II.

La schiera dei suoi ammiratori si faceva numerosa: ella ne aveva sempre qualcuno d’intorno. Imaginavano di poter trarre profitto della sua libertà, supponevano che ella l’avesse cercata per darsi alla vita galante! I loro elogi, sì, le piacevano, solleticavano la sua vanità femminile; ma come s’ingannavano nel resto! Ella teneva fronte a tutti, voltava in ridicolo le loro dichiarazioni, scherzava a parole, li metteva a posto se passavano il segno, e quella lotta acuiva il suo spirito, le dava la coscienza della propria forza. Il marchese di Durazzo, uno dei più brillanti, dei più assidui e dei più insistenti, non restava due minuti con lei senza farle delle dichiarazioni più o meno velate; ella sosteneva imperterrita i suoi attacchi.
— Dubitate delle mie parole?
— Me ne guarderei bene!
— Allora, consentite ch’io speri?
— La speranza è l’ultima a morire.
— Siete crudele! Non potrò far mai nulla per provarvi l’amor mio?
— Sì, una cosa semplicissima…
— Ditela!
— Parlarmi d’altro.
D’Azeglio, un capitano di cavalleria, molto brillante, molto lancé, l’assediava anche lui, ma in un modo speciale, facendo il difficile, presumendo d’interessarla, di destare la sua gelosia mostrandole tutte le donne che se lo contendevano. Era venuto una sola volta a farle visita, poi le aveva dichiarato che non sarebbe tornato più, non volendo vederla dinanzi alla gente! Ogni tanto, dopo averle concesso la grazia di guardarla, le chiedeva:
— Mi permette di venirla a trovare?
— Ma sempre!
— Quando?
— Tutti i martedì!
Con le loro pose, con le loro pretese, la facevano ridere! Ella li giudicava tutti al loro giusto valore, sapeva quel che volevano, stava sempre sulle difese. Ve n’erano di superiori a Paolo per ricchezza, per avvenenza, per eleganza; l’amore che aveva per lui non l’accecava di certo; la garantiva, però; la faceva passare immune in mezzo ai fuochi incrociati di quegli assedii. Il principe di Lucrino le si era presentato di nuovo, ma senza domandarle più nulla. Era fra i pochi che non fingessero d’ignorare la sua relazione con Paolo; alludeva alla felicità di lei, le chiedeva soltanto di esserle amico. Si rassegnava al suo scacco; una volta, anzi, aveva fatto prova di spirito:
— La mia disgrazia è stata quella dei carabinieri d’Offenbach: sono sempre arrivato tardi!
Ella riferiva tutto a Paolo, attenuando soltanto qualche frase, tacendo qualche circostanza; se vedeva un’ombra velare un poco gli sguardi di lui, gli buttava le braccia al collo:
— Ti dispiace? Vuoi che io non li veda più? Che rinunzii ad ogni distrazione, che fugga la società?
— No, ma no! Chi ti ha detto questo!
— Hai fede in me?
— Piena, cieca, assoluta.
— Grazie, grazie! Credi pure che nessuna ne è più degna! Che bene mi fai!
Avrebbe voluto mettersi in ginocchio dinanzi a lui; con dolce violenza egli l’obbligava a rialzarsi:
— Sei tu che mi fai bene! Perchè sospetti di me? Io capisco che il mondo ti seduce, che tu hai bisogno di brillarvi, che l’atmosfera dei salotti è l’ambiente tuo vitale.
— È vero…
— Che le galanterie degli uomini ti sono gradite, come sono graditi a me, per esempio, gli applausi dei miei colleghi, le lodi dei giornali…
— Sì, è così… come mi comprendi!
— Ma che questo non t’impedisce di sorridere delle loro pretese, perchè il tuo cuore è preso, è tutto mio…
Ella lo abbracciava fitto, esclamando:
— Amore! Amor mio caro! Come sei fatto per me! Che bene, che bene ti voglio…
La virtù di cui gli dava prova, serbandoglisi fedele in mezzo alle seduzioni, riscattava la sua colpa antica, le faceva dimenticare l’avventura di Palermo e l’obbligo di confessarla. Alcune volte, ella trovava perfino eccessivi i suoi scrupoli, pensando alla leggerezza trionfante delle altre donne; ma la sua lealtà la rimordeva, le dimostrava il dovere di confessar l’errore a quell’uomo così diverso dagli altri, così pieno di delicatezza e di nobiltà. Però differiva il compimento di questo dovere, cullata dalla fiducia di Paolo, distratta dalle esigenze della vita. Con l’inoltrarsi dell’inverno i suoi successi mondani crescevano; ella era sempre più entourée, i giornali citavano la sua presenza alle premières; il Fanfulla aveva detto di lei: «un fiore di leggiadria che i giardini profumati della Conca d’oro hanno ceduto agli Orti romani.»
Al primo piano della palazzina dove ella abitava, era venuta a stare una famiglia d’inglesi, i Watson: una madre, giovane ancora, e tre ragazze una più graziosa dell’altra. Ella s’era legata con esse, andava in casa loro tutti i sabati, troneggiava in mezzo al mondo cosmopolita che vi si dava convegno. Sentiva tratto tratto gli effetti della sua falsa posizione, nella freddezza che incontrava qua e là, ma vi si rassegnava, senza dir nulla a Paolo. Comprendeva che non avrebbe potuto tornare al Quirinale; però, nei giorni che precedevano i balli a Corte, una sorda irritazione la prendeva: tutte quelle che la trattavano freddamente parlavano a posta dei loro preparativi, vi insistevano, quasi per farle notare che ella sarebbe rimasta fuori; e, come quando era bambina, affrettava il corso del tempo perchè quella festa a cui non poteva intervenire fosse una cosa passata.
In quaresima, dai Watson, si recitava la commedia, si rappresentavano i quadri viventi: Cinderella, Midsummer’s night’s dream, Cordelia. Nella commedia ella aveva le prime parti; ed era la sua passione e il suo trionfo. Entrava nei panni del suo personaggio, si muoveva sulla scena, dinanzi a un centinaio di spettatori, con la stessa disinvoltura che se fosse stata nel proprio salotto, diceva le cose imparate a memoria come se avesse parlato d’istinto. Fioccavano gli applausi, i complimenti. Il piacere di lei sarebbe stato più grande se avesse potuto recitare insieme con Paolo, ma egli era troppo serio per chiedergli questo, e poi sarebbe stato sfidar troppo l’opinione. Però rivolgeva a lui, intenzionalmente, le frasi d’amore, le parole soavi, gli diceva che rappresentava unicamente per lui, che la folla scompariva dai suoi occhi, che egli era tutto il suo pubblico. Come Paolo scuoteva un poco il capo, ella insisteva:
— Non mi credi? Ma tu non fai altrettanto per me? Non parli per me sola?
— Sì; ma io non sono circondato da belle signore che mi sorridono! Io parlo solo al mio banco…
— E supponi che quegli uomini esistano per me? Che io mi accorga di loro? O Paolo, come t’inganni! Come mi conosci male!
— Tu non t’accorgerai di loro, sarà bene; ma son essi che si accorgono di te…
— Se tu non vuoi, non li vedrò più!
— No, no… non mi dar retta; perdonami!
Ella gli passava una mano fra i capelli, lo costringeva a guardarla.
— Sei geloso, di’… sei geloso? — Come egli assentiva, con un moto degli occhi, ella chiedeva ancora. — Di chi? Dimmelo… dillo!
— Ma di tutti e di nessuno, di quelli che ti stringono la mano, di quelli che ti parlano, che ti guardano appena… delle tue amiche, della gente che incontri, dei libri che leggi, di tutto ciò che mi sottrae qualche cosa del tuo pensiero.
Ella esclamava, sommessamente, ripetutamente:
— Com’è bello… com’è bello, essere amate così!
Poi riprendeva, tenendolo stretto per una mano, guardandolo negli occhi:
— Tu, è vero? Non vivi che per me… non cerchi nessun’altra? Perchè nessuna potrebbe amarti come me, non è vero? E quanto mi ami? Quanto?
— Quanto non è possibile dire! Sempre più! Ogni giorno più dell’altro! E queste ore che tu mi dài non mi bastano, sono troppo corte, volano presto… Vorrei starti sempre vicino, a tutti gli istanti, come al tempo del nostro viaggio; di’, ti ricordi?
— Ah!…
Tacevano un poco; egli mormorava:
— Perchè non dev’esser sempre come allora? Perchè dobbiamo rinunziare a quella felicità?
— Perchè! Perchè tu hai dei doveri, perchè io non sono libera, perchè bisogna contare sul mondo, salvare le apparenze… E poi, credimi, è meglio che sia così: la sazietà ucciderebbe l’amore, farebbe nascere la stanchezza.
Alle proteste di lui, ella soggiungeva:
— Oh, non lo negare! Perchè dunque è così difficile che l’amore resista al matrimonio? No, non ci lagniamo. Del resto, torneranno i giorni più belli: l’estate è vicina, andremo via, ai bagni, sui monti… e saremo sempre insieme, quasi come allora, vedrai!
Invece, come si diedero convegno a Livorno, lo scontento di lui crebbe; in mezzo ad una società scioperata ed osservatrice, tra una folla di conoscenze vecchie e nuove, essi erano costretti a prendere maggiori precauzioni, a contenersi di più. Ella era più che mai felice di vederselo vicino, a tutte le ore, in presenza della gente, trattandolo come un amico, rappresentando una commedia; questo a lui non bastava. E, prendendosela con lei, quasi fosse sua colpa, la evitava, la lasciava sola, le mostrava il suo corruccio!
— Ma perchè fai questo? — chiedeva ella, umilmente, giungendo le mani. — Che cosa mi rimproveri? perchè mi punisci? Perchè?
— Perchè? — prorompeva egli — Perchè ho bisogno di te: perchè quando penso che debbo restarmene lontano da te, sento la tentazione di afferrarti pel collo, così, e di strozzarti, piuttosto…
— Sì… sì… — cogli occhi chiusi, abbandonata, ella si offeriva al suo furore appassionato. — Uccidimi, sì; è dolce morire di tua mano!
— Perdono! Perdono!
Nella stretta convulsa che seguiva quell’impeto, ella mormorava:
— Andiamo via! Nascondiamoci fuori del mondo, in campagna, in un deserto…
— Questo non è possibile.
— Sì, purtroppo hai ragione! Ma allora bisogna rassegnarsi! Quel che tu vorresti è anch’esso impossibile, con la vita a cui ci costringono la nostra posizione, i nostri doveri! Tu soffri, non è vero, nel sentirmi maltrattata? Ma che cosa sarebbe se facessimo quel che tu vorresti?
— È vero, hai ragione! Ma la ragione è una triste cosa; io non la so tollerare!
Infatti, dovendo andare a casa sua, chiamato da affari di famiglia, da interessi elettorali, rimandava sempre la partenza, non voleva staccarsi da lei. Ella diceva:
— Se potessi venire anch’io con te! Come vorrei conoscere il tuo paese, la tua famiglia, entrare nella tua casa, rovistare sul tuo tavolo… vi troverei i ricordi di quelle altre che ti hanno amato prima di me, li disperderei tutti, lascerei dovunque qualche cosa di mio!
— Perchè non vieni?
— Io? No, so bene che non è possibile… a qual titolo entrerei in casa tua? Poi, ti nuocerei…
— Non dir questo, intendi?
— Oh! Credi pure che lo capisco bene… vedi, bisogna essere ragionevoli! Anche tu devi intender ragione, andare a casa, pensare ai tuoi affari! Che cosa è una separazione di un mese? Se hai fiducia in me…
— Amore! Amor mio, povero amore!
E allora soltanto egli s’indusse a lasciarla. Per essergli più vicina, ella andò a Recoaro; la tristezza della solitudine si dissipò presto nell’animazione che le regnava d’intorno. Come da per tutto, ella era sempre molto festeggiata, i giovanotti la corteggiavano, i mariti lasciavano le mogli per fare i galanti con lei. Ella accoglieva i complimenti di tutti, opponeva a tutti la stessa resistenza vivace, agguerrita. Talvolta si sorprendeva a pensare a qualcuno di quegli uomini: ve n’erano che le piacevano fisicamente, o per le doti dello spirito: ella si rimproverava questi pensieri che accordava loro. Amando un altro, essendosi data a lui, anima e corpo, per sempre, come era possibile pensare ad altri, sia pure per un momento? La passione non era dunque come aveva creduto, cieca, esclusiva; o era lei stessa incapace di provarla, leggiera, volubile? No; ella amava Paolo, con tutte le sue forze, ora molto più di prima. Prima era stato capriccio, curiosità, attrattiva del frutto proibito, persuasione vendicatrice; adesso ella si sentiva legata a lui, indissolubilmente, dal culto che egli stesso le aveva votato, dalla gratitudine per la felicità che le aveva fatto conoscere… forse anche il bisogno di legittimare la sua caduta esagerava la forza di quell’amore? Perchè riconosceva ella questo? Perchè scendeva in fondo alla sua coscienza ad esplorarne le pieghe recondite!
Ella scopriva ora la differenza passante tra le cose imaginate e le reali. Quella passione creduta ideale era cominciata male, non era bastata una prima volta a salvaguardarla; adesso non le impediva di trovare che v’erano altri uomini dai quali si sarebbe lasciata amare… Era dunque veramente una perversa? No. Ella riconosceva ancora che qualche cosa di simile accadeva in tutti, che nel fondo del proprio animo nessuno era quale appariva; che tanti istinti, tanti moventi, tante idee, si nascondevano, si mascheravano… non doveva accadere lo stesso in Paolo? Nell’amore di lui non doveva entrare l’orgoglio di averla fatta cadere, di vedersi additare come l’eroe d’un romanzo?
Le riflessioni non duravano a lungo; la vita la riprendeva; ella pensava che la vivacità della sua imaginazione, l’acutezza del suo spirito erano le cause di quelle osservazioni un po’ tristi. Che importavano tutte quelle sottigliezze? Ella affermava la prepotenza dell’amore, dell’ideale. Se pensava talvolta a qualche altro uomo, ammetteva forse la possibilità di tradire l’assente? Avrebbe voluto vedersi messa alla prova dalla seduzione in persona, da don Giovanni redivivo, perchè rifulgesse la forza della propria costanza! Tradire l’amato, adesso, le sarebbe parsa una infamia senza nessuna scusa. Egli le scriveva delle lettere traboccanti di passione, di tenerezza, che ella divorava, rileggeva due e tre volte, fino ad impararle a memoria, assistendo così a tutta la sua vita, dimenticando coloro che le stavano attorno.
Il cavaliere Augusto di Sant’Uberto, fra questi, era uno dei più insistenti. Un elegante, un seduttore di professione, con una fama di spadaccino, di duellista fortunato: lo spauracchio dei mariti. Magro, alto, dagli occhi vivaci, dai mustacchi a punta, dalle mosse eleganti; un ballerino consumato, compromettente. Le aveva mormorato le prime frasi galanti durante una danza, tenendola stretta, facendole sentire tutto il suo corpo, il peso d’uno sguardo divoratore. Ella aveva evitato di guardarlo: uno scambio di sguardi, ballando a quel modo, dopo quelle parole, poteva decidere il destino d’una donna! Le sue qualità mondane, la sua reputazione di conquistatore lo rendevano interessante per lei; ella non voleva però compromettersi, tanto più che lo sapeva legato con la Rinardi, una sua nuova amicizia. Egli tornava alla carica, e come trovava sempre la stessa resistenza, si vendicava punzecchiandola, contraddicendola in ogni sua opinione; se la vedeva con un romanzo in mano, se l’udiva ammirare la calma della notte, lo stormire degli alberi, il chiaror della luna, canzonava con insistenza il suo ideale poetico.
— Volete dirmi con questo che voi comprendete il solo reale? Vi credo!
— E voi andate dietro alle finzioni!
— Se la verità è tanto brutta…
— Che cosa ne sapete?
— Purtroppo!
Ella si dava l’aria di una scettica, come se uscisse allora da un inganno crudele; in secreto rideva di quella commedia. Sant’Uberto, pigliandosi beffe di lei, le diceva che uno solo poteva comprenderla in mezzo a quella società: l’avvocato Trovisani. Glie lo avevano presentato alla Trink-Halle: un uomo sulla quarantina, un po’ basso, bruno, con una barbetta corta ma folta, con delle mani ben fatte, delle quali era molto vano. Le stava spesso vicino, rispettosamente, prevenendo i suoi desiderii, schierandosi sempre, ad ogni costo, dalla sua parte, ogni volta che s’impegnava qualche discussione. Come per alcuni giorni non si vide, Sant’Uberto le disse:
— Sa che Trovisani la evita? Ha detto: «Sento che quella donna mi sarebbe fatale!»
— Oh, Dio!
Malgrado lo trovasse un po’ comico, e quantunque Sant’Uberto fosse capace d’avere inventato lui quel motto, ella ne provò un senso di piacere. L’avvocato tornò ad avvicinarla, a farle la sua corte discreta. Ella lo credeva perfettamente innocuo, quando, un giorno che erano andati a fare un’escursione alla Civillina, trovandosi solo con lei, le afferrò una mano e si mise a baciargliela.
— Trovisani, siete matto?
Tentava di liberarsi, con una voglia di ridere, tanto le pareva buffo. Egli continuava, esclamando:
— Vi amo! Vi adoro! Dovete esser mia…
— Siete pazzo? Lasciatemi, o grido…
Riuscì finalmente a svincolarsi, raggiunse quegli altri; ma l’avventura la fece pensare ai pericoli cui la sua posizione l’esponeva. Così, tornò a Roma un po’ prima del tempo stabilito con Paolo, scrivendogli di venirla a raggiungere, di non lasciarla più sola… «È troppo eterna questa separazione; non mi fido più di starmene lontano da te. Come sono stati tristi, lunghi, interminabili, questi giorni di solitudine! Tutto mi è parso vuoto ed inutile; trovandomi in mezzo alla gente, ammirata, invidiata, pensavo: Che cosa sto a far qui? Per chi fo questa toletta, per chi spendo queste cure? Per nessuno, egli è lontano, non può vedermi, i soli elogi suoi avrebbero un prezzo. O Paolo, la vita senza di te è una cosa impossibile! Ritorna, affrettati, io ti tendo le braccia, t’invoco…» Egli tardò ancora qualche giorno, scusandosi in lunghissime lettere; ai primi di novembre finalmente fu a Roma.
— Perchè hai anticipato? — le chiese, nella furia dei primi abbracci.
— Ti annoiavi? Mi desideravi?
— Quanto! Quanto! Almeno qui tutto mi parla di te; la tua figura, il tuo ricordo è associato a tutto; ma lì… sola, in un albergo, in un paese sconosciuto… e poi…
— Che cosa? Perchè questa reticenza? Dimmi tutto! — E le stringeva forte una mano, le figgeva, gli occhi negli occhi.
— Nulla… non t’allarmare!
Mentre gli riferiva l’avventura di Trovisani, egli s’arricciava i baffi, si mordicchiava le labbra, esclamando tratto tratto: «Buffone!… Buffone!…»
— Non è vero? Ci vuole del toupet ad aggredire così una signora, a credere di poterla prendere come una cameriera! Avesse almeno avuta qualche qualità dalla sua; fosse stato piacente, simpatico…
— E ve n’erano, di questi?
— Ma…. sì…. qualcuno…. Sant’Uberto, per esempio…
— T’ha fatta la corte anche lui?
— Sai… me la fanno un po’ tutti!
— Che cosa ti ha detto?
Ella chinò il capo, diede dei buffetti alle pieghe della sua veste, rispondendo:
— Eh! Che mi trovava bella, elegante… che eclissavo tutte le altre… che ballavo divinamente…
— E tu, che cosa gli hai risposto?
— Nulla; cosa volevi che rispondessi? Non gli davo retta… Dicono tutti la stessa cosa! Con una signora come me, poi, libera o che si suppone tale, tutti si credono in dovere di fare i galanti, di attaccare arditamente… Oramai, ci sono avvezza!
Egli disse, tornando a guardarla:
— E ti piace, confessalo…
— No, te lo giuro! Mio Dio, i complimenti, gli elogi, la corte elegante, sì, mi piace, mentirei se lo negassi… piace a tutte, stanne pur sicuro, alle più rigide, alle più scrupolose; siamo fatte per questo… ma l’indiscrezione, le grossolanità, le brutalità…
— Lo scopo però è tutt’uno…
— Sì, certo… anzi, puoi dire che a quell’altro modo si raggiunge più facilmente…
Allora egli osservò, con un sorriso forzato:
— Vedo che calcoli tutto…
— Come lo dici! Credi che io pensi a colui? Paolo, non lo credere! Te lo giuro, neppur per sogno! Non ho detto per lui… chi lo vedrà più? Come vuoi che io pensi ad altri, quando sono piena di te, tutta, unicamente?
— Perchè hai detto questo, dunque?
— Ma perchè è una cosa che ho pensata sempre, fin da quando ero con mio marito… Pensavo che il rispetto, la discrezione, la corte poetica, erano più pericolose… E tu credevi? O Amore! Amore!
All’abbraccio, al bacio con cui suggellava la pace, successe un breve silenzio. Egli chiese a un tratto: — Chi ti fece pensare a questo?
— Ma… un po’ tutti… quelli che mi stavano attorno, quelli che ti nominai…
— Ma, più specialmente?
— Che cosa t’importa? Acqua passata!
— Non monta: lo vo’ sapere…
— Ebbene… Aldobrandi.
Per la seconda volta, ella abbassò gli occhi. L’altro insisteva:
— Ti fece la corte?
— Molto.
— Discretamente?
— Sì… da principio…
Egli s’era chinato su di lei, divorandola con lo sguardo, pendendo dalle sue labbra.
— E più tardi… più tardi?
— No, no… — Nascondendosi il viso tra le mani, ella scongiurava: — No… lasciami… non mi chieder nulla…
— Lo vo’ sapere… te ne prego! Non debbo saper tutto di te? Possiamo avere dei segreti l’uno per l’altro? Poi, che cosa temi? Non mi conoscevi, allora! Dimmi la verità, quell’uomo…
— No, te lo giuro!
E a mezze parole, più rispondendo alle domande di lui che non narrando, gli aveva detta la diabolica perversione di quel seduttore, l’oscura avventura da cui era cominciata la sua perdita. Spasimava, tra il dovere di dir tutto, il resto, il tradimento meno scusabile, e il terrore di perdere l’amore di lui, la sua stima; poichè già una tristezza si dipingeva in volto all’amato, già i suoi sguardi l’evitavano.
— Hai visto? M’hai fatto soffrire, per soffrire tu stesso… Paolo! Che hai? Guardami, Paolo; dimmi che mi perdoni…
— No; con qual diritto t’incolperei?
— Grazie! grazie! Tu sei generoso; t’amo per questo, specialmente per questo!
Egli disse ancora, guardandosi intorno, quasi trasognato:
— Com’è accaduto stasera che abbiamo rimestate queste cose?
— Mentre doveva essere una festa serena… il giorno della nostra riunione, il primo d’una serie infinita…
I bei giorni infatti tornarono, con la felicità di un tempo, le dimostrazioni d’un amore che andava sempre crescendo, la fusione completa delle loro esistenze. La delicatezza di cui Paolo aveva dato prova l’incoraggiava a completare la confessione; oramai non aspettava che l’opportunità. Però, quando parlavano delle donne che cadono, dei giudizii severi che il mondo ne dà, ella gli chiedeva, guardandolo, un po’ triste:
— Dimmi la verità: tu non mi disprezzi?
Egli le turava la bocca, esclamando:
— Tu sei il vanto mio dolce! Il mio orgoglio! Vorrei mostrare all’universo l’amore che ti porto…
— Ma se non fossi tua? Se sentissi parlar di me come d’una estranea?
— E questo è possibile imaginarlo soltanto? Se sono così pieno di te! No, povero Amore: fuor dell’amore tu non m’ispiri che una sola cosa; una grande pietà…
— Come sei buono! Com’è bello, questo!
— Poveretta! Poverina!
Allora ella sentivasi prendere da una più grande tenerezza; gli nascondeva il viso sul petto, mormorando:
— Sì, è dolce esser compianta da te! Dimmi poveretta, se sapessi che bene mi fa!
Ah, nessun uomo valeva quanto lui! Egli la lasciava sempre libera, non le chiedeva mai quel che aveva fatto in sua assenza, le dimostrava una fiducia sempre più salda. Non la seguiva, anzi, come prima; non cercava di vederla in presenza della gente, quando altri uomini le stavano intorno. Questo però non le piaceva; ella lo voleva vicino, sempre, sopratutto in cospetto del mondo.
— Tu hai l’aria di sfuggirmi…
— Ma no! ma no!
— Lo so perchè fai questo: è per delicatezza, per provarmi che hai fiducia in me…
— Non c’è bisogno di provare ciò che non si mette in dubbio.
— Grazie! Ma io voglio che tu mi segua dovunque…
— Sarà fatto… era solo per evitare le maldicenze…
— Oramai! Dicano quel che vogliono! Tu farai quel che dirò io?
— Sempre!
— Che cosa faresti per provarmi che mi vuoi bene?
— Non so; morirei.
Ella sussurrava:
— Ti danneresti per me?