VIII.

Arrivarono a Palermo che il marchese non era morto ancora; ma il disfacimento del suo corpo rassomigliava alla putrefazione di un cadavere. Nella stanza dell’ammalato si diffondeva un cattivo odore intollerabile, che la disinfezione all’acido fenico inaspriva. Col suo viso come di cera e col suo sguardo lucente, egli metteva paura.
Guglielmo stava tutto il giorno al capezzale del moribondo; ella andava a trovarlo vincendo un’intima ripugnanza, facendosi forza, dicendosi che era un dovere; e la tristezza di quella lenta agonia la guadagnava a poco a poco. Suo figlio, guastato ancora più dalle moine della zia e di Stefana, era insopportabile, stava tutto il giorno nella corte con una frusta in mano, in compagnia degli stallieri e dei lacchè, a veder strigliare i cavalli, lavare le carrozze e forbire i guarnimenti, imitando i cocchieri in tutte le loro mosse, passando una corda alla bocca di un mozzo di stalla come un morso e facendolo trottare a furia di frustate. Suo padre si estasiava dinanzi a quelle monellerie; ella quasi non riconosceva il frutto delle sue viscere in quel piccolo carrettiere che aveva sempre le mani sudicie e i calzoni laceri, e che bestemmiava come un turco. Fu una festa ritrovarsi con Giulia, ma l’amica in quel tempo aveva avuto dei motivi di dolore; dicevano che Toscano la trascurasse per correre nuove avventure. E le altre compagne non si vedevano più; Enrichetta Balsamo aveva lasciato Palermo per Trapani, Bice Emanuele era scomparsa dal mondo, suo marito la maltrattava in tutti i modi: ubbriaco, vizioso, sciupava tutto per i suoi capricci facendo mancare a lei perfino il bisognevole. Ella avrebbe voluto andare a trovarla: Giulia le disse che l’amica non vedeva gente volentieri. La compagnia di tutte le altre, quando ebbe finito di riferir loro quel che aveva fatto e visto alla capitale, non era molto divertente; ella scopriva adesso in loro tanti difetti! Le lettere di Paolo erano il suo compenso.
Egli le dirigeva alle sue iniziali, ferme in posta, Stefana doveva andare a prenderle. Però la vecchia serva le aveva chiesto:
— Chi ti scrive?
— Un’amica…. una signora romana, divisa dal marito….
— E perchè non mette l’indirizzo giusto?
— Sai, Guglielmo ha tante fisime pel capo…. non vuole che io la tratti, per la sua posizione.
La donna scosse il capo….
— Bada…. non commettere imprudenze….
— Di che imprudenze parli? Mi secchi anche te, con le tue osservazioni!
Ella aveva fatta la voce grossa, per darsi ragione; Stefana rispose, dolcemente:
— Va bene, va bene, non t’inquietare….
E andava a prendere le lettere, senz’altro. Da quei fogli traboccava la passione, esalavano ardenti sospiri e supplici invocazioni. Paolo ricordava l’estasi godute, le dolcezze assaporate, il tremore delle labbra unite alle labbra, l’inabissamento degli sguardi negli sguardi, i fremiti, gli spasimi, le voluttà. Dei rimproveri indiretti gli sfuggivano di tanto in tanto; poi li disdiceva, domandando perdono e chiamandola: «Vieni, soave amore, grazia infinita, splendore abbagliante, sola anima, unica forma; vieni, ch’io beva il tuo riso, ch’io aspiri le tue parole, ch’io mi inebrii della tua portentosa visione….» Alcune volte scriveva dalla Camera, sui foglietti con l’intestazione azzurra, mescolando le frasi appassionate alle descrizioni dell’ambiente: «Come il tuo ricordo è vivo, presente, immortale! Tu mi stai al fianco, mi sorridi: eccoti, io ti contemplo…. La volgarità di questo luogo è riscattata: tu vi venisti un giorno: le cose che tu hai mirate non acquistano nuove virtù? Ti ricordi di quel giorno? Io vedevo i tuoi occhi che mi cercavano, compresi che eri venuta per me…. Qualcuno mi suggerisce delle osservazioni; vedendomi scrivere e alzare il capo, crede ch’io prenda degli appunti. Che pietà mi fanno! Che vuoti rumori sono quelli che mi feriscono l’orecchio! Come tutto è inutile al mondo, fuorchè il tuo sorriso! Hanno chiamato il mio nome, non so che cosa ho risposto. Io vengo qui per animare della tua visione questo luogo; io voglio associare il tuo ricordo a tutte le cose, scrivere il tuo nome dovunque: gli amanti che verranno dopo, sdegneranno l’oggetto dell’amor loro, pensando a te… Un altro imbecille discorre, discorre, discorre, con una voce monotona, con un gesto automatico. Io vorrei alzarmi, gridargli di tacere, cantar le tue lodi….»
Gli rispondeva, un pomeriggio sereno di marzo, con un bel raggio di sole che penetrava fino sul suo piccolo tavolo e indorava il foglietto a lui destinato, quando intese delle voci, il portone girare sui cardini e chiudersi. Ebbe appena il tempo di nascondere la sua lettera in fondo al cassetto, che Guglielmo entrò dicendo:
— Se n’è andato….
Bebè, nella corte, dietro il portone chiuso, continuava a guidare un carrettino al quale aveva attaccati due cani; suo padre parlava del testamento che era in consegna del notaio Denaro. Ella non udiva, tutta presa dall’idea della morte, pensando a quell’esistenza passata tra gli splendori, trascinata miseramente tra gli attacchi del male ed ora spenta per sempre. Chi avrebbe detto al galante cavaliere trionfante per la sua eleganza e pel suo spirito nel fasto della corte borbonica, quella fine triste e dolorosa che nessuna cara compagnia aveva confortata? Dov’erano i giorni dei suoi amori e delle sue fortune? E che cos’era questa vita, la cui durata costava tante pene e che finiva così?
Ella restava piena d’una vaga malinconia; non avrebbe creduto che quell’avvenimento previsto dovesse produrle tanta impressione. La sera, rimasta sola, riprese la sua lettera a Paolo; gli scrisse: «L’amarezza si aggiunge all’amarezza; a rendermi più triste questa separazione si aggiunge l’ala della morte distesasi accanto a me. Nessun legame di sangue mi univa al povero vecchio che ha cessato di soffrire, ma la sua dipartita mi ha fatto pensare a tante cose angoscianti. Consolami tu, dimmi che m’ami, che m’amerai sempre…»
Suo marito, quando lesse il testamento nel quale si nominava erede il bambino anzichè lui, entrò in una collera sorda, che non potendosi sfogare apertamente, si tradiva ad ogni momento, a proposito di nulla. Egli avrebbe voluto esser padrone di quella sostanza, disporne come di cosa propria. L’incompatibilità dei loro caratteri si rivelava nuovamente in quella circostanza: quantunque ella fosse certa dell’eredità, delle lacrime di commozione le avevano gonfiato gli occhi nell’apprendere le disposizioni testamentarie, l’atto sempre generoso del vecchio che legava una fortuna al frutto delle sue viscere; suo marito, invece, se la prendeva col morto, le dava lo spettacolo disgustoso d’una recriminazione volgare.
— A te od a tuo figlio, — osservava ella — non è la stessa cosa?
— Ah, è la stessa cosa? La stessa? E la baracca chi la tiene in piedi, tu forse? Sono stato ingannato come un gonzo!
Da qualche parola sfuggita all’amministratore, ella aveva compreso che si trovava in imbarazzi, che aveva fatto dei debiti contando di pagarli con l’eredità. Ma egli non poteva toccare un soldo del patrimonio, dovendo rendere i conti a suo figlio quando sarebbe entrato nell’età maggiore. Ed a lei non diceva nulla della sua situazione finanziaria — non la credeva neppur capace d’intendere queste cose!
Adesso cominciavano le visite di condoglianza, la sfilata delle persone che chiedevano l’ammontare dell’eredità dopo aver fatto l’elogio del morto, che nascondevano male la loro invidia, che insistevano nel mettere in evidenza la fortuna in cui si risolveva quella disgrazia. Lo spettacolo di tanta ipocrisia e di tanta volgarità la disgustava. Ella faceva delle scettiche riflessioni sulla commedia del mondo, pensava di esser lei sola a rimpiangere sinceramente il povero vecchio.
Pel tempo che richiedeva la sistemazione degli affari, non si parlava di tornare a Roma. E Paolo scriveva delle lettere sempre più impazienti, minacciava di porre ad effetto il proposito di venirla a raggiungere. «Il mio pensiero vola sull’ali del desiderio alla terra felice che accoglie l’amor mio. Il cielo vi è più azzurro, il mare più calmo, i fiori più smaglianti. I tuoi sospiri profumano l’aria, la tua presenza nobilita tutte le cose.» Poi aveva reclamato il suo ritratto; ella ne possedeva uno fatto qualche anno prima, ma non le pareva che la favorisse molto. Ne cercò, per aggiungerlo a questo, un altro fatto da ragazza; ma nel cofanetto da lavoro in cui rammentava di averlo riposto, non lo rinvenne. Frugò da per tutto; non riuscendole di trovarlo, mandò l’altro solo. La sparizione di quel ritratto la fece fantasticare; chi poteva averlo sottratto? Imaginava che qualcuno dei suoi adoratori, per possedere la sua effigie, avesse indotto una persona di servizio a rubarlo. Però, non osava chiederne a nessuno, temendo che venissero a scoprire la ragione delle sue ricerche…
«Fronte adorata, purissima,» scriveva Paolo, «sguardi profondi perduti dietro a una visione di cielo, fior della bocca appena dischiuso al bacio dell’aura, fattezze soavi piene di grazia e di nobiltà, io vi ho finalmente dinanzi, vi copro di baci, vi mostro il mio cuore… Io amo voi sole: voi siete benigne, vi lasciate contemplare, non vi nascondete, non mi fuggite come quella Superba alla quale non vo’ più, d’ora innanzi, pensare…» Delle bouderies fanciullesche, delle esagerazioni ammirative di cui ella sorrideva un poco; ma un’atmosfera d’amore sottile ed inebbriante che si sprigionava da ogni sua parola, che l’avvolgeva come una carezza, che la faceva sognare ad occhi aperti, che scoloriva i romanzi di passione coi quali ella ingannava la lunghezza dei suoi giorni.
Tornava la primavera, il verde sulle piante, la serenità nel cielo. Adesso ella usciva un poco, faceva qualche visita. Il nero stava meravigliosamente alla sua bellezza bionda, dava nuovo risalto alle rose della sua carnagione. Le amiche glie lo dicevano, durante le visite in cui non si parlava se non dell’avvenimento imminente, le corse alla Favorita. Poichè il lutto era ancora troppo recente, ella non poteva andarvi; ma non ne provava rammarico, pensando che Paolo doveva esserne contento. La gelosia non gli faceva sentire i suoi morsi? Dopo la lettura della Fanny di Feydeau, si chiedeva se anch’egli fosse geloso del marito? E giustamente Paolo scriveva: «Un altro uomo ti sta al fianco, ti parla e t’ascolta, ha dei diritti su te! Stasera, dolce amor mio, non mi chiedere nulla; ho l’anima triste più della morte. Se ti potessi dire tutto quello che sento, ti farei piangere come io piango… No, basta; è troppo soffrire…» Quanta poca ragione aveva di esser geloso! Ella era un’estranea per suo marito. In cuor suo, se ne rallegrava; le era almeno risparmiato l’orribile tormento che dovevano essere le sue carezze. Però scriveva a Paolo che non si fidava più di restar lontana da lui. Allora egli si umiliava, diceva di non comprendere come ella potesse amarlo tanto. «Io non ho nulla per esser degno dell’amor tuo; quanti uomini valgono più di me!» Ella gli aveva appena risposto protestando contro quelleparole, giurandogli che non pensava neppure all’esistenza di altri uomini, quando suo marito le annunziò che il principe di Lucrino era arrivato a Palermo, per le corse. La notizia le procurò una leggiera emozione; perchè?
Il principe venne a trovarla, un martedì che v’era molta gente nel suo salotto. Dopo averle presentate le sue condoglianze ed espressa la sua ammirazione per Palermo, s’era messo a guardare in giro le pareti. Ella pensava che la presenza di altre persone dovesse contrariarlo, godeva un poco del suo imbarazzo. Però, raccogliendosi nel suo angolo di divano, procurò di metterlo à son aise, chiedendogli degli schiarimenti sulle corse.
— Il criterium si corre dai cavalli a due anni, per avere giusto un criterio su quel che saranno a tre anni. L’Handicap è la più stupida, perchè tutti i cavalli debbono portare un peso, e glie li mettono, così, a occhio…
E a misura che le altre persone gli rivolgevano delle domande, egli spiegava:
— Il fantino che smonta, finita la corsa, consegna il cavallo al trainer che lo ha in custodia; allora gli dánno a bere e lo lavano da capo a piedi quantunque sia sudato, perchè non beve da ventiquattr’ore e mangia soltanto biada secca; altrimenti il ventre gli gonfia e gli fa cqua-cqua.
La prosaicità di quei discorsi era compensata per lei dall’interesse con cui la gente raccolta nel suo salotto li ascoltava. E in breve il principe diventava alla moda fra i giovanotti eleganti; le signore gli prodigavano i loro sorrisi, il suo Rataplan raccoglieva le simpatie generali. Se ella avesse voluto, a quell’ora sarebbe stato il suo amante. Adesso però era troppo tardi! Un sentimento di curiosità dinanzi a sè stessa, nondimeno, le faceva proporre una quistione: «Se io volessi, per capriccio, per curiosità, chi potrebbe impedirmi?»
Il primo giorno delle corse, mentre ella, dalla finestra, assisteva alla sfilata delle carrozze che vi andavano, vide passare suo marito con un giovane alto, elegantissimo, dalle guancie rosee, i baffi d’un biondo rossastro, il monocolo all’occhio sinistro, l’aria straniera. Egli guardò verso di lei, si voltò un poco a parlare con Guglielmo; poi, guardando di nuovo, salutò profondamente. La vista di quell’uomo le diede una scossa. Chi poteva essere? Il duca d’Aumale doveva venire a Palermo; ella pensava che fosse qualcuno della sua casa. L’estremo fascino di quella figura appena scorta la soggiogava stranamente.
Quando Guglielmo rincasò, gli chiese:
— Chi era quel signore che salutò stamani?
— Il visconte de Biennes, attaché alla casa del Duca… Verrà domani.
Che cosa aveva ella, per pensare a lui tutta la notte, per aspettare la sua venuta? Teneva, sotto il guanciale, l’ultima lettera di Paolo, in cui l’assente scioglieva quasi un inno, in cui con ardore più vivo, con devozione più supplice, parlava della sua memoria, implorava il suo ritorno. Ella apparteneva a quell’uomo; perchè dunque pensava ad un altro? Ma non v’era nulla di colpevole in quel pensiero! Ella non conosceva ancora quest’altro…
Come il visconte le fu dinanzi, ella lo trovò ancora più seducente che da lontano. Appena scambiate le prime parole, egli le chiese:
— Vous avez été en France?
— Pas encore…
— C’est que vous parlez superbement; vous n’avez pas d’accent!
Il piacere procuratole da quella conversazione era misto ad una specie di secreto imbarazzo: ella lo attribuiva alla lingua non più familiare nella quale doveva esprimersi. Però, tratto tratto, lo sguardo di lei era attirato da quella figura come per una virtù fascinatrice. Sotto i capelli color di fiamma viva, egli aveva degli occhi neri, profondi, vellutati, una carnagione di fanciulla; e le sue maniere erano piene di signorile scioltezza, di garbata vivacità. Parlava del Duca, chiamandolo Monseigneur, Son Altesse, ma faceva girare il discorso in modo da interrogar lei; e l’ascoltava con un’aria d’interesse, un po’ chinato, tenendo una mano piegata sulla coscia, come a cavallo, scrollando il capo ed esclamando di tratto in tratto: «Voyez!… c’est ça!…»
Nessun uomo le era mai piaciuto tanto, fisicamente; il contatto della sua mano la turbava. Egli era visconte, come nei romanzi; la sua stessa qualità di straniero la faceva sognare. Aveva ancora dalla sua il prestigio della posizione sociale, l’aureola del coraggio: a Sedan, luogotenente di cavalleria, era stato ferito in pieno petto! E ancora una volta il principe di Lucrino si trovava relegato al secondo posto, malgrado il successo che il suo Rataplan riportava guadagnando il premio conteso. Da per tutto lo festeggiavano; egli tornò a trovarla. De Biennes era lì, da un pezzo, che le parlava di Monseigneur; ella era felice di vedere i due uomini in presenza l’uno dell’altro. Dopo aver fatta la presentazione in francese, esclamò:
— Principe, i miei rallegramenti, dunque! Trionfo completo?
— No, completo no.
— Que vous fallait-il encore?
— Mancava lei!
— Mon Dieu, je suis touchée!
Il principe si decise finalmente a metter fuori il suo francese; si esprimeva correttamente, ma con la solita intonazione fiacca, strascicata. I due si parlavano poco; de Biennes, quasi sapesse di esser preferito, guardava curiosamente il suo competitore. Dietro a ogni loro parola, ella leggeva il desiderio di piacere, di sedurre, di trionfare sull’altro. Ma il principe scapitava sempre più nel suo concetto: lo spirito, la galanteria del visconte le parevano superiori.
Ella era stata una volta alla Villa d’Orléans, però, come egli ne vantò la bellezza, rispose:
— Je ne la connais pas.
— C’est dommage! Mais venez donc: je suis à vos ordres!
— Merci, merci bien!… Je ne sais pas quand je pourrais…
Aveva detto di non esservi stata apposta per provocare quell’invito; però non si decideva ad accettarlo. Egli lo rinnovò per iscritto, mandandole dei libri francesi; e quella corrispondenza era piena d’una nuova attrattiva; i biglietti del visconte la facevano pensare più delle lunghe lettere di Paolo. Il ricordo di questi cominciava a sbiadirsi; egli era assente, chissà quando si sarebbero rivisti! L’amore avrebbe resistito alla prova d’una separazione che minacciava di durare indefinitamente? Si rimproverava questo pensiero, però una irrequietezza s’impadroniva di lei; ella scriveva a Paolo delle lettere brevi, di cui l’assente si lagnava. «Sto poco bene» replicava ella, «questa primavera m’irrita; credi tu che sia piacevole restarsene così a lungo, soli, separati da chi si vuol bene, contrariati in tutto, senza un conforto?»
Guglielmo aveva ripreso a vedere la Cannetto: ella lo aveva saputo. Adesso questo non le importava più niente; la persuadeva invece a negar valore agli scrupoli da cui si sentiva presa, quando la tentazione del visconte diventava più forte. Uomini e donne non facevano tutti così? Una tenera lettera di Paolo la sorprendeva in questi pensieri; leggendo le frasi dolci, innamorate di cui era piena, ella pensava: «Sono dunque una perversa?» Poi scrollava il capo: anche lui, mentre le scriveva di quelle lettere, aveva qualche altra tresca per le mani, cercava altre donne, di quelle che si pagano! Poi, era una colpa se la compagnia del visconte le piaceva? Le piaceva esser corteggiata da un uomo come lui, sentirsi dire delle cose lusinghiere pel suo amor proprio, provare la potenza del proprio fascino: era fatta così!
Egli conosceva la gran vita, le nominava le dame du gratin del Faubourg, era stato col Duca alle séries del principe di Galles a Sandrigham, alla chasse à tir. Ella avrebbe voluto chiedergli qual’era la tenuta obbligatoria per le signore, i particolari del cerimoniale di corte; ma fingeva di saperli, per non mostrare la propria ignoranza.
Il principe partì, insalutato ospite, senza farsi vedere: probabilmente l’aveva con lei perchè non gli era caduta nelle braccia! E il visconte, senza dirle nulla di veramente compromettente, da costringerla a metterlo a posto, insisteva con maggior frequenza nelle sue galanterie. Si vedevano raramente soli, ma anche in presenza di altre persone, la lingua straniera in cui si esprimevano li appartava un poco; nel suo francese fitto, egli diceva delle cose ardite, delle allusioni all’inevitabile idea degli uomini che si trovano innanzi a una signora giovane e bella. Come lei non si risolveva ancora ad andare alla Villa, egli insisteva, piano:
— Venez donc! Est-ce que vous craignez quelque chose?
— Oh! Oh! Je ne craigne rien du tout! Il n’y a plus de brigands, Dieu merci, en Sicile! Au surplus, vous serez là pour me défendre…
— Ne vous fiez pas!
— C’est-à-dire? — chiedeva ella, provocantemente.
— Que je me ferais brigand moi-même, pour vous enlever…
— Ah, quelle idée! On pourrait en tirer un joli vaudeville!
Egli si faceva serio, la guardava fisso.
— Que vous êtes belle! que vous êtes charmante! Que vous êtes suave! Ah, loin d’ici, loin du monde, avec vous…
Il sangue le affluiva al cuore, il seno le ansava un poco tutte le volte che egli le parlava così. Chinando gli occhi, stringendosi le braccia ai fianchi, ingiungeva:
— Taisez vous! Si vous tenez à mon amitié, ne dites pas des choses folles!
— Mais c’est que je suis fou!
Un vento di pazzia soffiava anche su lei; ella sentiva fiaccarsi ogni sua forza di resistenza, si stupiva ogni volta che opponeva delle parole di preghiera e di supplicazione alle insistenze di lui. Adesso, egli cominciava a prenderle le mani, le copriva di baci, la stringeva alla vita; ella si svincolava, scongiurando:
— Non! Non! Soyez généreux! Ayez pitié de moi! Que vous ai-je fait? Laissez-moi, je ne pourrais jamais être à vous…
Delle volte, non apriva neppure le lettere di Paolo, le chiudeva in un cassetto senza cercarle più; le lettere del visconte erano adesso piene di frasi infuocate: «Je vous écris d’une main que la votre a parfumée rien que par l’attouchement d’une minute… Avez-vous reçu, chère Ame, ma lettre d’hier au soir? si vous saviez comme mon coeur battait!… Méchante, méchante que vous êtes, je ne vous aime pas, mais du tout, allez!… Est-ce seulement vrai? J’étais tout près de vous, je buvais votre haleine, je m’anéantissais à vos pieds?…»
Suo marito non s’accorgeva neppure quella volta di nulla; la Cannetto l’occupava tutto, per lei non aveva che indifferenza o disprezzo.
Quando ella apriva le lettere di Paolo, vi trovava dei rimproveri pel suo silenzio, per la sua freddezza. Che cosa pretendeva da lei quest’altro? Come non comprendeva che ella soffriva? E lo lasciava senza risposta.
Certe volte, si prendeva la testa fra le mani, enumerando tutti i motivi che la consigliavano di non cedere al visconte: amava un altro, nulla poteva giustificare una nuova caduta, il Francese sarebbe presto andato via… ma in fondo al suo pensiero una sorda voce, la voce di un’altra diceva: «Che importa?»
E come egli si faceva più insofferente, scongiurandola di venire un giorno alla Villa, già parlamentava:
— Vous serez sage?… Bien sage?
— Sage comme tout.
— Vouz ne demanderez rien?
— Mais je ne demande pas: je supplie, j’implore, je vous conjure! Alors, vous viendrez demain, n’est-ce pas?
Ella non ragionò più, soggiogata, costretta da qualche cosa di più forte che la propria volontà. Assolutamente sicura che sarebbe andata lassù, alla Villa d’Orléans, il domani si creava degli scopi per uscire, si diceva che era necessario far delle compere, restituire delle visite. Andava automaticamente, ascoltava distratta i discorsi delle persone, con l’impressione d’un legame materiale che l’attirasse verso piazza dell’Indipendenza. Calcolava il tempo che le restava ancora, fino alle quattro, fino alle quattro e mezzo; alzava gli occhi ai cornicioni delle case, per regolarsi sull’altezza del sole.
Era dunque impossibile sottrarsi alla tentazione? Passando per via Stabile, vide la casa di Bice Emanuele; subitamente, pensò di cercarvi un rifugio.
Appena l’ebbe scorta, l’amica se la strinse al cuore; ella quasi non la riconosceva: era così mutata, così disfatta! Ma, parlando di sè, della sua condizione presente, non un lamento le usciva dalle labbra.
— Tu sei stata a Roma? Ti sei divertita?
Però ella quasi aveva soggezione a parlare di vita mondana dinanzi a quell’austera compagna. Bice chiamò le sue bambine: erano due amorini, bionde, delicate, il ritratto della loro mamma d’altri tempi. Ella le accarezzò lungamente, disse all’amica:
— Me le dài, qualche giorno?
— Quando vuoi, mia buona Teresa.
In quel momento ella si sentiva piena d’una tenera commozione, i ricordi della giovinezza che l’amica evocava la riportavano col pensiero al passato. D’un tratto, udì suonare le ore: erano le quattro e mezzo. S’alzò risolutamente, sentendosi struggere d’impazienza all’idea che non avrebbe fatto più a tempo.
Come riprese posto in carrozza, diede ordine al cocchiere di salir su per Toledo; pensava che, volendo, all’ultimo momento, avrebbe potuto tornare indietro. Ma la carrozza correva rapidamente; ella si sentiva trasportata, a propria insaputa, senza coscienza, come da una fatalità.