Non era dunque un sogno! La vita aveva ancora sorrisi, l’amore aveva ancora promesse, la felicità esisteva! Ma nel momento che era cominciata, ella aveva detto ad Enrico:
— Senti, sei tu che mi togli alla solitudine a cui m’ero rassegnata! Se credi ora di potermi lasciare! Tu non mi sfuggirai più, comprendi? Io ti strapperò il cuore con queste mani, se tu tenterai di sfuggirmi!
— Sarà difficile. Non me l’hai già tolto?
Non era un sogno; però ella aveva un continuo, insaziato bisogno di nuove conferme, tanto era incredibile.
— Ed è vero? Tu mi vuoi tanto bene? Hai pianto per me?
— Credevo di morire!
— Ed è vero? Oh, perdonami, non è diffidenza… è meraviglia, è stupore… se tu sapessi! È come se da un carcere eterno, buio e freddo, io fossi passata all’aria libera e pura. Grazie, grazie, grazie! Come ti son grata! Come ti amo!
Tentava di metterglisi in ginocchio dinanzi; egli la rialzava, protestando, affermando che era sua la meraviglia, la gratitudine, ripetendole che aveva pensato sempre a lei, che l’aveva amata sempre, che la speranza di incontrarla qualche volta gli aveva sempre sorriso.
Ella scrollava il capo, indulgentemente.
— Sarebbe troppo bello! Questo capisco che non è possibile… allora, perchè non cercasti mai di me?
— Perchè… perchè tu eri d’altri…
Chinati gli occhi, in atto di riconoscere la propria colpa, ella taceva un poco; poi gli gettava le braccia al collo, mormorando:
— Ora bisogna che tu mi ascolti… che io ti narri la storia della mia vita, che ti faccia una confessione completa!
E gli narrava tutto, tranne l’avventura del principe, pensando che a giudizio degli uomini quella sua vendetta le faceva torto. Per legittimare la caduta con Arconti, ella attestava la prepotenza della passione, diceva di lui:
— Pochi uomini sono stati amati altrettanto…
Poi, temendo che questo ferisse l’amor proprio di Enrico, si correggeva:
— Ma non come te! L’amai, è vero, sulle prime, quando credetti al suo sentimento… ma la benda mi cadde subito dagli occhi; egli non amava che sè stesso! Non credeva a niente, era impastato di scetticismo, inbevuto di vanità! Non come te; tu sei buono, gentile, sei sempre quello che m’innamorasti fanciulla! Anch’io ho pensato a te, quand’eri lontano; ma le vicende della vita… le fatalità del destino….
Però conveniva di essere stata molto sciocca a resistergli tanto a lungo, a fuggirlo, a rischiare di perdere quella felicità, la prima, l’unica che aveva mai provata!
— O dunque? — chiedeva egli.
— Ah! Tu non sai di quale amarezza fui abbeverata! Come disperavo di tutto!
E gli narrava l’immenso disinganno sofferto, il naufragio della sua fede, la morte del cuore. Come credere in qualche cosa, quando l’uomo pel quale ella aveva tutto sacrificato si era ridotto a deriderla, a maltrattarla? Ella esagerava i torti di Arconti, col bisogno di sentirsi dare ragione, di vedersi compianta; e come le esclamazioni di Enrico la sollevavano, ella soggiungeva:
— Vedi? avevo ragione di dubitare? Ho ragione se talvolta voglio sentirti ripetere che mi ami, che non mi abbandonerai, che non farai come gli altri?
Ma, nel ripetergli queste domande, ella s’interrompeva dicendo, con un sorriso, per farsi tollerare:
— Come sono, noiosa? Non mi dar retta!
Egli non aveva l’eloquenza dell’altro, non sapeva trovare di quelle espressioni poetiche che l’avevano un tempo sedotta; non scriveva di quelle lettere che l’avevano ubbriacata; ma ella pensava che fosse meglio così. Aveva troppo provato la falsità vuota di quella rettorica per apprezzarla ancora; la prosa umile ma schietta del linguaggio ordinario non era la più conveniente espressione della verità? Senza declamazioni, egli le provava d’amarla, faceva tutto ciò che ella voleva, non le rimproverava mai il suo passato. Ella però temeva che il pensiero dell’altro dovesse funestarlo; per questo, gli propose di andar via da Roma.
— Qui tu sei esposto ad incontrarlo ogni giorno; capisco che non deve farti piacere! Per quanto grande possa essere la tua fiducia in me, egli ti deve dar ombra…
— Io non t’ho dato motivo di sospettarlo!
— Lo so! Lo so! E te ne ringrazio… ma se tu sei pieno di fede, io ho sempre paura. Credi a me, sarà meglio andar via…
Però egli non volle. In fondo, l’idea di buttar giù la sua casa, di trovarsi fra gente sconosciuta, non le sorrideva molto; ella vi si rassegnava come ad un vero sacrifizio, ad una prova d’amore, e dinanzi al rifiuto di Enrico, si sentì vinta da un nuovo impeto di gratitudine.
— Come sei generoso! Se sapessi come questa tua fiducia mi fa bene, come ingigantisce la mia devozione… tu mi hai redenta! I miei errori, tutte le mie tristezze sono cancellate; tu mi ridai i miei vent’anni, torno ad essere per opera tua come quando t’amai la prima volta… e una risurrezione di tutto l’essere mio…
E come Enrico protestava, ella affermava, ripetutamente:
— Sì, sì, redenta! Senza l’amor tuo, chissà che cosa sarebbe accaduto di me!
Ed aveva fatta una scoperta:
— Io ti debbo tutto, tu mi hai tratto da un abisso di miseria, hai impedito che finissi di perdermi; ed io non ho fatto nulla per te…
— Proprio? Nulla?
— Nulla! Ti ho data tutta me stessa… gran che! Valgo così poco… e poi, se ti amavo! Ma di noi due, chi è in debito verso l’altro son io! Non dir di no; è così, lo so! E vedi, tu puoi farmi quel che ti piace, maltrattarmi, tradirmi; io non mi lagnerò, accetterò tutto da te…
Forse ella commetteva un errore dicendogli questo; ma era così fatta, da mettersi tutta nei suoi affetti, da non calcolare mai. Del resto, egli non le dava motivo di pentirsene. Quella vita che la serietà e la gelosia di Arconti non le avevano consentito, adesso ella era libera di farla. Enrico rispondeva al tipo dell’uomo di mondo che ella aveva vagheggiato: s’era fatto ammettere al Circolo delle Caccie, amava la società, andava a cavallo, giuocava, fin troppo, ma ella vi avrebbe posto riparo. Le presentava i suoi amici, non essendo geloso, o piuttosto sapendo di non averne motivo; l’accompagnava dovunque, era sempre al suo fianco premuroso ed allegro. Ella dava dei pranzi, delle cene; invitava dei giovanotti scapoli, artisti in voga, giornalisti che parlavano delle sue serate, della grazia con cui ella faceva gli onori di casa.
Il principe di Lucrino era fra gli assidui. Nel rivederlo la prima volta, ella s’era sentita avvampare; a poco a poco il suo disagio dinanzi a lui scemò. Come aveva cominciato ad alludere alla sua breve fortuna, ella tagliò corto:
— Se tiene a venire in casa mia, non parli di questo.
Però il principe aveva di tanto in tanto delle pose romantiche; quando pronunziava certe parole: il passato, le memorie, le sottolineava, guardandola fiso. Per fortuna, Enrico non sapeva nulla. Una sera le disse:
— Sai chi ho conosciuto? Arconti.
Ella chinò un momento gli occhi; poi gli chiese, gettandogli le braccia al collo:
— Che cos’hai provato?
— Niente.
— No, non fingere! Dimmi la verità! Dimmi che hai sofferto! Non me ne avrò a male; è una prova d’amore!
— Ma perchè vuoi che soffrissi? Non lo vidi mai con te, non fu per lui che ti perdetti…
— Perchè non mi hai portata via? Dovrò incontrarlo anch’io…
Ma ella sentiva risorgere la secreta curiosità di ritrovarsi in presenza di lui: l’ignorata emozione che doveva occuparla nel rivedere da estraneo l’uomo col quale era stata legata dalla suprema intimità, esercitava una irrestibile attrattiva sulla sua imaginazione. Improvvisamente, un giorno, a Piazza Colonna, lo vide; ella sentì come se il terreno le mancasse sotto i piedi, come se le gambe le si piegassero. Ravvisandola tardi, egli si toccò il cappello quando già stava per passar oltre; ed ella continuava a procedere a caso, dimenticando la sua via, col cuore tumultuante, la mente inondata da un mare di ricordi… Sapeva egli la sua relazione con Sartana? Ne provava gelosia o dispetto? Avrebbe voluto mostrarglisi a fianco di Enrico, dimostrargli che altri l’amava meglio di lui, la faceva più felice di lui… Poi s’indispettiva contro sè stessa per quei pensieri che gli accordava; ma tornava sempre ad averlo presente, e adesso, come se la gente si fosse data un’intesa, ella non udiva parlare se non di lui; dei suoi successi politici, del bene che voleva a sua moglie, della passione che questa gli portava, della vita nascosta, tutta intima, nella quale essi custodivano la loro felicità. Una curiosità più acre di vedere questa donna la pungeva assiduamente; un giorno la scorse finalmente, appesa al braccio di lui, col capo lievemente reclinato, tutta intenta a udire qualche cosa che egli le mormorava. Un tipo superbo di bellezza bruna, agile e forte: ella ne conveniva; e qualche cosa come un rancore impotente, come una gelosia umiliata nasceva in lei, insieme con una sorda disperazione, perchè, in fondo all’anima, inconfessata fin lì, ella aveva nutrita l’idea di rivedere quell’uomo, di provare ancora su di lui il suo potere, e perchè adesso comprendeva che questo era impossibile! Ma la sua fantasia ammalata la gettava in pieno dramma: ella si vedeva apparire come lo spettro del rimorso in mezzo a quei due, imaginava le supplicazioni della donna, pensava al risveglio della passione nell’uomo, lo scacciava lungi da sè, sorda, inflessibile, spietata… Sorrideva compassionevolmente di sè stessa: non avrebbe mai dunque messo senno? non era ancora ammaestrata abbastanza? Però, tutt’ad un tratto, ella si sentiva scontenta del presente; la nuova passione le pareva meschina in confronto dell’altra, Enrico di tanto inferiore ad Arconti. Non le erano venuti da costui tutti i dolori? Che cosa voleva dunque dire quel nuovo, più acerbo rimpianto di un passato aborrito?
Per soffocarlo, ella lavorava a rappresentarsi il danno che quell’uomo le aveva fatto; ma i ricordi amari non avevano presa, la sua imaginazione fuorviava, le metteva invece dinanzi tutte le dolcezze d’una passione che era stata la poesia della sua vita. Il viaggio a Parigi ed a Londra! Le sedute della Camera dov’ella riascoltava le parole che aveva udite per la prima! Le lunghe sere d’inverno passate a discutere intorno a ciò che v’era di più alto nella vita del pensiero! L’inaugurazione del Nido ancora tutto pieno di ricordi di lui… Aveva egli potuto dimenticar queste cose? Ella stessa, un tempo, le aveva dimenticate! Non s’era stancata di quell’uomo? Non aveva trovato che egli non la contentava, che non rispondeva al tipo da lei ideato? E adesso che tutto era finito, si sorprendeva a rimpiangerlo!
L’amore d’Enrico non dava un pascolo al suo bisogno d’arcane esultanze. Egli era buono, pieno di cure; ma non aveva l’intelletto, la parola dell’altro. Ora ella s’accorgeva d’essersi ingannata nel credere che l’amor puro della giovinezza potesse rinascere, in lei che era passata per tante prove, nell’uomo che aveva tanto vissuto. Egli le narrava le relazioni avute durante il matrimonio e dopo la separazione: ne parlava come di capricci, di legami fugaci, di avventure di corta durata, con leggerezza e con una evidente disistima delle donne. Affermava che adesso era un’altra cosa; ma dicendo di credergli, ella sentiva crescere invece il proprio scetticismo. Non solamente quell’uomo le pareva leggiero, ma la stessa fede nell’amore tornava a scuotersi, ed ella non credeva neppure a sè stessa… Tutte le parole che diceva a costui, le aveva dette all’altro: «Non ho che te… Tu m’hai rivelata la vita… Noi ci ameremo eternamente…» Come crederle più?
Poi si faceva una ragione: queste cose la stupivano perchè ella non aveva ancora esperienza, ma il mondo era stato sempre così! A guardarsi intorno, non trovava una moltitudine di creature nella sua stessa condizione? Bisognava dunque accettarla rassegnatamente! E si riattaccava ad Enrico, gli dava tutta sè stessa, voleva esaltarlo e denigrare quell’altro. Era stata presa dalla tentazione di bruciare tutte le lettere antiche; ma, avendone letta una, la prima capitata nel fascio, non potè, non si fidò neppure di continuar la lettura, sentendosi afferrata da quel passato… Però, all’idea che Arconti potesse sospettare questo, pensare che ella lo rimpiangeva, il suo sentimento diventava una specie di livore furente. Voleva scrivergli di restituirle le sue proprie lettere, i suoi ritratti, per fargli intendere che s’ingannava, se pensava questo… E un giorno un fattorino lasciò da lei un pacco; ella riconobbe nell’indirizzo il carattere di Arconti. Ruppe i suggelli con le mani, tolse febbrilmente l’involto: v’erano tutte le sue lettere e tutti i suoi ritratti che egli le restituiva con una semplice carta da visita. Allora, ella si sentì così miserabile, che si mise a piangere.
Più che al tempo dell’abbandono patito, ella comprendeva che adesso tutto era finito tra loro, radicalmente, per sempre. Fin quando quelle lettere erano rimaste in potere di lui, aveva potuto supporre che egli se la vedesse accanto in idea, che rammentasse almeno il posto da lei preso nella sua vita; adesso egli le mandava indietro come cose inutili e vili, respingeva la sua stessa memoria! E ciò che vinceva il suo dolore, era lo sbalordimento prodotto dalle contradizioni per le quali passava, dalla rivelazione dello spaventevole abisso che era l’anima umana… E sapendo bene che ella non l’avrebbe mai fatto, pensava adesso di andarlo a cercare, di dirgli: «Non mi riconosci più? Non valgo dunque più nulla? Guardami: hai proprio tutto dimenticato?»
La sera, Enrico vide il biglietto che ella non aveva pensato a nascondere; le chiese:
— È venuto?
— No. M’ha restituite le mie lettere.
— Le chiedesti tu?
— Sì; mi seccava lasciargliele.
Egli le prese una mano, la guardò negli occhi.
— Che impressione hai provata?
— Nessuna.
Nello sguardo dell’uomo parve a lei di leggere un timido rimprovero, come se egli avesse compreso il principio di molestia che le dettava quella nuda risposta.
— Perchè non vuoi dirmelo?
— Ma te l’ho detto… Non ho provato nulla.
Egli aggrottò un poco le ciglia, scosse appena il capo; poi disse, molto piano:
— È lo stesso… lo so… egli t’amava meglio di me.
V’era, per la prima volta, un’umiltà così triste e rassegnata nell’accento di lui, che ella sentì una pena acutissima morderle il cuore. Gli s’afferrò a un tratto alle spalle, lo costrinse a guardarla.
— Perchè dici questo? Enrico? Rispondi!
Egli rispose, sempre molto piano:
— Perchè… perchè io non so dirti le cose che ti diceva lui, perchè egli ti sapeva comprendere… perchè io valgo meno…
Ella proruppe:
— Oh! oh! Amore! Amor mio! Povero Amore!
Si strinse, s’avvinghiò a lui, comprendendo il male immeritato che gli aveva fatto, il pericolo di perderlo a cui s’esponeva da quella stolta che era.
— Ma tu non sai quel che mi fece soffrire? E tu credi che l’amore si pesi, che le parole lo misurino? Ognuno ama come sa… anch’io non ti so dire che l’amor tuo è tutta la mia vita… guardami! Il tuo sguardo è sincero, le sue parole mentivano…
Ella stessa mentiva! Era vero! Dell’uomo che adesso aveva a fianco vedeva i difetti, e di quello che aveva perduto apprezzava le qualità! Ma se Arconti non le aveva procurato i trionfi mondani, e se Enrico non appagava il suo bisogno di sodisfazioni intellettuali, non v’erano altri capaci di darle tutto ad un tempo? Quando udiva parlare delle passioni altrui, supponeva che fossero come quelle da lei sognate: straordinarie, eccelse, immortali! Forse era un inganno, perchè due creature non avrebbero potuto conoscersi intimamente senza scoprirsi dei difetti, senza andare incontro a dei malintesi… l’amore ideale era dunque quello che si salvava dalle cadute, che non si confessava neppure, che si nutriva secretamente ad insaputa dell’oggetto amato? Ma ella ne aveva provato uno così, per Morani… e adesso s’accorgeva che questo non aveva lasciato nessuna traccia nel suo cuore e nel suo pensiero, che lo stesso ricordo se n’era disperso, come se non fosse sorto mai! Ve n’era dunque qualcuno a cui si potesse credere? Quello d’Enrico non sarebbe morto anch’esso — se pure viveva?
Per stordirsi, s’ingolfava sempre più nella vita mondana. La toletta, le conversazioni, i balli, i teatri la distraevano; in società ella ritrovava la sicurezza di valer molto ancora. A poco a poco, il ricordo di Arconti, che ella non incontrava più, si tornò a cancellare. Un periodo di calma cominciò, durante il quale ella fece però una dolorosa scoperta: ingrassava. Le sue vesti non le andavano più, il busto doveva essere continuamente slargato… Ella avrebbe tutto preferito a questo disastro, alla deformazione del suo corpo, al sintomo prosaico e volgare d’un vegetamento materiale. A parecchi per volta, metteva in opera tutti gli espedienti adatti a combattere quell’indecente grassezza: dei giorni andava in giro dalla mattina alla sera, non beveva acqua, non toccava pane, si privava di dolci e di gelati, si saturava d’aceto e di farmaci: ma non riusciva a nulla. L’idea di perdere la ligne la disperava: si stringeva i fianchi fino alla soffocazione, evitava di guardarsi allo specchio che le rivelava quella mostruosità. E un giorno che vi si mirò da presso, contro la luce, ne scoprì un’altra: sulle tempie, sulla fronte, aveva dei fili d’argento… Cominciò per strapparli, certa che non avrebbe adoperata una tintura; però, col tempo, come ricrescevano moltiplicandosi, discusse tra sè la convenienza di tingerli. Se ella fosse stata vecchia, non avrebbe pensato a un artifizio ridicolo; ma aveva trentott’anni, quella canizie era troppo precoce, poteva e doveva combattersi… Il giorno che adoperò la tintura, una tristezza mortale le chiuse il cuore, insieme con una specie di rimorso, come se avesse fatto qualche cosa di male. Con Enrico, ella parlò della sua vecchiezza; gli disse, passandosi una mano sulla fronte:
— Mio Dio, come posso ancora piacerti!
Avrebbe voluto che egli la rassicurasse, che affermasse ancora la forza della sua seduzione; ma egli non diceva niente. S’intiepidiva anche lui? Certi giorni, sentendo che egli non era più quello di prima, ella lo interrogava ansiosamente, volendo esser confortata, rassicurata, sperando che ella stessa si sarebbe infiammata: egli rispondeva che era sempre lo stesso.
— Perchè non mi dici dunque delle cose care?
— Ognuno ama come sa!
Egli aveva preso in mala parte quelle sue parole, le ripeteva con una intonazione sottilmente ironica, come se contenessero un biasimo per lui. L’amor proprio dell’uomo era rimasto offeso dalla coscienza d’una inferiorità inanzi ad Arconti; e tutto ciò che ella tentava per dissipare quella persuasione, era invano. Ella si umiliava, gli domandava perdono; poi gli proponeva di andar via, lo scongiurava di dirle se v’era qualcosa in lei che gli dispiacesse; egli rispondeva:
— No, no.
— Ma dunque, che hai? Perchè mi rimproveri? Perchè mi accusi?
— Non t’accuso. Capisco…
— Che cosa? di’ su!
— Che non ti contento, che non sono fatto per te…
Ogni protesta era inutile: egli scrollava il capo, cedeva per poco dinanzi all’insistenza dolente di lei; poi ricominciava. Allora, ella esclamava:
— Ma non capisci che se tu non combatti questa triste persuasione, l’amor tuo si scuoterà?
— Sei tu che mi sfuggi…
— Io? Io? Ma come? Come debbo fare per mostrarti quanto t’amo? Che cosa ti dà ombra? Sei geloso di qualcuno?
— No…
— Non lo negare, confessalo! Non fare come l’altro, non covare qualche cosa nell’animo… sarà funesto: credi a me che l’ho imparato a mie spese… di’, sei geloso?
— No, ma no!
Ella finiva per credergli, poichè la sua gelosia sarebbe stata senza ragione.
Non voleva notare nessuno fra quelli che le facevano la corte, metteva a posto il principe di Lucrino che tornava a rappresentarle il tormento del ricordo; ma delle ore di scoraggiamento suonavano per lei, durante le quali sentiva che tutte le sue prove non erano per anco superate. L’orgoglio di Enrico, che ella aveva involontariamente offeso, non s’acquetava; ma quando pure egli non avesse avvertita la propria inferiorità dinanzi ad Arconti, l’idea d’esser venuto dopo, la confessione del suo passato che ella gli aveva fatta, non doveva intiepidirlo? Ella aveva intuito tutto questo, a Palermo; gli ammaestramenti della vita non giovavano proprio a nulla? Però, dinanzi al mutato contegno dell’amante, ella riconosceva tutta la sciocchezza delle proprie inguaribili pose sentimentali. No, il suo passato di fanciulla non era risorto per virtù di quell’uomo: egli aveva capito soltanto di poterne trarre profitto. No, quell’amore non l’aveva redenta, l’aveva compromessa peggio: non l’avvertiva nei discorsi della gente, nel contegno più libero degli uomini, nell’ostilità crescente delle donne? Alcuni credevano ancora che la sua relazione con Arconti non fosse rotta, altri le davano nuovi amanti. Ella alzava le spalle; ma la sua indifferenza cessò il giorno in cui apprese la voce incominciata a diffondersi: che ella s’era messa con Sartana calcolando sopra un doppio divorzio per farsi sposare da lui e divenire duchessa! Così, nello stesso punto in cui ella apprezzava il nuovo danno che s’era cagionato, la malvagità sempre desta le attribuiva l’intenzione di un indegno mercato! Era dunque inutile aver sempre pagato del proprio, non aver ricavato che dolori dalle sue cadute: bisognava ancora subir l’onta di quest’altro sospetto!
E nel ripeterle che non l’accontentava, Enrico alludeva adesso a qualcuno di quelli che le stavano intorno. Ella esclamava:
— Senti, ho sofferto abbastanza; non mi fido più di lottare. Se tu cerchi dei pretesti perchè non m’ami più, dimmelo francamente; preferirò una dichiarazione leale, per dolorosa che possa essere…
Egli protestava abbracciandola fitta:
— Io non amarti più? Ma è la paura di perderti che mi fa dir questo!
— Oh! Sarai tu che mi lascerai…
Dei buoni giorni venivano ancora. Per dissipare le paure di lui, ella metteva in canzonatura i proprii adoratori: delle figure brutte, dei tipi quasi comici: Respini, uno spadaccino stomachevole con la presunzione d’un coraggio a cui ella non credeva; Forti, un letterato che parlava in punta di forchetta, dicendo debbe invece di deve e qualsivoglia persona invece di ognuno.
— E puoi credere che io ti preferisca uno di costoro? Ma rendi un po’ di giustizia al mio buon gusto, almeno! Se io non fossi piena di te, se volessi flirtare, sceglierei qualcuno che ne valesse la pena!
— Per esempio?
— Ma, non saprei…
Allora, egli cominciava a nominare della gente, senza indovinare. La corte di Giacomo Spinola, il bel poeta, l’elegante romanziere di cui tutti parlavano, l’avrebbe molto lusingata; e se uno di quei principi reali di cui ella ammirava il coraggio e le virtù l’avesse voluta, come avrebbe potuto resistergli?
Nessuno le piaceva fra quelli che la circondavano; un giorno, però, le presentarono un giovane del quale ella aveva molto sentito parlare come d’un ingegno fuor del comune, destinato a un brillante avvenire: Vittorio Bergati, il figliuolo dell’ex-ministro degli esteri. Di persona era avvenente, bastarono pochi minuti di conversazione perchè ella accertasse che la sua reputazione non era usurpata. Il martedì seguente si presentò da lei. L’eleganza e la competenza mondana di Enrico le parvero a un tratto mediocri dinanzi a quelle del giovane, che aveva passato molti anni a Parigi per completarvi i suoi studii.
Era Toscano, e la sua voce aveva un timbro indefinibile, pieno di turbamento; sapeva parlare di tutto, d’arte sopratutto; era intimo di Alessandro Dumas; in quella prima visita le narrò l’intreccio della commedia alla quale l’autore da lei ammirato lavorava da tempo. Restò a lungo, fin quando tutti gli altri se ne furono andati; si alzò a un tratto, quasi facendosi forza e dicendo:
— La sua conversazione è così piena di charme!
Ella restò seduta nell’angolo del suo divano, non udì la voce del cameriere che annunziava:
— La signora è servita.
Perchè quella figura l’attraeva? Perchè pensava a lui? Il domani egli mandò delle novità francesi che le aveva promesse; erano accompagnate da un bigliettino in cui glie ne chiedeva dei giudizii. Quando Enrico lo lesse, non disse nulla; indugiò soltanto un poco a rimetterlo sul tavolo.
— Lo conosci? — chiese ella.
— Sì — rispose con un dubbio e impercettibile sorriso. — È un giovane garbato, intelligente…
— Con questo, si può flirtare?
Ella sorrise più schiettamente. Rispose a lungo a Bergati riferendogli le sue impressioni su quei libri; egli ne mandò altri dicendole: «I suoi giudizii si potrebbero stampare con la firma del Sainte-Beuve.» Allora, quella corrispondenza si fece più assidua. Egli veniva ogni martedì, ma le sue parole non esprimevano altro che un’ammirazione deferente; nelle lettere era più esplicito, in una le chiedeva di annoverarlo fra i suoi amici, un’altra finiva dicendo: «Si rammenti Ella qualche volta del più devoto dei suoi amici, che si ricorda sempre di Lei.»
Ella lasciava le lettere sul tavolo; quando Enrico lesse quelle parole, osservò:
— Questa, al mio paese, non si chiama una dichiarazione?
— Come sei sospettoso! È un complimento di chiusura.
— Ah, si fanno così i complimenti? Non lo sapevo… è vero che io non so scrivere…
Era stupita della specie di divinazione ch’egli aveva del pericolo. Le lodi di Bergati l’inebbriavano; il salotto le parve vuoto il primo giorno che egli mancò; aspettava le sue lettere con un’ansia secreta, le divorava — e adesso le nascondeva, poichè venivano con tale frequenza che avrebbero accresciuti i sospetti di Enrico. Come costui si faceva più freddo, ella gli chiedeva:
— Che hai?… Dillo una buona volta!
— Che cosa vedi?
Restavano a lungo senza dir niente, poi ella esclamava:
— Siete tutti ad un modo!
— Sì, hai ragione…
Adesso, ella pensava che le rispondesse apposta così, perchè era stanco di lei, per spingerla ad una rottura; e i progressi della sua simpatia per l’altro la spaventavano. Ora, nelle parole del giovane v’erano delle reticenze piene di turbamento, i suoi sguardi l’abbracciavano tutta; egli l’aspettava per le vie, l’accompagnava a casa, nell’ora dolce del crepuscolo — ed ella si chiedeva: «Ignora che io non sono libera? Crede che io possa spartirmi fra loro?» A questo pensiero, si ribellava: mai sarebbe scesa tanto giù!
A certi momenti, una tristezza infinita la guadagnava; avea voglia di chiudersi in camera a piangere tutta sola; se Enrico era con lei e le chiedeva che avesse, rispondeva:
— Non dirmi nulla; soffro.
Egli restava un poco senza parlare, poi se ne andava. La notte ella aveva dei sogni torbidi, in cui vedeva dei presagi di sventura. Ed a Bergati, quando erano soli, quando la conversazione prendeva il tono d’una confidenza, ella parlava del vuoto della sua vita — come ne aveva parlato all’altro! Ma se il suo amante era stanco di lei? E la stessa voce del doppio divorzio, del calcolo che ella avrebbe fatto dandosi a Sartana, l’induceva a provare il suo disinteresse, riprendendo la sua libertà.
Già Enrico parlava di partire per Napoli, dove lo chiamava una lite di sua moglie, una storia che le pareva un pretesto. Ah! ella non avrebbe sofferto una seconda volta l’umiliazione dell’abbandono! E come anche Bergati minacciava d’andarsene a Parigi, dove aveva un fratello accasato, ella scrollava il capo, pensando tra sè: «No, che non partirai per adesso!»
Un sabato, mentre ella leggeva accanto alla finestra, il cameriere le recò una carta di lui, cornée e con due parole scritte su a lapis: per congedo. Di scatto, ella disse:
— È andato via?
— Nossignora, aspetta di sapere se la signora è in casa.
— Fatelo passare.
Il biglietto era caduto per terra; ella si strinse con le mani le tempie, nel tardo pentimento di quel consenso che la perdeva. Ma se partiva per sempre! Se forse partiva per lei, non reggendo al tormento di saperla di un altro! No, no: egli non poteva partire così! Ella dunque voleva ricominciare un’altra volta? Non era ammaestrata abbastanza? Non si sentiva vecchia oramai, giunta all’età della rinunzia? Ma fattasi allo specchio per acconciarsi i capelli, ella trovava che no, e la secreta brama di sentirsi apprezzata da lui la struggeva… e cadere ancora! precipitare sempre più giù… ma non era la ferrea legge del suo destino? A che pro ribellarsi? Ella scrollava le spalle: oramai! oramai! Ed Enrico? come lasciarlo? Non era invece egli stesso che non la voleva?
Il cameriere annunziò:
— È di là.
Prima di schiuder l’uscio del salotto, ella si compresse forte il cuore: le batteva come se fosse sul punto di rompersi. Aprì con un atto di risoluzione, gli andò incontro col braccio disteso:
— Sono lieta di poterle stringere la mano, se parte…
— Al contrario, son io che la ringrazio… e le chiedo scusa di aver forzato la consegna…
— Ma per lei non teneva! Due vecchi amici come noi non si lasciano senza salutarsi, non è vero? Va a Parigi?
— Sì.
— Spero bene — aggiunse subito, con aria disinvolta — che non ci lascia per sempre, che la rivedremo presto?
Egli rispose, vagamente:
— Non so.
Tacquero un poco entrambi. Ella gli chiese notizie della famiglia di suo fratello, ma non udiva le parole di lui. Pensava: «È una prova che vuol fare? Che cosa mi dirà?»
— E lei, stette molto a Parigi?
— Oh, pochissimo: due mesi appena. Ma è una città che mi attira… la saluti per me!
— Se avesse dei comandi da darmi…
— Grazie!
Egli s’alzò; stringendole la mano, continuava:
— Mi farebbe il più gradito dei regali!
— Grazie… Non so, in questo momento… Parte subito?
— Domani l’altro.
— Avrò dunque il tempo di pensarci. Grazie, comunque…
Allora, come le mani si sciolsero, come lo vide allontanarsi, sparire dietro la cortina dell’uscio, ella si morse le labbra, stese le braccia, e repentinamente passò di là, chiamando:
— Allora senta, Bergati….
Egli tornò, fissandola in viso.
— Volevo dirle, se può incaricarsi…
Fu costretta ad appoggiarsi alla spalliera d’una poltrona. Il giovane buttò ad un tratto la sua mazza e il cappello, l’afferrò pel braccio che usciva nudo dall’ampia manica della veste da camera, esclamando, con l’espressione dell’estasi:
— Ah, ah! Non si resiste, non è possibile! Volevo fuggirvi, io che v’adoro!
Ella si velò la faccia con le mani, egli la stringeva alla vita, tentando baciarle la guancia. Doveva dirgli: «Ma io non posso esser vostra!» e sentiva che la sua condotta le toglieva ogni possibilità di resistenza. Come l’imagine di Enrico sorse nella sua memoria, si lasciò cadere sulla poltrona, esclamando:
— Mio Dio! Mio Dio! Perchè avete fatto questo?
Il giovane le era in ginocchio dinanzi, le sollevava il capo, e una musica di parole or sommesse ora vibrate, dolcissime tutte, le carezzava l’orecchio:
— Di che temete, povero cuore? Io vi chiedo di lasciarvi adorare, come una Madonna, dall’ombra… se sapeste che meraviglia! Non credo ai miei sensi… che gratitudine sarà la mia! Come v’ho amata, da lontano, prima di conoscervi ancora, comprendendo che voi sola eravate degna d’amore! Come credetti di sognare, quando ottenni la vostra intimità, quando compresi di non esservi indifferente, quando voi mi confidaste le tristezze della vostra vita! Farvele dimenticare è tutta la mia ambizione. Che orgoglio metterò nell’obbedire tutte le vostre volontà, tutte! tutte! Sorridete dunque, dolcezza…
E fece per baciarla sulla bocca.
— Ah!
— No, no… se non volete…
Ella lo respingeva ancora automaticamente, scongiurando:
— Lasciatemi, per pietà…
— Ebbene… non v’è felicità eguale a questa di starvi vicino, ma se voi non volete… guardate: obbedirò…
Allora ella disse:
— Non partirete?
— Ma no! Credevate che fosse possibile? Resterò vicino a voi, vi scriverò, tutti i giorni! Consentirete che venga talvolta?
— I martedì solamente?
— Solamente! Sarete contenta di me! Mi date adesso quel fiore?
Ella aveva una rosa appuntata alla cintura, una povera rosa mezzo sfogliata da quella tempesta: la portò alle labbra, glie la porse. Egli ne bevve il profumo, baciandola.
— Adesso, lasciatemi…
Egli le baciò la mano, dall’uscio le mandò ancora un bacio sulla punta delle dita. Ella s’alzò, scuotendosi per tutta la persona, coi pugni chiusi, le braccia distese, mormorando in un sibilo: «È fatto!»
Non le era permesso nessun dubbio; sapeva che cosa sarebbe stata l’obbedienza di quell’uomo. Ed era stata lei! E non aveva trovata una parola di protesta, neppure per fingere! E qualche ora dopo, mentre era ancora tutta piena di lui, Enrico appariva!
— Ho una notizia da darti, — egli disse.
— Che c’è’?
— Debbo andare a Napoli, per la lite di mia moglie.
Un senso infinito di sollievo la penetrò ad un tratto. Ella aveva del tempo dinanzi a sè, qualche cosa sarebbe accaduto. Enrico era molto freddo, parlava unicamente di quella seccatura capitatagli addosso; andò via prima dell’ora consueta.
— Tornerai presto?
— Appena potrò.
La menzogna, la doppiezza orribile, il rimorso atroce le erano risparmiati! E le lettere di Vittorio cominciarono a piovere: vibranti di passione, traboccanti di poesia, più belle, più inebbrianti di quelle di Arconti. Ella gli rispondeva, scongiurandolo di esser più calmo, di rammentarsi la promessa obbedienza. Il martedì seguente venne a trovarla; per fortuna, il suo salotto era sempre pieno di gente. Egli scriveva ancora, ed Enrico, da Napoli, non le mandava neppure un rigo. Vittorio veniva a trovarla a teatro, l’aspettava per via, sollecitava in premio della sua saggezza dei convegni dinanzi alla gente, che ella non poteva negargli. Ma lottava ancora, aspettando sempre che l’altro si ricordasse di lei, la sorreggesse con una buona parola, con un richiamo alle passate dolcezze. Non veniva nulla. Ella resisteva sempre, ma cominciando a capitolare tra sè, dicendosi: «Se oggi non scriverà, se domani non scriverà…» I giorni passavano, le lettere di Vittorio le creavano intorno una calda, struggente atmosfera di passione. Erano due mesi appena che l’aveva conosciuto; il giorno in cui si compirono, egli le mandò un libriccino in forma di piccolo album, rilegato in rosso. Aveva per titolo Le livre des Pensées; su ciascun foglio di cartoncino erano appiccicate delle pensées variopinte, screziate come grandi ale di farfalle, e scritti dei pensieri d’amore, in francese: «Lorsque vous vous réveillez, et que le premier rayon de lumière frappe vos yeux, dites-vous: Il m’aime et ce rayon m’apporte son salut… Lorsque vous lisez dans les livres des mots d’amour, songez que les plus beaux, les plus tendres, les plus suaves vous viennent de moi…. Lorsque vous êtes gaie, songez que votre sourire est ma raison de vivre… Lorsque vous voyez des fleurs, songez que je voudrais les faucher toutes, en faire des tapis pour vos pieds, des parures pour vos cheveux, des couches pour votre corps…» Ella rimase come stordita da quella lettura. Il domani, andò fuori a piedi, girò lungamente; stanca, stava per salire in carrozzella a piazza di Spagna per tornare a casa, quand’egli le si avvicinò. Per non perdere la sua compagnia, rinunziò alla carrozza. In mezzo ai discorsi indifferenti, egli metteva all’improvviso delle parole d’amore, dette sommessamente, con voce turbatrice, quasi all’orecchio. La stanchezza di lei cresceva; la via era lunga, l’aria scura, le prime fiammelle di gas brillavano nelle mostre dei magazzini. Le gambe le si piegavano: avrebbe voluto appoggiarsi al suo braccio, cadere con lui su qualche cosa di soffice. Continuò ancora ad avanzarsi, a trascinarsi fino a casa. Quando furono presso al portone, egli disse, piano:
— Mi permettete di salire un istante?
— No… no…
— Perchè? che c’è di male? Un istante, volete?
Ella pensò: «Se il portiere mi desse una lettera di Enrico!» Il portiere non aveva nulla.
Enrico arrivò il domani. Ella lo ricevette nel salotto, respinse l’abbraccio che tentava di darle con un’aria gioconda.
— Che hai?… Mi accogli così?
Ella disse, con voce gelata:
— Credo che v’inganniate. Non v’è fra noi più nulla di comune.
— Teresa! Che accade? Perchè? Sei tu che dici questo?
— Siete stato voi che m’avete lasciata come si lascia una cameriera. Per quindici giorni, non m’avete scritto un rigo, non m’avete degnata d’un pensiero. Adesso, vorreste ricominciare quel che vi torna comodo: vi ripeto che v’ingannate.
Egli si passò una mano sulla fronte; disse, smarrito:
— Tu mi scacci? Ma è un sogno? Ma non ti ho scritto, perchè ero in collera con te… perchè tu mi lasciasti andar via, senza una parola, senza un rammarico… — Le afferrò a un tratto una mano, la strinse malgrado la resistenza di lei. — Teresa… guardami! Son io!
— Lasciatemi…
— Il tuo Enrico… quello che ti vuol tanto bene… E che anche tu vuoi bene… quello a cui hai dette tante parole care, a cui hai giurato tanto amore! — Le si appressò ancora di più, ella tremava come per febbre. — Teresa! Infine, non è ragionevole, per due, per tre lettere… per un broncio da innamorati… Se io ti voglio bene ancora! Sempre! Teresa, Teresa mia…
Come avanzò le labbra contro le sue, ella gettò la testa indietro, chiudendo gli occhi.
— Non mi baciate.
Egli la lasciò. Si guardò intorno, fece qualche passo, le tornò vicino.
— Tu dunque… non m’ami più? Tu ami un altro?
Ella non rispose. Nel silenzio, s’udiva il moto cadenzato dell’orologio dell’anticamera. Con un altro tono di voce, egli riprese:
— Perchè non volete dirlo? Voi siete leale, la menzogna vi ripugna… perchè mentire? Voi amate un altro… Bergati?
Ella non rispose. L’altro continuò, abbassando talmente la voce che s’udiva appena:
— V’ama anch’egli? Ve l’ha detto? Siete sua?
Ella si nascose ancora il viso tra le mani.
Allora, quell’uomo che ella aveva giudicato leggiero, incapace d’un forte sentimento, stanco di lei, scoppiò in un pianto così dirotto, così convulso, così tempestoso, che ella si sentì straziare.
— Mio Dio!… Mio Dio!
Non sapeva che fare, aveva paura di accostarglisi, ma non poteva lasciarlo così. S’appressò alla poltrona su cui era caduto, contro la cui spalliera nascondeva il capo; tentò di rialzarlo; ma il pianto continuava impetuoso, soffocava le sillabe che egli tentava di articolare.
— Enrico! Mio Dio, non vi disperate così… siate forte, fatevi coraggio… siete un uomo, infine!
Egli proruppe, con labbra contorte dallo spasmo:
— E sei tu che mi dici questo! tu! Ma non sai che mi strazii l’anima? Ascolta dunque: tu m’accusavi che sarei stato io a lasciarti! Volevi strapparmi il cuore, se ti lasciavo… te ne ricordi, dì?
— Ma se non v’importava più di me!
— Eri tu che mi sfuggivi…
— Se eravate così freddo, chiuso in voi stesso, senza più confidenza… ho pianto anch’io, sapete, ho lottato, ho sofferto! Una vostra lettera, una vostra parola m’avrebbe salvata…
— Oh!… Oh!… hai fatto questo! Tu!
A un tratto, le passò un braccio attorno alla vita, alzò gli occhi supplici e lacrimosi su di lei; disse, a parole mozze, a sillabe fischianti:
— Ebbene, senti… quell’uomo ti lascerà… lo conosco, sai! Dopo averti ubbriacata di parole, ti lascerà… ebbene, quando… t’avrà lasciata… io sarò ancora qui… aspetterò…
Ella sentì stringersi la gola; gli fe’ cenno di tacere; egli continuò:
— T’aspetterò… che importa? Aspettai tanto! T’ho voluta bene fin da quando eri quasi una bambina! Ti vorrò bene lo stesso! Io non so parlare, ma questo saprò dirlo, te lo dirò come si dice al nostro paese… amuruzzu…
Allora scoppiò in pianto anche lei. La generosità di quell’uomo, l’impeto insospettato di quella passione, le davano la tormentosa coscienza della sua colpa e un rimorso acuto, lancinante, che s’accresceva all’idea dell’irreparabile fatalità compitasi.
— Tu piangi! Tu m’ami ancora, Teresa!
Ella gli si strinse al petto, gli nascose il capo contro la spalla.
— Ma allora… perchè?
— La fatalità! L’abbandono in cui fui lasciata! Credevo che tutto fosse finito… ah! I miei presentimenti…
Le sue lacrime s’arrestarono, poichè ella sapeva adesso di mentire, non dicendo a quell’uomo d’esser stata invece lei stessa.
— Allora, se m’ami ancora…
— E quell’altro?
Si alzò, tendendo le braccia al cielo:
— Dio, fatemi morire! No, non è vero che ho forza e coraggio; se avessi coraggio, mi ucciderei… sono vigliacca, vigliacca! Vigliacca! Lasciatemi, andate; sono indegna di voi!
Anch’egli si alzò; ella girava attorno per la stanza, come fuggendolo, come cercando un partito.
— Lasciatemi… Non posso continuare a vedervi, per ora… non vedrò neppur lui… datemi tempo, lasciate che pensi, che rifletta… Anzi, partite… vi scriverò…
Gli si fece dappresso, prendendogli una mano, fissandogli gli occhi negli occhi.
— Sarete saggio e forte? Mi promettete che sarete ragionevole, che non farete nulla? Abbiate fiducia, sperate! Ma andate, andate, per pietà… addio! No, arrivederci…
E rimasta finalmente sola, si lasciò cadere come corpo morto, rotta in due, senza più forza nemmeno per pensare. Stefana vegliò tutta la notte al suo fianco, non la lasciò se non quando la vide assopirsi. Col giorno, appena desta, ella ebbe due lettere: una di lui, l’altra di Vittorio. Ella si gettò su quest’ultima: era un inno squillante, la smentita dell’accusa che l’altro, nella sua gelosia, aveva lanciata. Egli stesso, nella sua, supplicava ancora, diceva di non poter partire, le chiedeva un nuovo convegno. Non gli rispose. Riscrisse, facendosi più umile, più insistente; ella gli mandò un biglietto con due parole: «Parta, Addio.»
Egli non scrisse più. Tutto era dunque finito. E come Vittorio tornava da lei, ella gli si buttava tra le braccia con impeto pazzo, cercando nell’amor suo il compenso di quei dolori, di quei sacrifizii. Li sospettava egli? Non le aveva letto nel viso, negli occhi infossati, nelle parole sconnesse, l’ambascia per la quale era passata? Aveva una pungente curiosità di saperlo. Lasciò un giorno le lettere di Enrico sul buvard; scorgendole, egli chiese:
— Di chi sono?
A capo basso, dopo un silenzio, rispose:
— Di Enrico Sartana.
Egli scosse un poco il capo.
— Leggile!
— Non ne ho bisogno… so tutto…
Ella gli si fece vicina, chiedendo ancora:
— Sapevi… anche prima?
— Anche.
— E che cosa provasti? Soffristi?
— Oh, no… capivo bene che non ci era d’ostacolo.
Fu come se una mano le strappasse la benda dagli occhi. Ella comprese che quell’uomo l’aveva sedotta senza sentir null’altro che il desiderio brutale, studiando le sue frasi, fingendo la sua partenza, rappresentando la commedia del rispetto; e al ricordo del disperato dolore di Enrico, del cuore che aveva perduto e che apprezzava ora soltanto, ella vedeva l’abisso in cui era caduta… Ma non era soltanto il suo nuovo amante che mentiva: era ella stessa! No! no! no! non era stata la passione, la fisima dell’amore che l’aveva fatta cadere: era stata la corruzione di tutto l’essere suo miserabile! Quando la sola perversità della sua natura aveva parlato in lei, ella aveva ipocritamente recitata la commedia del sentimento! Aveva sempre recitato una commedia! Aveva sempre finto! Metteva una gioia morbosa nel confessarlo, avrebbe voluto insultarsi ad alta voce, chiamare Enrico, spartirsi fra tutti… Comprendeva che oramai era destinata a una serie di abbassamenti continui, si vedeva ridotta come tutte quelle che un tempo le avevano fatto sdegno e ribrezzo ma che almeno avevano il merito della sincerità: nulla avrebbe potuto salvarla! E come il principe di Lucrino, incontrandola, tornava ad insistere, a rammentarle il passato, a dirle: «Ma non sapete che c’è da tirarsi una revolverata, per sfuggire a questo tormento?» delle sdegnose parole le prorompevano dal cuore:
— Oh! nessuna di noi è degna di costarvi una puntura di spillo!