VII.

Sul mare grigio e plumbeo, il vapore filava rapidamente, con la prora eretta, fremendo per tutte le commessure alle poderose vibrazioni della macchina ansante. Lungo i fianchi del legno, correvano le piccole ondate che il suo moto formava sulla superficie stagnante dell’acque, e pel contrasto del nero di cui lo scafo era tinto esse prendevano intorno una colorazione azzurrognola, rivelavano qualche cosa della loro misteriosa profondità. Laggiù in fondo, in quella pura freddezza, non era bene sparire? Ella era costretta a distogliere lo sguardo dall’abisso affascinante, a portarlo in giro per la cerchia dell’orizzonte. Cielo ed acqua, una cinerea uniformità da per tutto; ma come un grumo di nuvole più scure, Ustica appariva sullo sfondo nebbioso. Allora, dalle latebre della sua memoria, sorse il canto udito, tanto tempo addietro, una notte serena di primavera nel porto di Palermo:
«Voga quel remo:
Chissà se un’altra volta ci vediamo,
Capo d’Orlando e Monte Pellegrino!…»
Era dunque ancora la via conosciuta, tante volte percorsa; e uno dopo l’altro i ricordi degli antichi viaggi si svolgevano nella mente di lei. Tristi tutti, egualmente, le andate ed i ritorni, fin dal primo salpare per l’ignoto della vita; ma nessuno come questo! Le coste isolane non si scorgevano ancora, già nella notte erano scomparse quelle del continente, e in tale sospensione fra due lontananze ella trovava l’imagine del proprio stato. Più amaramente che ella non avesse mai creduto si chiudeva un tenebroso periodo della sua vita. Stolta, che aveva sperato di prendere una rivincita dell’abbandono in cui s’era vista lasciata, per non riuscire ad altro che ad una nuova amarezza! Prima dell’ebbrezza, la nausea l’aveva vinta, ed era stata una desolazione così profonda, una disperazione così radicale, che ancora il desiderio di finirla l’assaliva dinanzi alle fredde profondità del mare… Se dal buio passato ella guardava verso l’avvenire, un’incertezza paurosa la sgominava. Ella andava verso un paese in cui non avrebbe incontrato che ostilità. Alle intercessioni di sua zia, il nonno aveva acconsentito di rivederla, mettendo però come patto che ella non sarebbe venuta a Milazzo. Egli non la giudicava degna di rientrare nella casa dov’era cresciuta! Ed una coincidenza che al suo cuore ulcerato pareva cercata apposta, obbligava sua zia a lasciare Palermo giusto mentre ella vi si recava!
Con una stretta al cuore, vedeva ora avvicinarsi la meta, sorgere tra cielo e acqua il titanico blocco del Monte Pellegrino, distendersi ai suoi piedi la linea della città. Quella vista l’affascinava, il suo spirito si smarriva nell’irrompere incessante delle memorie, ed alla voce di Stefana che l’avvertiva dell’approdo un brivido la scosse. Nessuno ad aspettarla a terra, neppure un servo. Ella frenava le lacrime entrando nell’albergo, rispondendo al cameriere che le chiedeva se la camera offertale era di suo gradimento. Che triste ritorno! La città rumoreggiava sordamente, ed era come un mormorio minaccioso che si levasse contro di lei, come una voce astiosa che la scacciasse…
Il giorno dopo venne suo zio, scusandosi con un equivoco sul giorno dell’arrivo, invitandola ad andare con lui a Termini, dov’erano per affari. Ella rifiutò, aspettando il nonno che aveva già telegrafata la sua partenza da Milazzo. Quando lo vide apparire, il suo cuore si strinse più fitto. Era un vecchio cadente, l’ombra di colui che ella ricordava nell’imponenza della forza e nel rigoglio della salute. Le sottrasse la mano che ella voleva baciargli e le sfiorò appena con le labbra la fronte. Parlava del suo viaggio, del tempo, di Stefana, e non una parola, non una domanda intorno al passato. Di tanto in tanto si facevano dei silenzii, come fra estranei che non trovano nulla da dirsi. Così continuava a trattarla, senza nessuna espansione, evitando ogni allusione alla intimità di un tempo, non dicendo nulla dell’avvenire. Talvolta, quando ella ricordava i giorni remoti dell’infanzia, le carezze che egli le prodigava prendendosela sulle ginocchia, sentiva la tentazione di buttargli le braccia al collo, di confidarsi a lui, di giustificarsi; ma la sua freddezza l’arrestava. Infine, perchè la trattava così? Se ella aveva fatto del male, lo aveva fatto a sè stessa, e l’espiazione non era finita! Malgrado lo studio messo nel nascondersi, nel farsi ignorare, ella vide qualcuna delle sue antiche conoscenze, la Leo, Sara Máscali; e furono degli sguardi duri, delle arie sdegnose, delle insultanti voltate di spalle. Suo figlio, adesso un bel giovanetto di dodici anni, veniva a trovarla tutti i giorni per un’ora, in compagnia dell’aio; ma la sua entrata in collegio era stata decisa, e ne affrettavano a un tratto i preparativi, quasi a sottrarglielo più presto. Ella non trovò un’accoglienza fraterna che da un’estranea, da Giulia Víscari, che volle condursela in casa. Gli anni parevano non esser passati per l’amica; era sempre fresca, vivace ed allegra come quando l’aveva lasciata l’ultima volta. Anche lei aveva sofferto dei disinganni, ma, con una maggior forza di reazione, li aveva superati più facilmente.
— Che cosa avrei dovuto fare? — le diceva — Desolarmi, strapparmi i capelli (quei pochi che mi restano!) dare lo spettacolo della mia disperazione? E poi? Perchè? Per aggiungere sciocchezza sopra sciocchezza!
— Però, convieni che l’abbiamo fatta grossa!
— Ah, sì! Se potessi tornare indietro, t’assicuro che non ricomincerei!
— Ed io, dunque?
Adesso conoscevano gli uomini, il loro egoismo, la loro mancanza di cuore.
— Noi siamo fatte a un altro modo!
— È inutile, non ci capiscono!
Quelle confidenze le riuscivano di molto conforto; però l’ostilità di cui era oggetto trovava in questo un nuovo alimento. Sua zia, che era stata così tepida verso di lei, le rimproverava, tornando a Palermo, di avere accettata l’ospitalità dell’amica; ella non seppe frenarsi:
— Ma sai, non avevo molto da scegliere! E sarebbe curioso che io facessi la difficile!
La folla delle beghine maligne, delle invidiose della loro libertà, diceva che esse s’intendevano perchè si rassomigliavano, riduceva la loro amicizia ad un calcolo, e una tristezza immensa la prendeva dinanzi a quell’accanimento senza ragione, senza scusa, sentendosi continuamente denigrata ora che nulla v’era più di riprovevole nella sua vita. Ma una curiosità pungente di sapere quel che si diceva di lei, del suo passato, la faceva insistere tanto presso l’amica, fino a vincerne la riluttanza.
— Dicono tante cose… che te n’importa? Io non ne credo nessuna!
— Dimmele! Voglio saperle… mi dànno molti amanti?
— Sì…
— Oh, le vili! Ma chi? Quanti?
— Molti, che so!
— Le vili! Le vili!
La loro viltà consisteva nell’addebitare alle altre come una colpa ciò che avrebbero voluto fare esse stesse! La maschera dell’onestà le soffocava; l’idea di essere amate, il desiderio del frutto proibito le struggeva; ma non avendo il coraggio di romperla col mondo, di pagare del proprio, nascondevano il rancore delle voglie insaziate sotto l’ipocrisia della virtù. Ella non credeva alla virtù di nessuna: l’onestà era o freddezza di carattere, sterilità di fantasia, mancanza di cuore, o paura del castigo, calcolo interessato, stucchevole posa. Potevano darla a intendere a tutti, con le loro attitudini d’angeli offesi, tranne che a lei! Non era già il tentativo di attenuare la propria colpa che le faceva in tal modo comprendere tutte le donne nello scetticismo di quel giudizio; ma convincimento antico, persuasione confermata dai fatti. Se tutte coloro che gridavano allo scandalo fossero state libere, se non avessero avuto a temere la perdita del loro posto nel mondo, i disagi, le denigrazioni, che cosa sarebbe diventata la loro onestà? La prova era la condotta di quelle che avevano dei mariti ciechi o compiacenti, l’abbandono di ogni ritegno di cui esse davano spettacolo. Ma per queste non c’erano accoglienze fredde o voltate di spalle; i loro tradimenti erano incoraggiati, la loro doppiezza premiata!
L’ingiustizia della società la colmava di sdegno. Quando ella aveva abbandonato suo marito, tutte le avevano dato ragione; pretendevano dunque che una donna giovane e bella come lei, rimasta sola, dovesse rinunziare al mondo, all’amore, alla felicità? Sodisfare ai propri capricci restando accanto a quell’uomo, le sarebbe stato permesso; i fulmini si scagliavano sul suo capo perchè non si era piegata ad una transazione sleale! Evidentemente, la condizione della donna non poteva essere più disgraziata: o legata per tutta la vita a chi non era fatto per lei, o condannata ad una rinunzia superiore alle sue forze, o esposta al dileggio di tutti. Perchè dunque gli uomini dovevano godere d’una libertà sconfinata? V’era giustizia? Le donne non avevano anch’esse desiderii, simpatie, bisogni? Ella s’infiammava discutendo di queste cose, avrebbe voluto tanto ingegno da perorare pubblicamente la causa di quante erano come lei, da combattere per la riforma delle leggi, donde veniva il primo male. Gli uomini le avevano fatte, per loro uso e consumo, per loro tutela; un dispotismo feroce le informava.
— Ci avete consultate? Ci avete ammesse a discutere con voi? Io rifiuto di riconoscere un regime imposto con la forza bruta! Leggete la storia: ci teneste come schiave, ci trattaste come cose! Ma allora eravate almeno conseguenti. Ora che vi siete degnati di riconoscerci un’anima, uno spirito, ora che noi abbiamo aperti gli occhi, badate!
Cogli uomini che frequentavano quasi esclusivamente il salotto dell’amica, ella impegnava delle discussioni vivaci, sferzava il loro egoismo, rideva quando li sentiva affermare la supremazia esercitata dal suo sesso per via della grazia e della seduzione.
— Bella supremazia! Una credenza che voialtri diffondete perchè vi torna comodo, per piegarci a ciò che vi conviene, per farci dimenticare tutte le altre nostre inferiorità! Grazie tante! Une fiche de consolation!
Le donne avevano però un’arma in loro mano: esse potevano vendicarsi terribilmente, distruggendo l’onore d’un uomo, coprendolo di ridicolo per tutta la vita. Ella ne conveniva tra sè; apertamente non si dava per vinta, affermava che erano pregiudizii. Ad ogni modo, voleva dire che anche gli uomini non potevano esser contenti di uno stato di cose creato da loro; bisognava dunque pensare al rimedio! Però, quando ella cercava di proporlo, si confondeva, non riusciva a formularlo. Divorava gli opuscoli morali di Dumas figlio, si metteva ad esclamare, tutta sola, col libro fra le mani: «Sì, sì, è così!» ai passaggi in cui vedeva precisato il proprio confuso pensiero; ma incontrando dei paradossi, delle contradizioni, era tentata di scrivere delle lunghe lettere all’autore; o piuttosto avrebbe voluto confidargli la sua storia che ella giudicava un soggetto degno di studio, e chiedergli dei consigli, proporgli delle quistioni. Perchè lei che non credeva se non alla passione, aveva obbedito al capriccio? Qual’era la migliore vendetta da prendere contro l’abbandono degli uomini? Avrebbe ella potuto uscire trionfante dalla lotta in cui era stata vinta?
Sì, forse. La virtù vera esisteva, la sua santa mamma ne era stata una prova; Bice Emanuele che ella incontrò un giorno per via, ne era un’altra. Suo marito aveva finito di rovinarsi, era stato coinvolto in affari equivoci, aveva compromesso il nome dei suoi figli; eppure s’era rassegnata sempre al suo destino, semplicemente, senza lagnarsi. Quando ella rammentava l’amica giovane, bella, elegante, corteggiata da tutti, piena di delicatezze, squisitamente sensibile, e paragonava quel fantasma alla creatura avvizzita, dimessa, sommessa, che si vedeva ora dinanzi, riconosceva che solo una forza interiore, la naturale bontà, il sentimento del dovere avevano potuto impedirle di fare come tante altre. Se non aveva ceduto alla tentazione, non era già perchè non l’avesse compresa, lei che non era vissuta se non di sogni; nè per un calcolo, giacchè aveva tutto perduto; nè per ostentazione, se dimostrava per le cadute altrui un’indulgenza così buona. Un’idea, una fede l’aveva solamente sostenuta; ed allora, tutta convertita da quello spettacolo, ella riconosceva che v’erano ancora molte altre come quella, buone senza secondo fine, degne di rispetto e d’ammirazione. Ma a che cosa giovava loro questa bontà? Erano forse felici? Ne vedeva ancora delle altre meno meritevoli, circondate com’erano dall’affetto vigile, dalla protezione tenera dei loro mariti. Come pensare a tradire un uomo unicamente occupato di voi, pieno di cure, di delicatezze, di fiducia? Bisognava essere senza cuore, pervertite nell’anima, per tradire una persona fatta così; e quelle che erano state capaci di tale mostruosità le facevano sdegno. Ella aveva tradito Arconti in un triste periodo della sua vita, quando durava l’eco delle lezioni perverse che aveva ricevute. Più tardi, fin quando egli era stato buono con lei, un pensiero cattivo non s’era neppure affacciato alla sua mente! E a un tratto, ripensando a lui, al posto che aveva tenuto nella sua esistenza, sentiva le rapide fitte d’un desiderio acutissimo, secretamente covato: il desiderio di rivederlo, di riudirlo. La ragione lo combatteva, le rappresentava il male che egli le aveva cagionato; ma certi giorni, dopo una lettura, o per aver rammentate delle parole che gli erano abituali, o senza motivo, per l’umore del suo spirito, per la tensione dei suoi nervi, ella ripensava alle passate dolcezze, agli entusiasmi dei primi anni, e il suo desiderio si faceva più ardente. Dov’era egli? Poteva non pensare a lei? Se egli fosse venuto di nascosto a raggiungerla, a tentare di riacquistarla? E fantasticava di essere accostata da una persona sconosciuta che le consegnava con aria di mistero una lettera, una lettera di lui, nella quale egli annunziava la sua presenza a Palermo e chiedeva un convegno, ma parlando in terza persona, così: «Un uomo che visse della vostra vita, che piange tutte le sue lacrime per avervi perduta…»
Un giorno, tutti i fogli politici annunziarono il suo matrimonio. Allora un rancore immenso la invase contro di lui e uno sdegno violento contro sè stessa, per non esser riuscita a strapparselo dal cuore. E malgrado il suo rancore e il suo sdegno, ella pensava che un’altra aveva le sue carezze, udiva le sue parole innamorate! Ella non le aveva credute, e adesso le invidiava; aveva sdegnato quell’uomo, e adesso lo rimpiangeva! Perchè, se egli era stato falso e bugiardo? Ma finalmente ella riconosceva che, se pure fosse stato diverso, la felicità duratura non avrebbe potuto trovarsi in un falso legame, sibbene nella santità della famiglia, nell’austerità del dovere. Se a lei fosse capitata la sorte di trovare un marito appena diverso dal suo, come avrebbe sopportato i suoi difetti, come avrebbe soffocate le tentazioni, per poco che egli l’avesse sorretta! E l’imagine di Enrico Sartana le tornava alla memoria, più distinta che mai, in quella Palermo dove l’aveva conosciuto, dove udiva parlare di lui, delle sue avventure dopo la separazione, dove poteva incontrarlo da un momento all’altro. Il giorno che lo vide comparire nel salotto dell’amica, il sangue le die’ un tuffo. Malgrado la barbetta a punta e un principio di canizie, era sempre il bel giovane d’un tempo, aveva ancora l’aria di San Giorgio cavaliere. Mentre egli parlava di molte cose indifferenti, rivolgendosi più spesso all’amica, dando a lei dei rapidi sguardi, ella era come ammaliata, non vedeva più nulla di ciò che la circondava, udiva soltanto il suono delle parole senza comprenderne il senso, con la mente piena di ricordi, di visioni risorgenti; e quand’egli andò via dopo averle stretta la mano, ella lasciò ricadere pesantemente il suo braccio, assorbita nella contemplazione del passato. Un pensiero vinceva tutti gli altri; ella si domandava, col cuore stretto: «Come deve disprezzarmi!» Un abisso separava la fanciulla che egli aveva conosciuta dalla donna che ora ritrovava, e la compiacenza d’essere sfuggito al pericolo di averla a compagna, era probabilmente il solo sentimento che ella gli destava! Le voci malvagie e bugiarde dovevano essere arrivate fino a lui; se il ricordo del passato era sorto talvolta a difenderla, egli non aveva potuto resistere all’insistenza delle calunnie! Con una soggezione secreta, il bisogno di dissipare il tristo giudizio formatosi intorno a lei la occupava nel rivederlo. E un sentimento di gratitudine veniva ad unirsi a tutto questo, come ella notava la discrezione delle sue parole, il rispetto di cui la circondava. Dopo tanto tempo, la società si era trasformata intorno ad essi; senza dir nulla delle relazioni passate tra loro, egli le rammentava tante cose, e una grande attrattiva era per lei in quei ricordi. Ella si sentiva riportata indietro negli anni, pensava a momenti che tutto quanto era venuto dopo non fosse che una imaginazione dolorosa. Ma come notava le assiduità di lui, come leggeva nei suoi sguardi qualche cosa che egli non le diceva, ella protestava tra sè: «No, no… è troppo tardi, oramai!… sarebbe l’errore più grande!…» Ella non poteva più amare, non poteva più essere amata, aveva troppe tristezze nell’anima, aveva letto troppo addentro nel libro della vita! Ed esprimeva questa sua sfiducia dinanzi a lui, ma senza rammaricarsi, rassegnatamente, come accertando una gran verità:
— La felicità è una chimera… tutto ciò che si può ottenere di meglio è la calma… Io non aspiro più ad altro.
— È vero; avete ragione.
Quell’arrendevolezza destava la sua curiosità; ella avrebbe voluto sapere ciò ch’ei pensava intimamente, udirlo parlare dei giorni lontani, subire anche quest’altra prova… E, inconsapevolmente, si attardava dinanzi allo specchio, si guardava a lungo, chiedendosi: «Non sono più desiderabile?…» Qualche giorno, a certe ore, uno stupore pauroso le gelava il sangue, vedendo rapidamente moltiplicarsi i segni della sua decadenza; ma da un momento all’altro la sua fisonomia si rimetteva, riacquistava i colori, la freschezza della gioventù; ella si sentiva rinascere, derideva le sue paure. Lentamente e continuamente i capelli però le cadevano; la chioma meravigliosa che arrivava un tempo ai fianchi, il «Mantello d’oro» era ridotta della metà. Dei giorni la trovava ancora copiosa; alcuni altri l’idea di perderla
tutta l’atterriva. Dei fili d’argento striavano i capelli corvini di Giulia; ella l’invidiava, avrebbe preferito di diventar tutta bianca, pensava che vi sarebbe stata un’altra specie di poesia. Gli artefizii a cui ricorrevano alcune per darsi una giovinezza che non avevano più le parevano ridicoli; ella era sicura che si sarebbe rassegnata, non nascondeva a nessuno l’età sua, affettava anzi d’esser già vecchia.
— Ma fammi il piacere! — protestava allegramente l’amica. — O dici questo per sentirti assicurar del contrario?
— Così fosse! Purtroppo…
— Bada però che qualcuno non ne è persuaso.
Era dunque proprio vero? Gli sguardi di Enrico dicevano dunque ciò che le sue labbra non profferivano? No, no; ella non voleva riconoscerlo. «Mio Dio» pregava, «fate che io m’inganni!» ma con una secreta restrizione, come temendo la certezza dell’inganno desiderato… Egli adesso la seguiva da per tutto, le parlava con una espressione più tormentata; una dolce sera d’estate, fermo dinanzi alla sua carrozza, al Foro Italico, intanto che ella accompagnava impercettibilmente col capo il ritmo incalzante del canto dell’Ombra nella Dinorah, le disse, piano, guardandola negli occhi:
— Vi rammentate i balli di casa d’Alì?
Le parve come se egli l’avesse stretta alla vita, prendendola per una mano, trascinandola seco. E vedendo a un tratto il pericolo, ella pensava che l’unico mezzo di evitarlo era la fuga. Perchè, malgrado i suoi propositi, malgrado la sua esperienza, ella sentiva la lusinga rinascere, udiva una voce che le dimostrava l’assurdità di quella vita, la necessità d’un affetto, anche a costo di nuove torture… Non era egli l’uomo che pel primo le aveva fatto battere il cuore? Non era stato sul punto di dividere la sua vita per sempre? Ed ecco che egli glie lo ricordava.
Fu un giorno che Giulia non era passata nel salotto, quasi prevedendo di quel che doveva avvenire. Come ella aveva espresso con maggiore amarezza del consueto, a proposito d’una lettura recente, il suo scetticismo, egli le disse:
— Non credete dunque più a nulla?
— Ho troppo sofferto.
— Non siete stata la sola.
Senza avvicinarsi a lei, evitando di guardarla, egli soggiunse, come parlando tra sè:
— Perchè non avviene nulla di ciò che si è aspettato?
Ella non rispose, temendo di tradirsi; quando l’altro mormorò:
— Credete dunque che io abbia scordato? Il sogno che sognammo insieme è tutto quello che ho avuto di meglio nella mia vita… ma ora più che mai sento cosa ho perduto.
Ella chiuse gli occhi un istante; poi, abbassato il capo in atto di rassegnazione, balbettò:
— Bisognava arrivare a questo!
— Sì! non era possibile fingere più a luogo, trattarsi come due estranei, quando tutto ci ricordava la felicità a cui passammo accanto… Perchè non potemmo ottenerla?
— Di chi la colpa?
Anche lui chinò il capo, sbattendo un guanto contro il ginocchio.
— Sì, è vero… fui debole… mi arresi troppo presto alle insistenze interessate… e se sapeste che rimorso è stato il mio! Come nulla è valso a farmi dimenticare!
Si accusava, senza giustificarsi, senza muovere un rimprovero contro di lei, diceva che il ricordo di quel primo amore gli era rimasto sempre fitto in cuore, che il matrimonio non aveva potuto cancellarlo, che la vita dissipata in cui s’era dopo gettato non l’aveva guarito neanch’essa. Tacque un poco; poi soggiunse, pianissimo:
— Ma non è del passato che si tratta…
Allora ella cominciò a sentire un tremito percorrerle tutte le fibre.
— Si tratta del presente… della felicità che possiamo ancora afferrare… perchè io vi amo… ti amo. Teresa! — oh, lasciatevi chiamare così, come un tempo, come non ho cessato di chiamarvi, secretamente, dal fondo dell’anima!
Le prese una mano; ella non pensò a ritirarla, scrollando lentamente il capo appena piegato, cogli occhi rivolti alla luce.
— Non dite di no! Siamo ancora in tempo… come siete bella! Che sguardi luminosi! M’accecano…
Un impercettibile amaro sorriso le increspava gli angoli delle labbra, e passandosi una mano sulla faccia ella si guardava ora intorno con l’attonita espressione di chi esce da un sogno.
— No… no… — mormorava — la vita non si rifà… è troppo tardi, credetemi!
— Non dite questo, mi fate troppo male! Io non vi domando di amarmi… lasciatemi vivere soltanto vicino a voi! Che cosa vi costa? Volete?
Ciò ch’egli domandava rispondeva all’intima sua brama, sempre rimasta insodisfatta, ma questa volta risorgente più intensa, con la speranza luminosa di vederla finalmente appagata. Dopo tanto tempo, dopo tanti disinganni, non potevano essi, non dovevano anzi trattarsi come amici, come fratelli, con qualche cosa di più arcano, ma senza macchiarsi? Di questo sentimento dolce e forte nella sua purezza ella si sentiva capace; ella sarebbe restata accanto a quell’uomo, intimamente, parlandogli di cose care, senza pensare un solo istante alla possibilità di essere altro per lui. A questo patto, acconsentiva;e finalmente la sua vita ebbe uno scopo, il suo cuore un pascolo, il suo spirito un’occupazione, e come per incanto ogni dolore, ogni sconforto s’inabissò, disparve, nell’invasione d’una suprema letizia, nella rifioritura dell’anima, nella risurrezione di tutto l’essere suo. Ella gli scriveva delle lunghe lettere, narrandogli la storia della sua esistenza, dei suoi dolori, dicendogli che nulla più gli restava al mondo fuorchè l’affetto di lui, chiedendogli di difenderla contro i malvagi, ma scongiurandolo di non tradire la fede che aveva riposta nella sua parola. «Noi non possiamo essere l’uno per l’altra che i più intimi, i più teneri amici; la triste esperienza che abbiamo acquistato ci deve garentire da nuovi e più grandi errori… Voi mi starete vicino quanto più sarà possibile; e la fiducia che nulla riuscirà a scuotere la nostra affezione sarà il più grande conforto nelle avversità che il destino non risparmia a nessuno. Gli animi volgari non ci comprenderanno: tanto peggio per loro; la nostra coscienza non ci rimorderà!…» Egli scriveva poco, la guardava con occhi supplici di desiderio, tentava di baciarla in viso, scongiurava, alle repulse di lei:
— Sulla fronte, almeno?
— Sulla fronte, sì.
Ella gli aveva dato a leggere il Giglio nella valle di Balzac, la Principessa di Clèves della signora di Lafayette, sottolineando per lui i passaggi in cui era espressa la passione casta e contenuta; decisa questa volta a salvare l’amor suo dalla caduta fatale, a qualunque costo, a costo di morirne. Ma la lotta s’impegnò più presto che ella non credesse: non eran bastate le preghiere, doveva ora difendersi materialmente, incrociando le braccia sul seno, protendendole poi, al gesto disperato col quale egli si allontanava.
— Volete dunque espormi, mio Dio, al disprezzo di tutti?
Già un mormorio correva intorno ad essi, le malignazioni erano cominciate, e come il mondo non le teneva nessun conto dell’eroismo con cui ella resisteva, egli non le teneva conto dei rischi a cui s’esponeva per amor suo. Si faceva invece più insistente, minacciava di abbandonarla:
— Se questa tortura deve continuare, finirò per fuggirvi…
All’idea di perderlo ella rompeva in lacrime, riconoscendo finalmente di essersi ancora lasciata prendere dall’inganno d’una pura affezione. Ma come affrontare la malvagità del mondo? Come darsi in balia delle sue nemiche, in quel piccolo ambiente dove l’atto più innocente era spiato, commentato, risaputo? No, ella non avrebbe fatto mai questo, non tollerava l’idea dei sorrisi maligni con cui le malvage avrebbero vista la conferma dei loro pronostici. L’amore non era dunque il più forte? Ma non aveva ella negato l’amore? E sapeva soltanto come l’avrebbe trattata quell’uomo il domani della sua dedizione? No, v’era troppa tristezza in lei, d’intorno a lei… Sarebbe piuttosto fuggita ella stessa: nella lontananza era l’unica salvezza. Poi si diceva che la logica fatale della sua condizione rendeva inutile quel partito: a che cosa sarebbe andata incontro, fuggendo? Poteva restar sempre sola? Delle cadute meno degne non l’aspettavano? Ma si ribellava alla logica; anche ora, come sempre, voleva fare a suo modo. Lungamente, secretamente, ella maturava quel proposito, dilaniata nondimeno da impulsi contrarii, vedendo danni da per tutto, imaginandone sempre più grandi. Si frenava dinanzi all’amica, si studiava di nasconderle la battaglia che si combatteva nel suo cuore, ma quando finalmente le annunziò la risoluzione della partenza, non le fu possibile contenersi oltre. Rompendo in pianto, con voce strozzata dai singhiozzi, ella le confidava la passione che non aveva saputo soffocare, i pericoli che la circondavano, il tentativo di salute che le restava da compiere.
— E dove vuoi andare? che cosa farai, sola, lontana?
— Non so, non lo so… ma non togliermi coraggio! Tornerò a Roma, andrò più lontano se occorre, continuerò la mia vita sbalestrata… pur di togliermi da questo martirio, di evitare quest’abisso…
L’amica finiva per riconoscere la convenienza della fuga; ella la scongiurava di non farne trapelare nulla, di non rivelare il suo rifugio. Voleva scomparire senza vederlo, senza lasciargli una parola, certa che le sue forze l’avrebbero tradita. E come i preparativi della partenza erano già cominciati, dinanzi ai bauli scoperchiati, alle valigie aperte, un’ambascia più disperata le scoppiava in cuore, col pentimento del suo sacrifizio. Ella era passata accanto alla felicità e non aveva saputo riconoscerla e aveva voluto respingerla! Pel mondo, per lui, per sè stessa, quel sacrifizio era vano: tutti l’avrebbero sospettata egualmente ed a lei non restava che il rancore d’un bene perduto per sempre, d’una speranza voluta a forza distruggere. Non era vero che l’amore non esisteva, ella aveva bestemmiato: non esisteva che l’amore, la vita dell’anima; ella non ne avrebbe trovato mai uno più alto, più poetico di quello di Enrico, cominciato nella purezza della prima gioventù, sopravvissuto a tante vicende, ridestatosi con tanta violenza! Ella sacrificava il suo bene allo sciocco mondo che non le aveva dato se non amarezze. Ella piangeva tutte le sue lacrime, riconosceva di non avere ancora tanto sofferto. Un tenebrore fitto e pauroso avvolgeva l’avvenire, il danno non avrebbe avuto mai fine! Che cosa sarebbe stato di lui? Allora, l’impossibilità di lasciarlo così, senza neppure un ultimo addio, le apparve evidente. Gli scrisse, e ciascuna parola di quella lettera le costava una stilla di pianto. «Quando voi riceverete la presente, io sarò partita, per sempre. Avevo creduto in voi, avevo sognato di passare nella vita tenendoci per mano, amandoci, ma serbando il diritto di tener alta la fronte. Voi non avete avuta questa forza, non ve ne faccio una colpa. Non m’incolpate, a vostra volta, se io prendo una determinazione che vi farà male, ma non quanto ne farà a me stessa. Dimenticatemi! Addio.»
Come una cappa di piombo, il cielo le pesava sul punto di lasciare la casa ospitale dell’amica, nel ripeterle la  raccomandazione di non rivelare a nessuno il suo destino. Tornò a Roma, col cuore stretto da una morsa, col corpo ammalato e lo spirito affranto. L’imagine dell’abbandonato le era sempre presente, con tutte le forze dell’anima ella tendeva verso di lui. Un giorno, improvvisamente, se lo vide dinanzi.