di tutto, sei nana… Io domando come puoi prendere sul serio i complimenti che ti fanno, quando chi ti vede dice subito: «Oh, la nana!»
Ella avvampava tutta; era il difetto che meno poteva sentirsi rimproverare; e intanto Guglielmo continuava, freddamente:
— Poi, sei bionda fadasse
— Oh! oh! — protestava allora, vivacemente. — Io ho sempre sentito che il tipo classico della bellezza è biondo…
Egli scoppiava in una risata.
— Oh! Per questo, sì! Sei proprio classica, te l’assicuro!
— Io so che tutte m’invidiano i miei capelli d’oro…
— Di stoppa, vuoi dire. Tu poi devi metterti bene in testa una cosa: che le brune durano di più e che la tua, diciamo così, bellezza, finirà presto, non resisterà, che invecchierai rapidamente, che non ti si potrà più guardare…
Questo ella temeva, talvolta; ma perchè doveva egli dirle una cosa tanto dura?
— Allora, perchè non hai scelto una bruna?
— Io scegliere? Ma se io non volevo prendere moglie di nessuna maniera? Ah, no; non la vuoi sentire?
— Ma, scusa, — proruppe ella una volta — se non volevi prender moglie, chi t’obbligò? Chi ti pregò di domandarmi? M’hai domandata, sì o no? Chi t’obbligò?
— Ah, chi mi obbligò? — rispose egli con uno stridore nella voce cattiva. — E tutti gl’intrighi di tuo nonno, non li sai dunque? L’arte infernale con cui mi perseguitò, senza darmi requie, riducendomi al punto che non potevo uscir di casa, per paura di incontrare un amico, un compare, un mezzano, che mi parlasse di questo matrimonio?
Ella aveva portato le mani alle orecchie, per non udire; ed egli continuava a sfogare, buttandole in viso le male arti del vecchio, le civetterie di lei, le trame che tutti gli avevano ordite quando egli si era ostinato a dire di no, di no, di no.
— Come dovevo farvelo intendere? Non lo vedevi che ero uno trascinato per forza in quella casa, preso alla sprovvista, da una banda di briganti? Non lo sapevi, che c’era una che m’aspettava a Roma, che io andavo a trovarla, che le volevo bene, e che a te no, no e poi no? Ti dissi mai che ti volevo bene? Non mi piacevi! non mi piaci! E ti dicono intelligente! Non lo capivi dunque? Non capivi che mi seccavi, che io non ero fatto per questa vita, che se avessi voluto prender moglie non mi sarebbero mancate centomila donne, più belle, più ricche, più colte, più brillanti, più eleganti, più spiritose di te?
Adesso ella non sveniva più, non piangeva, non diceva nulla; lo guardava, impietrata, e a un tratto sentiva che quell’uomo era come morto per lei, come trasformato in un altro, che non le veniva nulla, a cui non doveva nulla, con cui non aveva, non avrebbe potuto mai più avere assolutamente nulla di comune… E nella tempesta che le si scatenava nell’anima, ella pensava al partito che le conveniva prendere: andar via da quella casa, subito, separarsi, tornarsene dal nonno: questo era per lei un dovere; non restare in quella casa dove l’accusavano di aver voluto penetrare per forza, contro la volontà del padrone! Sarebbe andata dalla zia Carlotta, senza portar via nulla, neppure le sue cose, neppure uno spillo… Uno scandalo, dei commenti maligni, il trionfo delle sue nemiche — ma che cosa importava quel che avrebbe detto la gente? O meglio, aspettare il prossimo vapore, andarsene a Milazzo con un pretesto qualunque; una malattia, un cambiamento d’aria… No! No! Quelle mura l’opprimevano, quel pavimento le scottava i piedi; voleva andar via immediatamente, a qualunque costo… E come sua zia sopravvenne, ella le corse incontro, l’afferrò per un braccio, trascinandola:
— Portami via! Ora… all’istante! Portami via…
— Teresa! Che cos’è stato? Tu mi fai paura!
— Voglio andar via, subito! Non voglio restar più qui… — e a frasi rotte, ansimante, le narrava quella scena, le brutalità che quell’uomo le aveva dette, tutto ciò che le aveva fatto soffrire, fin dal primo giorno del matrimonio, rivelando ogni cosa, dando finalmente uno sfogo alla piena dell’ambascia che la soffocava.
— Ebbene, cálmati… sì, hai ragione… ma cálmati. Teresa!
— No, voglio andar via: sul momento!
— Sì, andremo via, ma senti… ma aspetta…
Allora, scoppiò a piangere, chiamando la sua mamma, querelandosi alto di esser così maltrattata perchè non aveva nessuno che la difendesse. Come ebbe dato sfogo alle lacrime, udì la zia che continuava ad esortarla:
— Ma chi ci ha colpa? I matrimonii sono così, figlia mia… andartene via di casa? E poi? a ventidue anni? Che cosa farai? Questo è il destino di noi donne… credi tu che le altre siano più felici? Se sapessi! È vero, egli non voleva ammogliarsi… ma credevo che si fosse persuaso… adesso siete legati l’uno all’altro, per sempre… bisogna armarsi di pazienza, di coraggio. Io gli parlerò, non dubitare… Ti trascura? Cerca altre donne? Se sapessi quel che fanno certuni! Bisogna adattarsi, figliuola mia; armarsi di rassegnazione… Non sai che cosa fa la tua amica Emanuele?
— Che cosa?
— Si marita, con Ragalna: uno che ha vent’anni più di lei, che manca d’educazione, e non d’educazione soltanto… ma è ricco, è creditore di suo padre, e la buona ragazza si sacrifica… ne aveva delle fisime, lei? Ma ciascuno deve portar la sua croce! Tu hai almeno tante sodisfazioni, sei tanto invidiata…
— E che mi giova? — proruppe ancora. — Vorrei mangiare pane nero, ed esser voluta bene!
— Eh! Pane nero… ma servito in piatti d’argento, con un cameriere ritto dietro la tua seggiola, non è vero? Lo so anch’io! Credi a me, tu hai molti compensi… ne conosco tante altre che non ne hanno nessuno! Prega Dio che ti mandi dei figliuoli: allora sarà un’altra cosa… intanto, hai la tua casa, la tua situazione sociale, i tuoi piaceri… cosa vorresti fare? Sola, esposta a tutte le malignazioni? Non sai i pericoli che correresti? Tu parli così perchè non sai! La moglie deve stare col marito… rassegnazione ci vuole, pazienza….
E non aveva più smesso per un’ora. Ella rimaneva ad ascoltare, asciugandosi gli occhi, col respiro rotto dai singhiozzi, il viso in fiamme, negando certe cose, consentendo in altre, lasciandosi persuadere a poco a poco, tornando ad opporsi, tacendo finalmente quando sua zia, sentito che Duffredi rientrava, andò a parlare con lui. Così, restò un pezzo sola, cercando di indovinare quel che la zia poteva dire a suo marito, con la tentazione di andare ad origliare, rinunziandovi poi, sfiduciata, indifferente, stringendo amaramente le labbra, finchè i due rientrarono.
— Adesso — diceva la zia — bisogna che facciate la pace… che la collera finisca!
— Io non sono in collera… — esclamò lui, disinvoltamente, quasi ridendo.
— Fra marito e moglie! Persone come voialtri, ben educate! Fatte per intendersi! Guglielmo è stato un poco vivace; ti domanda scusa, non è vero? E tu gli perdoni… andiamo, dà un bacio a tua moglie…
Lo spinse verso di lei; Guglielmo la baciò in fronte; ella rimase fredda sotto quel bacio.
— Così, da bravi! E che diamine! Ci sono abbastanza seccature nella vita, per crearsene apposta! Divertitevi, il mondo è fatto per voi! Adesso arriva l’autunno; perchè non ve ne andate a Misilmeri?
— Se Teresa vuole…
Ella si strinse un poco nelle spalle:
— Per me….