VII.

— Leggi questo telegramma.
Ella afferrò il foglio che Guglielmo le tendeva, corse a la finestra e sollevata la veletta sulla fronte, lesse: «Marchese aggravato, tenuto consulto dottor Caldara, avute speranze, avvertovi onde prevenire notizie inesatte.»
Il sangue, dal cuore ov’era affluito, gonfiandolo, le si riversò nuovamente per tutte le vene. Però la sua vista si confuse; ella dovette appoggiarsi al muro.
— Una bella notizia! Bisognerà tornare a Palermo, giusto adesso… Sono cose che capitano soltanto a me!
Guglielmo passeggiava di su e di giù per la stanza; ella si passava una mano sulla fronte. Avrebbe voluto cadere in ginocchio, delle lacrime di gratitudine le gonfiavano le palpebre; diceva in cuor suo, guardando il cielo: «Signore! Signore!» Appena scorto il telegramma, un terrore l’aveva gelata, un brivido le aveva drizzati i capelli: il castigo fulmineo, la morte che piombava su qualcuno dei suoi… suo figlio! «Signore! Signore!» e un tremito la scuoteva ancora, le faceva battere i denti.
— Tu cos’hai? — disse a un tratto Guglielmo, fissandola.
— Io? Nulla… questa notizia… il freddo d’oggi…
Però il cuore le dava un balzo ad ogni parola, ad ogni rumore; un nodo le serrava la gola; e con una sete ardente aveva paura di chieder dell’acqua.
Suo marito, frattanto, riprendeva a discutere intorno alla malattia dello zio.
— Dev’esser grave, altrimenti il telegramma non si spiegherebbe… «Avute speranze» vuol dire che s’erano perdute; è chiaro?
— Sì, ma egli è forte… supererà anche questa…
Evitava di guardarlo, non si fidava di sostenere lo sguardo di lui; se almeno egli l’avesse maltrattata, se le avesse detto qualche cosa di urtante! Invece, le chiedeva:
— Perchè sei uscita a piedi, con questo freddo?
— Credevo di far meglio, di riscaldarmi col moto.
— E dove sei stata?
La terribile domanda scoppiava, imprevista. Tutto l’intimo essere suo si ribellava alla menzogna, protestava contro la slealtà, intanto che le labbra pronunziavano:
— Da Mistress Blackson, dalla Mazzarini…
— A proposito, che t’ha detto di suo marito?
— Nulla…
— Vuol dire che non lo sa ancora. Si parla delle sue dimissioni…
Ed aveva cominciato ad esporre la situazione parlamentare. Ella era impaziente di restar sola, di raccogliere i suoi pensieri, però un infiacchimento della volontà, un avvilimento di tutta sè stessa la teneva ancora lì.
— Ma come sei pallida! Ti senti male?
— Sì, un poco.
La voce di quell’uomo le faceva male; ogni sua parola era un rimprovero, un’accusa, una sferzata. Sola finalmente nella sua camera, ella tentava di rammentarsi tutti i motivi di dolore che egli le aveva dati, i propositi di vendetta che l’avevano animata contro di lui. Non aveva ella voluto questo? Non si era sentita nel dritto di prendere finalmente la sua rivincita? Però ella non aveva previsto il secreto rammarico che l’occupava. Oltre alla vergogna provata dinanzi a suo marito, oltre alla superstiziosa paura del castigo, un sentimento di stupore doloroso le s’imponeva. Ella si diceva: «Io sono caduta!» e ripeteva quella frase, meccanicamente, fino a smarrirne il senso. Qualche cosa d’irrevocabile s’era compito in lei! Ella non aveva provato questo, il giorno che si era svegliata donna. Sentiva che quest’altro uomo le aveva tolto assai di più che non il primo. Una specie di pentimento sorgeva in lei; ella si diceva che non avrebbe più ricominciato. Ma non era stato l’amore che l’aveva sospinta? E allora si domandava: «Sono dunque sicura di amarlo?» Com’era possibile che ella si facesse questa domanda? Non si era interrogata tante volte, il suo cuore non le aveva detto di vivere per quel sentimento? Però ella si diceva adesso: «È questo, l’amore?»
Nella fluttuazione a cui era in preda il suo spirito, tratto tratto ella si scuoteva, vagava per la camera senza uno scopo, s’avvicinava alla finestra, guardava giù nella via. Alla vista della folla, un sorriso cominciò a spuntarle sulle labbra: ella non invidiava più nessuno, conosceva adesso la passione! Poi la paura dello scandalo la turbava. Ma chi avrebbe potuto saper nulla? E non doveva ella sfidar tutto e tutti? Allora affermava sicuramente, alzando il capo: «Io l’amo!» E a poco a poco la compiacenza cresceva.
La Mazzarini aveva mandato un invito per l’Argentina; malgrado le notizie di Palermo, Guglielmo la indusse ad accettare. Il teatro era pieno d’una folla elegante; ella trovava un’altra espressione alla gente che conosceva. Non prestava ascolto allo spettacolo; si diceva: «Se sapessero!» e guardava in platea, temendo e sperando di vedervi il suo amante. Aveva un amante! Com’egli apparve, come la cercò con lo sguardo, ella sentì rimescolarsi; per darsi un contegno, si rivolse all’amica, chiedendole notizie della crisi ministeriale. Delle visite si alternavano nel palco, la consueta ammirazione rispettosa si leggeva in tutti gli sguardi. La sua paura era sciocca! Fra il secondo e il terz’atto si schiuse l’uscio di un palco vuoto di seconda fila, e la principessa di San Terenzio entrò, unicamente accompagnata dal marchese Romani, che la sbarazzava del mantello, parlandole all’orecchio. Allora ella vide, nelle poltrone, la Respigliani, seduta tranquillamente fra il marito e l’amante; Madame Duroy, sola, nel palco degli ufficiali; Marino Cortona col cannocchiale appuntato verso la Ferazzano, che lo salutava fingendo di passarsi una mano sulla nuca, per accomodarsi i capelli. L’esempio delle altre dissipava i suoi scrupoli: tutte facevano così! Ella avrebbe adesso voluto che Paolo fosse venuto a farle una visita.
Il domani, appena desta, ebbe la lettera di lui: un inno squillante: «Dal cielo che tu le schiudesti, ai tuoi piedi viene l’anima mia, ti dice la sua trepida meraviglia, la sua folle esultanza, l’eternità della sua gratitudine…» Però, quando fu arrivata in fondo, il foglio le cadde di mano. Riconosceva che era una lettera scritta bene, ma le restava un senso vago e ingiustificato di malcontento. Nel pomeriggio, andò al Pincio; egli era là ad aspettarla.
— Love, sweet love!
Si era messo a parlare con un fervore così intenso che, malgrado adoperasse una lingua straniera, ella gli disse, accennando al cocchiere:
— Speak low, I pray you…
Appoggiato un braccio allo sportello, guardandola negli occhi, egli lasciava traboccare in parole rapide e sommesse la gioia di cui il suo cuore era ricolmo, attestava l’amor suo dinanzi al cielo.
— E sarà sempre così?
— Che cosa bisogna fare per dimostrarlo?
Ella abbassò un poco le ciglia, come per sottrarsi ad una incresciosa visione; poi disse:
— Siete preparato a una triste notizia?
— Qual’è?
— Probabilmente dovrò partire.
— Voi? È impossibile!
— Purtroppo…
Egli impallidì, intanto che udiva le notizie di Palermo.
— Vi seguirò!
— Ah, non lo dite!
— Vi seguirò! Credete dunque che io possa rinunziare a voi, ora? Verrò in capo al mondo, a costo di tutto…
In quel momento, ella lo trovava più bello. Pensava: «Come mi ama!» intanto che cercava di persuaderlo, di fargli intendere ragione.
— E i pericoli a cui mi esponete? Volete perdermi per sempre? D’altronde, nulla è ancora deciso; forse non ci sarà bisogno di andare laggiù!
La fisonomia di lui si schiariva; abbassata ancora la voce, chiese:
— Quando verrete?
Dinanzi ai suoi sguardi divoratori, ella chinò i proprii. Si mise a tirare lentamente un guanto sul braccio, mormorando:
— No… non mi chiedete questo.
— Come? Volete dunque che io faccia una pazzia?
— Tacete… abbiate pietà di me!
E gli confessò i suoi terrori, la coscienza della colpa, il timore della punizione.
— Voi non mi amate!
— Infatti, non ve ne ho dato la prova!
— Perdono… perdono! Avete ragione, sempre!
Una grande sodisfazione la penetrava, all’idea di averlo ridotto a non insistere; l’impero che esercitava su di lui l’assicurava dell’avvenire.
— Ma allora, perchè siete così bella! Perchè m’avete inebriato l’anima, i sensi, tutte le potenze della vita?
Come una nuova vampa gli passava negli occhi, ella smise di parlare inglese.
— Conosce chi sono quelle signore, laggiù in fondo?
Voltatosi a guardare, egli rispose:
— Non so… non le ravviso… — e a un tratto, tornando a fissarla, esclamò: — Sentite, volete sapere che cosa faccio adesso?
— Che cosa?
— Apro lo sportello, salgo accanto a voi, e dinanzi a questa gente, tranquillamente, vi prendo la testa fra le mani, vi metto le dita fra i capelli, e vi bevo a baci sulla bocca, sul collo, sugli occhi…
— No… no… per pietà!
Ella si tirava indietro, spaurita, credendo che dicesse sul serio, e lo scongiurava sottovoce di esser paziente e prudente, di aver fiducia in lei. Poi esclamò con disinvoltura, ordinato al cocchiere di avanzare:
— Arrivederla dunque; a ben presto!
Era contenta di sè, non aveva nulla perduto se restava arbitra di quell’uomo, di guidare gli eventi, di concedersi o di rifiutarsi. Egli tornava alla carica, con lettere ardenti, implorando, minacciando. Dinanzi alla gente, al ballo, si chinava su di lei, a rammentarle quell’ora di cielo, a dirle: «Ora vi porto via!» Ella implorava cogli occhi, atterrita; l’altro ripeteva: «E credete possibile che io rinunzii a voi, adesso?» finchè, vinta, ella si lasciava strappare una promessa, ma chiedendogli di rimettersi a lei stessa pel compimento.
Le notizie di Palermo erano migliori, e come il carnevale si avanzava, ella andava da per tutto, trovando un nuovo sapore, in quelle condizioni, alla vita mondana. Il giorno che lesse l’invito pel ballo del Quirinale, il sangue le die’ un tuffo; e come Paolo riprendeva con nuovo ardore a esigere il mantenimento della promessa, ella tornò da lui, due giorni prima della festa.
Un pensiero d’amore riscattava la mediocrità di quelle due stanze quasi vuote. Disseminati per terra, sparsi sui tavoli, sulle seggiole, raccolti a piccoli mazzi nelle coppe e nei calici, dei fiori rallegravano la vista, esalavano delicati profumi. Le tendine di cretonne, accostate, impedivano che degli sguardi indiscreti penetrassero, e lasciavano filtrare una mezza luce propizia al turbamento dell’ora. Ella si guardava intorno, muta, tendendo l’orecchio, credendo di udire il rumore di un passo, facendogli segno di parlar sottovoce, chiedendogli che gente abitasse vicino.
— Sei sicuro che non mi conoscano?
— Ma sì… e poi, di che temi? Non sono qua io? Chi ti strappa dalle mie braccia?
Ella si lasciò stringere al suo petto; poi tentò difendersi, ma restò senza forza dinanzi alle soave blandizie delle carezze. A un tratto si nascose il viso dietro un braccio, soffocando un sospiro di vergogna e di rimorso. Egli la consolava, l’obbligava con dolce violenza a voltarsi verso di lui, a guardarlo in faccia.
— Negli occhi… leggimi negli occhi! Non credi all’amor mio?
Allora, scuotendo il capo, buttando indietro i capelli, ella incrociava le mani sulla spalla di lui, mormorando:
— Sì, ti credo… Sarei qui, se non ti credessi?
— È vero!
— Ma tu non sai che cosa mi costi… o Paolo!
— Amore!
Egli l’accarezzava, in silenzio; ed ella si lasciava fare, inerte, lievemente contrariata nella sua aspettazione di eloquenti conforti e di proteste ferventi, sentendo che malgrado la suprema intimità si conoscevano ancora poco per fare un’anima sola.
— Lunedì sera, al Quirinale?
L’idea di quel convegno secreto in mezzo agli splendori della Corte, delle specie di connivenza che a loro insaputa le avrebbero prestata quelle grandi dame da lei un tempo invidiate, la colmava di sodisfazione. Tornando a casa, con un mazzo di quei fiori che egli le aveva composto, non ritrovava più la paura dell’altra volta; e intanto che, vestita dell’abito da ballo, la sarta le girava intorno, raccogliendo delle pieghe, appuntando dei merletti, ella si guardava allo specchio, trovandosi un’altra fisonomia, un’aria più femme, pensando che la vita cominciava soltanto adesso per lei.
Ella era di nuovo nella reggia! Una chiarezza abbagliante, una diffusa luminosità che faceva parere più vasti e più alti i saloni, e quasi bagnava le morbide stoffe, le carni vellutate, le chiome lucenti. Uno sfolgorìo di gemme, un palpitar di ventagli, lo splendore delle uniformi tempestate di croci, la sfilata dei diplomatici, dei generali, dei cerimonieri, la scomposizione e la ricomposizione incessante di un quadro magnifico dove i toni più caldi e più ricchi eran profusi….
Grazie alla Mazzarini, ella aveva potuto trovar posto vicino all’ingresso dei sovrani; ed ammirava il suo carnet dalle cifre reali, esaminava le tolette e le bellezze, sussultava alle battute della fanfara, all’entrata del re e della regina; contemplava la quadriglia d’onore scandalizzata dagli sbagli che commetteva un ministro e che facevano sorridere la sovrana; e nella esaltazione che le luci, i profumi, la musica, la visione di tutte le ricchezze le procurava, ella quasi non vide Arconti che veniva a salutarla.
L’abito nero di lui le pareva un po’ troppo semplice. V’era un addetto militare russo, un capitano, giovane, alto, biondo, dalla cambrure quasi muliebre, dall’uniforme splendente, sul quale i suoi sguardi tornavano spesso. Però, come ella conosceva poca gente, come non era molto notata, un sottile scontento le guadagnava l’anima; ella avrebbe voluto esser moglie di un ministro o d’un ambasciatore, aver diritto ai primi posti, attirare l’attenzione di tutti. Nella specie di umiliazione che la sua fantasia le creava, si sentiva ora prendere da una tenerezza dinanzi a Paolo, il cui sguardo innamorato cercava di lei, non vedeva che lei.
La regina cominciava il giro delle sale; ella invidiava le signore alle quali Sua Maestà accordava l’onore di rivolgere la parola. Pensava: «Si ricorderà di me? Mi parlerà?» e la seguiva cogli occhi. Ma la sovrana s’era seduta accanto alla baronessa Tchernicheff, e la circolazione si ristabiliva. Sfilavano delle coppie superbe, intorno alle quali tutti facevano ala: delle principesse di sangue reale, delle grandi dame straniere a braccio di diplomatici, di ufficiali, di personaggi magnifici e superbi che avevano l’aria di non guardare nessuno. E il principe di Lucrino apparve ad un tratto, dando il braccio alla marchesa del Nepal, la Inglese che faceva girar la testa a tutta Roma. Si chinava un poco su di lei, la faceva ridere d’un riso che scopriva fin sopra alle gengive i denti lunghi e abbaglianti. Che cosa le diceva? Forse era en bonne fortune.
Più tardi, nel salone degli Specchi, le si avvicinò a domandarle l’onore di una danza. Ella si aspettava dei complimenti, una dichiarazione larvata. Invece il principe parlava della festa, trovando che questi del Quirinale erano dei balli borghesi; egli sapeva un incidente occorso nella quadriglia d’onore, la bévue dell’ambasciatore turco, un motto della sovrana. Quantunque fosse in abito nero, spiccava tra la folla per l’eleganza del suo portamento, per la distinzione del tratto; si vedeva che egli era come in casa sua; Arconti le pareva un poco spostato.
Le battute della fanfara reale annunziarono il ritiro dei sovrani: dei generali facevano aprire la folla, e il re passava dando il braccio alla regina. L’animazione cresceva, adesso cominciava quell’assalto al buffet di cui ella aveva tanto sentito parlare. Vi erano dei tipi curiosi: un vecchio dai capelli inverosimilmente neri, con due grossi smeraldi alla camicia, delle decorazioni complicate, un taccuino in mano.
— Chi è? — chiese ella.
Il principe sorrise.
— Ah! ah! Non lo conosce? Il conte Ferdinando Spirelli-Gloria di Calcaterra e Argenta… un pezzo grosso! Un reporter!
Passava in quel momento Arconti insieme con un vecchio signore dalla commenda al collo.
— Sono gl’intrusi del giornalismo e della politica — finì di dire il principe.
Ella credette che l’allusione fosse rivolta ad Arconti; che, sapendo di avere in lui un rivale, il principe glie ne avesse voluto dimostrare l’inferiorità. Allora ella protestava tra di sè: non era vero che egli fosse un intruso! Anche non essendo un principe romano, la sua nascita gli dava il diritto di entrare nella reggia cogli altri. Era vero, invece, che in quell’ambiente non brillava molto, che quella luce non gli era troppo favorevole… Ma perchè giudicava ella l’uomo che amava?
Ballando con lui, ella rispondeva alla pressione della sua mano, abbassava le ciglia alle parole turbatrici che egli le mormorava. Lucrino, da lontano, non cessava di guardarla; le piaceva di farne un geloso. La sua ebbrezza andava crescendo coll’inoltrarsi della notte; accanto alla Mazzarini, ella si vedeva ora molto circondata, conosceva nuova gente; e al ricordo della mediocrità in cui era prima vissuta, un senso di stupore l’invadeva. A un tratto ella si rivedeva con la fantasia nella casa di via Leonina; allora dei sorrisi le increspavano le labbra.
Le durava ancora nell’anima il fermento prodotto da quelle impressioni, quando, il domani, arrivò da Palermo un telegramma inquietante. Suo marito, deciso di partire subito, diè l’ordine di preparare i bauli. Nella confusione in cui era messa la casa, ella si chiuse un momento in camera, per raccogliere le proprie idee, per iscrivere a Paolo. «La contrarietà che io temevo» gli scrisse «è avvenuta; sono costretta a seguire mio marito in Sicilia, debbo lasciarti. Spero che sarà per poco; fàtti coraggio e non toglierne a me…» Invece, ella non sapeva perchè l’idea di quella separazione le desse una specie di compiacenza. Era pel sentimento della propria libertà che avrebbe riacquistata? O per la prova a cui metteva l’amore di Paolo?
Egli rispose: «Bisogna assolutamente che io ti veda; comprendi? Se non mi assicuri che domani verrai anche per un istante solo, mi presenterò a casa tua.» Impaurita da quella minaccia, promise. E il domani, abbreviata la sua visita alla Mazzarini, corse in via Leonina. L’uscio le si schiuse dinanzi: egli era lì che l’afferrava per le mani, che le piantava gli occhi in viso.
— Tu parti? Tu mi lasci? Ora?
— È necessario!
— E me lo dici così? Io non conosco che una sola cosa necessaria al mondo, ed è l’amor nostro!
Parlava concitatamente, martoriandole il polso, trascinandola verso la luce.
— Ma che colpa ci ho io? È un mio capriccio, forse? Credi che io vada a divertirmi? Che cosa posso farci?
Egli disse, con voce sorda:
— Verrò anch’io.
— No, Paolo, non lo ripetere! Non è possibile… A che scopo verresti? Credi che laggiù potrei fare quel che faccio qui? Tutti mi conoscono, non potrei dare un passo senza essere riconosciuta, senza avere tutta Palermo alle calcagna! Tu non potresti nemmeno venire da me due volte di seguito… Vedi dunque? Perchè?
— Perchè? Perchè?
Egli la stringeva, la soffocava, cogli occhi rossi, la voce selvaggia:
— Perchè ho bisogno di te! Perchè non possa vivere senza di te! Perchè ti voglio portar via… — Poi, sconvoltisi i capelli, scuotendo il capo, prendeva a supplicare: — No… non mi lasciare! Tu non sai che dolore! O consenti che venga anch’io, senza vederti, che cosa importa? Ma respirare l’aria che tu respiri; poter dire: ella è qui, forse la incontrerò, forse vedrò, da lontano, il colore della sua veste, il gesto del suo saluto!
— Povero amore! Povero amore!
Accarezzandogli lievemente i capelli, ella socchiudeva un poco gli occhi, inebbriata, dicendosi: «Come mi ama! Come mi ama! Non credevo così…»
— Tu soffri, povero amore… — mormorava — Soffro anch’io, sai! Coraggio! Tornerò presto, te lo giuro! più presto che tu non creda! Mi scriverai tutti i giorni, ti scriverò anch’io; d’altronde, tu non verrai laggiù, con la commissione d’inchiesta?
— In autunno, fra un secolo!
— Vedrai che il tempo passerà… pensa alla gioia del rivederci… Suvvia, coraggio!
— Oh, se tu sapessi!
Allora, mettendoglisi più amorosamente vicino, obbligandolo a guardarla, ella chiedeva:
— È più forte di te, non è vero? Dimmi che cosa provi, aprimi tutto l’animo tuo; sarà una consolazione, vedrai…
Egli disse, piano:
— Mi pare che il mondo perisca, che la luce si spenga per sempre…
— Oh, sì; è così! E dimmi ancora, perchè… perchè io sono, che cosa?
— Il mio respiro, la vita dell’anima mia…
Le mani si cercavano, le labbra si univano, e nel languore stanco in cui la sua esaltazione finiva, egli ascoltava con maggior tolleranza la voce della ragione, le persuasioni con le quali ella lo confortava, le istruzioni che gli dava sul modo con cui avrebbero corrisposto.
— Ogni sera, quando tornerai a casa, mi narrerai la tua giornata; io ti dirò tutta la mia vita, ci parrà così di esser vicini.
— Dammi almeno il tuo ritratto.
Egli fece quella domanda con un tono di voce così supplice, guardandola con tanta passione, che ella fu punta da un vivo dolore all’idea di non poter contentare il desiderio di lui.
— Non ne ho nessuno! E non c’è il tempo di farne… ma te lo manderò da Palermo, appena arrivata…
— Dammi almeno una ciocca dei tuoi capelli.
— Tutti!
Presa una forbicina sulla toletta, egli le si avvicinò. Restava fermo a guardarla, cogli occhi luccicanti. Alzò le mani; ma come gli tremavan forte, finì per dire:
— Guarda, non posso…
— Lascia a me.
Recise un ricciolo della nuca; egli fece per prenderlo, ma ella disse:
— Non ancora, aspetta.
Il suo cappellino nero era guarnito d’una ghirlanda di fiori; ne colse due e li intrecciò coi capelli. Egli si chinava a baciarle la punta delle dita intente a quel lavoro. Allora, come l’istante della separazione si avvicinava, persuasa che toccava a lei di esser forte, ella s’affrettò, lo scongiurò rapidamente, sottovoce, di aver fede in lei, e si sottrasse ai suoi abbracci disperati.
Un sentimento di meraviglia la occupava, partendo: non avrebbe creduto a tanto dolore da parte di lui. Nel mondo in cui ella entrava, i legami si stringevano, si rompevano, si riprendevano, secondo le esigenze degli avvenimenti. Se egli soffriva tanto per una separazione temporanea, che cosa avrebbe fatto per una rottura? Però l’idea della passione ispiratagli la colmava d’orgoglio sodisfatto. Ella si considerava come un’eccezione; si diceva: «Io sono una di quelle donne fatali a cui nulla resiste!…» Il pensiero di quell’uomo sospirante la sua memoria, del desiderio cocente di cui ell’era oggetto, l’accompagnava per via, le dava un secreto compiacimento, perchè ella trovava giusto che quell’uomo soffrisse un poco, che pagasse col dolore la felicità ottenuta.