IX.

Malgrado ella fosse partita a precipizio appena giunto il telegramma, quando arrivò a Messina già la Gazzetta annunziava che il senatore Palmi era morto a Milazzo, due giorni innanzi, nella tarda età di ottantasette anni.
Ella aveva preveduta quella catastrofe; la sua paura era un’altra… Era cominciata dal momento che il piroscafo entrava nello Stretto, nel contemplare le rive che ella aveva lasciate da lunghissimi anni, per le quali era passata spensierata e gioconda, quando non sospettava neppure le nequizie che la vita le preparava. L’idea di appressarsi alla piccola città dove era trascorsa la sua fanciullezza serena, di rivedere la sua casa, il Castello, la spiaggia di San Papino, tutti i luoghi incerti nella sua memoria, vaghi come cose sognate, della cui esistenza ella quasi dubitava, le incuteva un muto terrore come se delle cose sognate minacciassero di apparire nella realtà…
S’andava adesso in ferrovia, quella ferrovia che trent’anni addietro dicevano di dover costrurre di giorno in giorno. Ma il piroscafo aveva tanto tardato che non v’eran più treni; le convenne aspettare il domani. Partì all’alba. Dal finestrino del vagone ella guardava il paesaggio, i dorsi nudi dei monti, i burroni cincischiati e rovinosi, come fossero delle vane parvenze, delle forme fantastiche. Il treno andava lentamente per la ripida salita, cacciandosi in gallerie interminabili, lungo le quali ella chiudeva gli occhi, fiutando dei sali, sentendo crescere l’oscura minaccia che pesava su lei. Quando vide le mura merlate di Gesso — di Ibbisu — ella cominciò a provare uno stupore immenso. Era dunque proprio la via tante volte percorsa! I luoghi, le cose esistevano ancora, eran sempre al loro posto! Adesso cominciava la discesa, appariva il mare, verde e spumoso, e la penisoletta del Capo, e la striscia bianca della città. Allora uno strano sorriso le spuntò sulle labbra: un momento, ebbe paura d’impazzire; lo sguardo affettuoso di Stefana la sostenne. Era lì! era lì!… S’avvicinava, spariva, riappariva più vicina, più grande, più netta!
La sua carrozza aspettava alla stazione; ella veniva riconoscendo la via, i Mulini, il porto; si diceva: «La piazza del Carmine! Ecco San Giacomo!» Le pareva che dovesse ancora passare un lungo tratto prima d’essere a casa sua — agli occhi della fanciulla, le distanze erano parse tanto più grandi! Vi fu invece in pochi minuti. Salì le scale appoggiandosi al braccio della vecchia, salutando con un cenno del capo le persone sconosciute che avevano in viso la costernazione dal lutto recente. La casa era vuota, triste, silenziosa; il passo di lei risuonava per le stanze nude, quasi qualcuno la seguisse, invisibile; ed ella sentiva opprimersi il cuore sempre più forte, sempre più fitto, ritrovando la camera della mamma, quella di Lauretta, la sua propria, i vecchi mobili, i ritratti polverosi alle pareti… Che fascino misterioso nel risveglio delle sepolte memorie, nella contemplazione delle cose scampate da tanti naufragi!… Ella sedette, chiudendo gli occhi per veder apparire i suoi morti, la mamma, la sorellina, il nonno; ma una disperazione la prendeva: i fantasmi non sorgevano, tanto tempo era passato! tante imagini s’erano sovrapposte alle antiche!
Ed ella stessa, era forse la creatura d’allora? La trasformazione operatasi nel suo pensiero, nel suo cuore, nella stessa persona, era così profonda, che ella si sentiva veramente divenuta estranea a sè stessa. Nei giorni lontani dell’adolescenza, quanti sogni aveva sognati ad occhi aperti fra quelle mura, insofferente del presente, impaziente dell’avvenire? E l’avvenire d’allora era adesso passato! E non le restava che un lungo, cocente e sterile rimpianto, di tutto!
Nessuno la conosceva o la riconosceva: l’unica visita che ella ricevette fu quella del notaio. Prima di morire, suo nonno non aveva voluto prendere nessuna disposizione: v’era soltanto un testamento fatto trent’anni addietro, dopo la morte di sua figlia, col quale lasciava tutto alle nipoti Teresa e Laura. Anche il povero vecchio non aveva voluto credere a quel che era avvenuto, era rimasto a vivere di ricordi, come se il tempo non fosse trascorso…
Le cure della successione, l’amministrazione del vasto patrimonio richiedevano che ella non si muovesse di lì. Dopo l’emozione dei primi giorni, una tranquillità cominciò a farsi nel suo spirito; la quiete della cittadina silenziosa le era propizia, il risveglio delle memorie non aveva più nulla di disperato, diventava una malinconia quasi dolce, una tenerezza che la faceva migliore, disposta a compatire tutte le miserie, a lenire tutti i dolori.
Quando andò fuori per la prima volta, salì a San Francesco di Paola, a pregare sulla lapide che i passi della gente aveano consunta. Non v’era nessuno in chiesa: delle lampade ardevano dinanzi alle imagini, la trave miracolosa si mostrava ancora in mezzo al tetto, e un frate vecchissimo, scheletrito, uscì dalla sacrestia piegandosi un momento dinanzi all’altare. Ella andò ancora al camposanto dei Cappuccini, dove avevano scavata la nuova fossa, e poi alla spiaggia di San Papino: anche lì, come da per tutto, trovava i luoghi e le cose più brevi, più piccoli che non ricordasse. Restò un pezzo, addossata ad una delle barche che i marinai ancora tiravano a secco, guardando il mare, le isole di Lipari, le montagne di Tindari, la costa insenata che fuggiva fino al Capo d’Orlando….
«Voga quel remo:
Chissà se un’altra volta ci vediamo,
Capo d’Orlando e Monte Pellegrino!…»
Voleva salire su al Castello, ma Stefana non si fidò. Vi andarono un altro giorno: la rovina dei muri, delle torri, degli archi era ancora più grande; gli stormi delle mulacchie si levavano ancora dai crepacci della rocca; non v’erano più i vecchi cannoni, le piramidi di palle; solo le sentinelle del carcere, sulla Batteria Tedesca — e lo stesso silenzio, lo stesso ronzìo d’insetti sciamanti intorno ai ciuffi d’erba che invadevano tutto.
Per le vie, ella non faceva che guardarsi intorno, riconoscendo ogni angolo, ogni finestra, tutte le cose; solo le persone le erano estranee. Quanti non v’erano più, di quelli che avea conosciuti! Luigi Accardi era morto; di Manara, il giovane che l’aveva amata fanciulla, in secreto, senza dirglielo mai, nessuno sapeva darle più nuove. Bianca Giuntini, la bella giovanetta che le aveva fatto battere il cuore, era una lamentosa rovina. Al Capo, la moglie del fattore, colei che le aveva narrate tante fiabe, era morta anch’essa; morto il fratello del fattore, quello che l’aveva ricondotta a casa, a viva forza, per la via polverosa, il giorno d’un’altra morte indimenticabile! E quanta gente nuova! In chiesa, a messa, scorgendo delle fanciulle, delle giovanette intorno ai vent’anni, pensava: «Non erano nate, quando io andai via!» e rivedendosi in esse, pensando al suo triste destino, con uno slancio di tenerezza gelosa invocava sul loro capo la benedizione di Dio.
Le madri impedivano adesso che ella le avvicinasse, uomini e donne, sapendo chi era, la guardavano come un essere strano, pieno di pericolose attrattive; delle leggende correvano sul suo conto, una più sinistra dell’altra. In quel piccolo ambiente, la sua vita, i suoi gusti, le sue opinioni, divenivano oggetto di scandalo: ella non aveva ancora idea d’un accanimento come questo contro una creatura che non aveva fatto male se non a sè stessa. Dicevano che ella aveva seminata la rovina dovunque era passata, che era senza cuore, che aveva il genio del male. Come rispondere a questo? Come mostrare agli increduli la rovina della sua propria esistenza, l’unica ch’ella avesse causata? Ella si chiudeva nel suo dolore, sdegnando difendersi, considerando amaramente l’ingiustizia del mondo. Accusavano lei di avere esercitato un potere funesto e non avevano una parola di rimprovero per tutti coloro che l’avevano spinta, uno dopo l’altro, nella via della perdizione! Terribile potere, in verità, quello che l’aveva ridotta alla perdita di ogni affetto, d’ogni protezione, alla solitudine continua, al dileggio quotidiano! Ella era stata, in verità, di gran danno agli uomini che avevano fatto di lei ciò che avean voluto! In quell’ora che ella sentiva aggravarsi le conseguenze dei suoi errori, essi se ne andavano pel mondo, liberi, sereni, in cerca di nuove sodisfazioni, forse felici per opera d’altre, certo non infelici per colpa sua! Ed era lei che non aveva avuto cuore, lei che aveva messa tutta sè stessa nelle sue affezioni, che aveva mendicate delle buone parole, un poco d’indulgenza, la loro pietà! Così non avesse avuto cuore davvero! Non lo avrebbe almeno lasciato a brani per via! Poi sorgeva il ricordo della sua parte di colpa — ed ella s’accusava, si considerava con un disprezzo più freddo, più duro di quello della gente. Gli uomini che l’avevano perduta avevano fatto il loro mestiere; era stata lei stessa a secondarli, a volere quel danno — ed a farne! La memoria di Enrico era il suo rimorso, sentiva ancora talvolta le lacrime roventi stillate sulle sue mani; se ella non fosse passata per una trista scuola, forse sarebbe stata felice con lui! Ma perchè s’era spento l’amore di Arconti se non pel tradimento suo proprio? Ed ella lo aveva tradito perchè le avevano corrotta l’anima! Così, d’evento in evento, rimontava il corso della sua esistenza, ed ogni stato le pareva migliore di quello che era venuto dopo: adesso, per la prima volta, pensava a tutti i momenti buoni di suo marito, al partito che un’altra donna avrebbe saputo trarre al suo fianco, rassegnandosi a difetti, a disinganni inevitabili… La colpa era dunque stata sua, delle insofferenze della sua indole, delle morbosità della sua natura; ma nei momenti più tristi non aveva ella provato dei buoni sentimenti, degli impulsi generosi, delicatezze, scrupoli, sincerità? Il pianto non era stata un’espiazione? Il suo stesso pentimento non dimostrava che ella non era pervertita del tutto? Allora, ella pensava che nessuna creatura era al mondo tutta trista o tutta buona — e che la colpa più grande non era stata la sua, non degli altri, ma della stessa vita… Però passava triste e silenziosa tra i dileggi del volgo; e il suo composto dolore a poco a poco lo disarmava. Coloro che imparavano a conoscerla, che vedevano il vuoto della sua esistenza, la sincerità del suo rammarico, si ricredevano, la compiangevano, finivano per difenderla. Degli uomini avevano ancora parole d’ammirazione pei resti della sua bellezza; ella li lasciava dire, scrollando il capo, malgrado il secreto piacere che la lode le procurava. V’erano ancora dei giorni che, sotto la veletta, col viso sparso di crema fredda e di veloutine, coi capelli dorati di fresco, ella poteva credere di non aver varcato i quarant’anni; ma tutte le mattine, appena sveglia, e la sera, quando disfaceva la sua toletta, aveva paura di guardarsi allo specchio. Per fortuna, dimagrava nuovamente, l’orribile pinguedine spariva nell’assiduità delle penose emozioni. Fortuna? Che cosa aspettava dunque ancora?
L’assestamento delle sue cose le portava via molto tempo; ella aveva sempre dintorno gente d’affari, andava continuamente in campagna, formando il progetto di ricostrurre per suo figlio la fortuna distrutta da Duffredi, di prendersi con sè il giovanetto quando sarebbe uscito di collegio e di dedicarsi tutta a lui. Gli scriveva quasi tutti i giorni, gli mandava dei regalucci, era tutta felice di aver trovato un nobile scopo alla sua vita che trascorreva in una solitudine quasi completa. Vi si rassegnava, vi trovava un senso di fierezza e di nobiltà, come una purificazione. Ma tornavano anche i tristi momenti. Certe giornate grigie, col cielo basso, il mare plumbeo, al ricordo delle feste luminose l’oppressione si faceva insoffribile. Delle frasi sospirose d’opere in musica le gonfiavano il seno di rammarichi infiniti: «Addio, — del passato…» della Traviata; la romanza di Nadir nei Pescatori di Perle: «Mi par — d’udire ancor…» Scrivendo una lettera, guardando il calendario, aprendo un giornale, delle date le saltavano agli occhi: l’incontro di Arconti a Castellammare, il ritorno di lui dopo la rottura, la caduta coi visconte, l’onomastico di Enrico, la presentazione di Bergati…. Quando arrivò la mobilia della casa di Roma, che ella aveva licenziata, si sentì schiacciata dal cumulo delle rimembranze. La sera, aprì la cassa dov’erano custoditi i ricordi d’amore, i fasci delle lettere. Passò la notte leggendone delle centinaia; spuntò l’alba che ne restavano ancora altrettante. Ve n’erano di così buone, di così tenere, di tutti, che ella esclamava: «Ma costoro furono sinceri! Perchè dunque tutto questo è finito?» Perchè tutto passava…
Malgrado il pentimento, il ricordo dei suoi trionfi le dava talvolta un moto d’orgoglio. Ella aveva provate grandi passioni! Poche donne le parevano capaci di destarne come le sue. Gli stessi scettici avevano dovuto rappresentare la commedia del sentimento per arrivare fino a lei. Poi vedeva il rovescio della medaglia, e negava ciò che aveva affermato. Perchè i casi dell’esistenza sfuggivano ad una precisa definizione? Ella non riusciva a sapere se era stata amata o pur no!
Per la vendemmia, andò a Gelso. I Giuntini, i suoi antichi vicini, avevano subìto dei rovesci; la proprietà, venduta all’asta, era passata in mano del barone Squillace. Dei rapporti di vicinato cominciarono a stabilirsi; a poco a poco diventarono intimi. La famiglia si componeva del barone, della baronessa e d’una sorella di questa. Ogni sera, quando cessava il lavoro e l’aria si rinfrescava, s’incontravano sul confine dei poderi e passeggiavano un pezzo insieme. Il barone, un bel vecchio dall’aria d’un militare in ritiro, camminava adagio, appoggiandosi a un grosso bastone, per via dei reumi che gli tormentavano le gambe, e parlava del raccolto, degli affari, stupito dell’intelligenza che ella ne aveva acquistato, finendo per chiederle dei consigli.
— Sentite! sentite! — esclamava, mentr’ella discorreva di culture, di contratti, di prezzi — se non pare che abbia fatto la proprietaria dacchè è nata! Ma v’intendete di tutto, voi?
— È la profondità del mio talento! — rispondeva ella, ridendo; poi, mettendosi accanto alla baronessa, ascoltava compiacentemente le lodi che quella tesseva, insieme con la vecchia sorella, dell’unico suo figliuolo Maurizio. Viaggiava in quel tempo, col conte Marulli di Messina; arrivavano dalla Germania, dall’Inghilterra, le sue lettere che le donne leggevano ad alta voce, orgogliosamente, dinanzi alla gente di campagna stupefatta dalle meraviglie di cui vi si parlava, dalla distanza che quei pezzi di carta aveano percorsa. Un giorno, dentro una di queste lettere, si trovò la fotografia del giovanetto, fatta a Parigi; una figura graziosa, gentile, minuta, dagli occhi profondi, dal labbro appena ombreggiato da una fine peluria. Aveva vent’anni, le donne esaltavano la sua intelligenza e la sua bontà. Sul principio dell’inverno, quando tutti erano rientrati a Milazzo, egli tornò. Era più grazioso e più gentile di quel che non mostrasse il ritratto, ma un fanciullo ancora. Ella lo guardava con una tenera simpatia: le pareva di aver dinanzi quel figlio al quale si era tutta dedicata, augurava al suo ragazzo un’indole buona e dolce come quella di lui. Lo vedeva spesso, in casa di sua madre, qualche volta per istrada; parlavano dei loro viaggi, dei libri che egli le aveva cominciato a prestare; ma era lei che lo interrogava, poichè una timidezza infantile lo confondeva, gli faceva talvolta salire al viso bianco e delicato le fiamme d’un sangue vivido e sano. Una sera, a un battesimo in casa D’Arrico, dov’ella aveva portata, dopo tanto tempo, una toletta che la favoriva, s’accorse che egli la guardava da lontano, in atto di estatica ammirazione; come lo sguardo di lei lo sorprese, parve avvampare in viso. Più degli elogi che la gente le prodigava pel suo gusto, per la sua eleganza, quel muto omaggio le procurava un gradimento sottile ma lungo, persistente, rinnovato a misura che quell’estatica espressione tornava a dipingersi sul volto del giovanetto. Di tratto in tratto, ma con una frequenza sempre maggiore, ella si sorprendeva in atto di pensare a lui, al turbamento che aveva dovuto produrre nella sua vergine fantasia. Per quel fanciullo che pena s’affacciava alla vita, che non aveva paragoni da istituire, ella personificava la seduzione; ma benchè sapesse quanto piccolo fosse il proprio merito, non poteva sottrarsi all’intimo contento che quell’omaggio le procurava. Era una vanità innocente; il pensiero di spiegare l’istinto della civetteria era tanto lontano da lei! Con un fanciullo! con chi poteva esser suo figlio!
In primavera, andò ancora al Gelso. La famiglia, di lui tornò ad esserle vicina, si riprese l’intimità della passata stagione. Si vedevano ogni giorno, spesso più d’una volta in uno stesso giorno: la vita libera della campagna stringeva la loro confidenza. Le sere che ella andava a trovare i vicini, essi la riaccompagnavano a casa; talvolta, quando le donne erano stanche e i reumi tormentavano più fortemente il barone, veniva Maurizio solo. Un silenzio misterioso regnava sui campi addormentati, rotto ad ora ad ora da un lontano latrare di cani, dal primo stridore delle cicale, delle modulazioni d’uno zufolo. Sull’orlo dei fossati, fra le erbe che cominciavano a ingiallire, s’accendevano i fuochi pallidi e freddi delle prime lucciole, e i profumi delle piante aromali, della menta, del rosmarino, del fior d’arancio, si diffondevano nell’aria dolce e molle. Ella s’attardava pei sentieri, lasciando cadere il discorso, traendo lunghi sospiri.
— Com’è buono! Sentite che odore di reseda! È quella dei miei viali.
Egli ne portava ora, ogni giorno, una ciocca all’occhiello. Tutte le volte che la accompagnava, ella lo invitava a lasciarla dinanzi al cancello, dove il fattore l’aspettava attorniato dai cani saltellanti; ma egli mormorava:
— Se mi manda via…
— Ma no, tutt’altro! Dico per voi che dovete tornare indietro.
Dinanzi alla fontana, ella reiterava il suo invito; ma il giovane insisteva per accompagnarla ancora, fin quando, ai piedi della scala della terrazza, come dinanzi ad una soglia vietata, ella diceva risolutamente, tendendogli una mano:
— Adesso, addio!
Egli se ne tornava a lenti passi; talvolta s’udiva il fruscio delle erbe che sferzava col suo bastone. Una sera che era piovuto e la via pareva un pantano, ella andava accanto a lui, guardando dove metteva i piedi, alzando l’orlo della sua veste, facendosi forza per non dirgli: «Datemi il vostro braccio!» Egli la guidava, avvertendola di torcere cammino, di evitare una pozzanghera; a un tratto le disse:
— Vuole appoggiarsi?
Ella passò una mano dietro il braccio che egli le offriva, ma non ardiva appesantirvisi. Andavano così, a fianco, ma or discosti ora vicini, come le difficoltà del cammino volevano; il giovane parlava con maggiore vivacità del consueto; si sentiva nella sua voce una gioia trepida e contenuta: ella non aveva ancora provato accanto ad un uomo un turbamento simile a quello che la guadagnava. Perchè? Ella non voleva comprendere il significato dell’attitudine di lui, voleva stornare gli sguardi dalla sua figura che le risorgeva continuamente dinanzi… Il domani di quella passeggiata, aprendo un libro che egli le aveva mandato, dei petali di rosa le caddero in grembo: ma quanti! una pioggia: bianchi, giallognoli, rosei, rossi d’un rosso così cupo che sembrava sangue rappreso… egli l’amava! Quei fiori erano stati sfogliati per lei, per dirle ciò che il labbro non osava! Ella scrollava il capo, impercettibilmente e tristamente: per quale fatalità doveva incontrare altre passioni nel breve cammino che le restava ancora a percorrere? La delicatezza ingenua di quel fanciullo le procurava una commozione tenera e malinconica; ella pensava ai tesori d’affetto che quell’anima vergine avrebbe voluto spendere per lei, agli slanci di cui doveva esser capace, alla morte che sarebbe stata per lui l’inevitabile rifiuto col quale gli avrebbe risposto. Ma ella avrebbe saputo lenire la piaga, gli avrebbe fatto vedere l’impossibilità di quell’amore, parlandogli come una madre!
Aveva serbato qualcuna di quelle foglie di rosa di cui il libro era pieno. Nel restituirlo, gli disse:
— Scusate se ho confuso i segni posti tra le pagine…
Egli rispose, avvampando:
— Non fa nulla… non erano segni…
Però, in un altro volume, un romanzo, ella trovò un passaggio d’amore sottolineato con la matita rossa. Allora, prima di continuare nella lettura, cominciò a sfogliare il libro: non v’era espressione appassionata, frase poetica, che non fosse notata. Ella le divorò tutte, con la fronte in fiamme, il respiro affrettato, un’inquietudine s’impadroniva di lei, un’irrequietezza nervosa che si sfogava sulla gente da cui era attorniata. Nessuno dei due faceva un accenno a quella corrispondenza indiretta; ma un imbarazzo sempre più grande li vinceva entrambi. Una volta che ella gli aveva mostrato un lavoro all’uncinetto eseguito da lei, le punte delle sue dita sfiorarono quelle di lui sotto il tenue merletto: un tocco lieve, l’ombra d’una carezza che le mise però un lungo brivido per tutto il braccio… Un giorno, repentinamente, i suoi vicini annunziarono che tornavano in città: una freddezza insolita era nell’accoglienza che le facevano; Maurizio aveva gli occhi rossi, come se avesse pianto.
Lo portavano via; si erano accorti di qualche cosa e lo sottraevano al pericolo d’una passione per una donna come lei! E ad un tratto, non vedendolo più, ella si nascondeva il viso tra le mani, atterrita dalla verità che non poteva più rifiutare di conoscere: ella lo amava! Lo amava! Lo amava perchè egli era buono e sincero! Perchè il suo vecchio cuore le batteva sotto il seno sfiorito così forte come un tempo! perchè aveva ancora bisogno d’un pascolo! L’interesse che quel fanciullo le aveva destato fin dal primo momento, l’assiduità con la quale aveva pensato a lui, la commozione provata nello scoprire i primi sintomi della passione nascente, il turbamento che la sua vicinanza le metteva nello spirito e nei sensi, era l’amore che tornava ad avvamparla! Ella sentiva mancarsi, pensando a quel che dovevano essere le parole d’amore di quel fanciullo che non aveva ancora amato; e lo chiamava, sommessamente, imaginando di tenerselo a fianco, di passargli una mano fra i capelli, di sentire la sua guancia candida e fresca poggiarsi sulla guancia di lei, le sue labbra cercare le sue. Come lo avrebbe amato! Come avrebbe prodigato per lui tutto quel che le rimaneva di ciò che era stata una volta! Poi, nel rivedersi allo specchio, nell’osservare il disfacimento delle sue fattezze, il raccapriccio le faceva chiudere gli occhi; sentiva orrore di sè stessa, riprovava il disgusto che le avevano destato le vecchie avide dei fanciulli, ridotte al mestiere delle iniziatrici…
A Milazzo, la freddezza della sua famiglia s’accrebbe: evitavano di incontrarla, la salutavano appena. La madre aveva cominciato a parlare contro di lei, s’era schierata fra i suoi avversarii, minacciava di fare uno scandalo se ella non si levava dal capo di sedurle il figliuolo. Delle lacrime di umiliazione le bruciavano gli occhi; ma ella riconosceva che la madre aveva ragione, che quell’amore era un tristo inganno, che se si fosse consumato avrebbe avuto per tutti il più sciagurato domani. Andar via era il partito che le si presentava ancora: ma dove? sotto qual cielo ella sarebbe stata sicura? Quando avrebbe finalmente trovato il riposo? E come scorgeva Maurizio passare e ripassare dalle sue finestre, aspettarla nelle vie, seguirla in chiesa, guardarla con un’espressione più ardente, il cuore cominciava a tumultuarle, le persuasioni lusingatrici tornavano ad assalirla. Era egli proprio il fanciullo che pareva? Compiva a momenti ventidue anni: era un uomo. Ed ella lottava ancora contro la vecchiezza, si trovava a giorni non ancora disprezzabile, sentiva che malgrado le tristezze provate, ella era rimasta nell’anima come a vent’anni. Tornava quasi a riaverli. Uno sguardo che egli le dava da lontano la rendeva felice per tutto un giorno; un’ora prima che egli passasse sotto la sua finestra, ella si metteva ad aspettar dietro i vetri, sussultando all’apparir d’ogni forma che le ricordasse quella di lui; se egli non portava la ciocca di reseda all’occhiello, un rammarico sottile l’invadeva, come per un segno di trascuranza. Era uno stupore. All’appressarsi della domenica, ella ritrovava lo stesso senso di giocondità, che la guadagnava, fanciulla, all’idea della festa: in quel giorno ella poteva vederlo più da presso, più a lungo; e come la sera calava sulla sua letizia, il cuore le si tornava a chiudere, come al tempo dei tempi, quando ella si rannicchiava nel suo verginale lettuccio… E la sua fantasia le svolgeva ancora dinanzi altri romanzi; vincere tutti gli ostacoli che sorgevano fra loro, fuggire con lui in una plaga remota, ignorata, deserta: un idillio soavissimo, una gioia ineffabile… Oppure sacrificarsi per lui, indurlo a sposare una fanciulla che avrebbe potuto farlo felice, disarmare il rancore di sua madre, farla ricredere, e poi scomparire, nascondere a tutti il proprio lutto inconsolabile… Ma come seppe che egli era ammalato, come comprese che soffriva per lei, per la lotta sostenuta fra l’amore che le portava e il rispetto filiale, ella sentì traboccare la sua tenerezza. La notte, tra veglia e sonno, era uno strazio senza fine che ella provava, credendo di vederlo dinanzi a sè, slanciarsi verso di lei, con le braccia tese, disperatamente, e ricascare indietro, alle stratte delle catene da cui era avvinto. Anelando di confondersi in un abbraccio supremo, essi erano a forza disgiunti, e lontani l’uno dall’altro un languore mortale, un lento esaurimento li spegneva a poco a poco. Le vecchie fiabe di cui la sua fantasia s’era prima nutrita, le storie d’amor disperato, di giovinetti principi sospiranti alle Belle superbe, di madri imploranti la compassione di queste, le tornavano a memoria: nel veder la vecchia Stefana aggirarsi per la casa, curva dagli anni, rammentava le sere dell’infanzia remota, passate nell’udir quei racconti e nel lungo fantasticare quando la voce della serva moriva nel sonno…
Tutti gli espedienti da lei posti in opera per avere notizie di Maurizio, per sapere qualche cosa della sua salute, cadevano intanto dinanzi all’ostilità della famiglia di lui. La sua disperazione cresceva; ella finiva per non intender più nulla intorno a sè, per trovar tutto inutile, per veder tutto nero. Non spendeva più nessuna cura per la sua toletta: poichè egli non poteva vederla, che interesse aveva a farsi meno brutta? Una domenica che era andata a messa senza veletta, coi capelli malamente raccolti, ella sentì soffocarsi, scorgendolo. Era pallido e smunto, i suoi occhi accerchiati da un lividore splendevano più intensamente nel fissarsi su di lei; ma sopra la gioia del rivederlo, sopra la pietà del suo male; ella sentiva serrarsi il cuore d’angoscia nel mostrarsi a lui come era, orribile, spaventevole, nell’imaginare la repulsione che la sua vecchiezza doveva ispirargli. E con uno sguardo d’umiltà implorante, di trepidazione paurosa, ella interrogava la fisionomia di lui, come nell’attesa di una sentenza di morte; ma lo sguardo del giovane, fisso, avvampante, diceva che ella era sempre per lui la bellezza, la seduzione, l’amore! Con un gesto smarrito ella tentava di raccogliere i suoi poveri capelli, di nascondere le guancie dietro ai larghi nastri del suo cappello; ma, a casa, fermandosi dinanzi allo specchio, sentì mancarsi, come all’apparizione di uno spettro; la sua pelle era macchiata, il collo rugato, annerito; i capelli rari, secchi, giallastri: ella non s’era ancora vista così! Nel nuovo studio di nasconder quelle rovine, un riverbero dell’antico splendore luceva sul suo viso; ma ella si sentiva oramai colpita al cuore; la sua seduzione le pareva simile a quella di Armida, e nel rileggere il vecchio Tasso macchiato d’inchiostro sentiva di sè stessa la pietà che la maga le aveva un tempo ispirata.
Contava di vederlo più da vicino in autunno; ma gli Squillace andarono invece, per evitarla, a Spadafora. Triste autunno, passato nella solitudine, nell’evocazione dolorosa di una gioconda stagione, ma confortata non sapeva ella stessa da qual vaga lusinga, da quale aspettazione. A novembre, ella tornò a casa. Fu una sera fredda e piovosa, passata col suo notaio che era venuto a parlarle di certi contratti: sul punto di andarsene, egli cominciò a riferirle le notizie cittadine, i casi della gente, dei quali era sempre informato pel primo.
— Gli Squillace sono partiti, pel continente… staranno un pezzo; pare anzi che vogliano stabilirsi fuori…
Ella non udì altro, non vide l’uomo andar via: si trovò dinanzi alla finestra, con la fronte sul vetro freddo e rigato dalla pioggia. Perduto! Senza speranza! Disgiunto per sempre da lei, oltre quel mare, da uno spazio smisurato! Il mare era formidabile, cingeva la riva d’una corona di spuma; la luna correva impazzata tra le nuvole rotte, proiettava la sua luce scialba sulla cresta dei cavalloni e l’orizzonte si perdeva in un buio fitto di nebbia… Un sogno svanito, l’ultima lusinga distrutta: e un rammarico tanto più lancinante, quanto più quel sogno s’era salvato dalla jattura delle prove reali. Ora, pensando alle commozioni soavi, alle delicatezze timidamente ingenue, all’alito fresco di poesia che quell’amore inespresso le aveva fatto passare per l’anima stanca e sconfortata, pensando che tutto questo moriva per non più rinascere, uno strazio ineffabile le rigava di lacrime il volto… Il vento fischiava, spazzava la via, faceva oscillare le fiamme dei lampioni; non un passante, non un segno di vita; solo la voce sorda, il cupo rombo del mare… Addio! Addio! Per sempre! Non era lui soltanto che spariva: era la speranza, la lusinga, tutto ciò che aveva dato un prezzo alla vita e che non sarebbe tornato mai, mai più! Che freddo! Che gemiti nell’aria, che schianto nel cuore! Il suo pianto non cessava; ella non aveva la forza di togliersi di lì, le pareva che un’oppressione mortale l’avrebbe soffocata fuor della vista della tempesta: avrebbe voluto correre lungo la riva fragorosa, mescolare agli urli degli elementi l’urlo della sua disperazione… Il rumor d’un passo la fece trasalire ad un tratto; era Stefana che le si appressava, trascinandosi penosamente per domandarle:
— Hai nulla? Che hai?
— Nulla, lasciami! Non ho nulla; va a letto.
Tornava ad appoggiar la fronte sul vetro, rabbrividendo; e il ricordo di altre notti passate così, senza sonno, senza riposo, col cuore in tempesta, con la mente smarrita, si evocava nella sua memoria. Quante! Quante! La notte che era fuggita dalla casa maritale, quella in cui Arconti l’aveva abbandonata, quella in cui ella aveva abbandonato Sartana; e ancora la notte della sua partenza da Palermo, quando aveva tentato sottrarsi all’amore di quest’ultimo, e le notti passate con Arconti a Castellammare, quando un pericolo di morte le sovrastava, e ancora la notte in cui aveva appresa la morte di Morani… Allora, la storia della sua vita le ripassava tutta sotto gli occhi; ella rivedeva le figure di quelli che s’erano trovati sul suo cammino, dei vivi e dei morti; ella ripensava i suoi amori, i i suoi errori, i suoi dolori, le continue alternative di fede e di sfiducia, di cieche impazienze e di tardi pentimenti, le sue eterne aspettazioni risolte nella presente vuota tristezza; ma da questa il suo pensiero ricorreva ancora al passato, a scene perdute, a profili appena intravisti, e l’evocazione si svolgeva continuamente, come una serie d’imagini sfilanti dietro a una lente… Tratto tratto, delle persuasioni si facevano nel suo spirito; come lampi, delle verità l’abbagliavano. Aveva aspettato troppo grandi cose, per questo tutto l’aveva scontentata! Aveva temuto troppo, e qual dolore era stato veramente insopportabile? Nel credersi diversa dagli altri come s’era ingannata! La sua storia era la storia d’ognuno! Come tutti, aveva apprezzato le cose prima di ottenerle o quando eran svanite. In ogni periodo della sua esistenza, aveva tutt’in una volta rimpianto il passato e riposte le sue speranze nell’avvenire! Nondimeno, dei giorni felici erano sorti per lei; ma la felicità dileguata era un nuovo motivo di cruccio! Uno solo di quei giorni tramontati poteva forse risorgere? Che cosa non avrebbe dato perchè anche i tristi tornassero? Ma tutto era scomparso per sempre! Come il pellegrino nel deserto, era andata innanzi, attirata dalla vista dell’oasi fresca ed ombrosa; ma il miraggio l’aveva ingannata; e il più terribile era questo: che dopo aver riconosciuto nell’allettante spettacolo un vano giuoco di luce, aveva continuato a crederlo vero, a lacerarsi i piedi sulla sabbia infocata! Quante volte l’ingrata realtà le si era svelata? Ed aveva accolto sempre nuove lusinghe! Quante volte aveva creduto di conoscere la vita? E l’esperienza passata era stata inutile, ed a costo di lacrime aveva ricevute nuove lezioni inutili anch’esse! Ora però che chiudeva gli occhi e si volgeva indietro col pensiero riconosceva la gran vanità. Che cosa distingueva più i ricordi delle impressioni reali da quelli dei sogni? E sul punto di chiuder gli occhi per sempre, questa vita che prima d’esser vissuta era piena di tante promesse, non si riduceva ad un mero sogno, tutta? E poi dopo? Triste! Triste! Terribile!
La tempesta non si placava, il freddo si faceva più acuto: che notte… che notte! Ancora un rumor di passi strascicato, e Stefana tornava a chiederle, premurosa ed inquieta:
— Perchè non vai a letto? È mezzanotte suonata…
— Adesso… più tardi; lasciami, non vedi che soffro?
Ella andava ora di su e di giù per la stanza, si lasciava ogni tanto cadere sopra una seggiola; poi scattava in piedi, insofferente dell’immobilità. Le mancava il respiro, si sentiva tolta l’aria, pensando all’avvenire, ai giorni incerti ed oscuri che l’aspettavano; poi, come la figura di Maurizio le si ripresentava alla mente, ella s’incolpava come d’un tradimento dei pensieri che aveva sottratti a lui. Addio! Addio! Ella tornava a piangere, inconsolabilmente, pensando che nulla avrebbe potuto consolarla della perdita di quell’amore, dell’ultimo amore, tenero e puro e forte com’erano stati i primi….
Le ore passavano, ella non le avvertiva; le pareva che quella notte durasse da un’eternità, che non avrebbe avuto mai fine. Girava gli occhi per la camera, e ciascuna cosa su cui il suo sguardo si posava le suggeriva nuove visioni; a ondate, i ricordi la travolgevano. Di repente, uno scricchiolio la fece rabbrividire. Sorse in piedi, irrigidita, cogli occhi sbarrati dalla paura. Il silenzio tornava a piombare sulla casa, non si udiva più che il gemito della raffica e il fragore del mare. Ella ricadde sulla sua seggiola, col capo sul petto, le braccia pendenti. Una gravezza di sonno morboso ora la inchiodava a quel posto; i contorni delle cose si perdevano dietro il velo delle ciglia calanti, i suoi pensieri fluttuavano, si confondevano, finivano per ismarrirsi. A scatti, ella rialzava il capo, guardava attonita dinanzi a sè; poi tornava ad abbattersi. Un rumor sordo, come un lamento trattenuto, la fece sussultare di nuovo. Questa volta ella s’alzò, passò nella stanza vicina. Seduta contro l’uscio, agghiacciata dal freddo, con la testa reclinata e le braccia raccolte sul petto, Stefana aspettava lì dietro. Vedendo la padrona, tentò d’alzarsi, ma l’intorpidimento delle sue vecchie membra non glie lo consentiva.
Ella prese ad ammonirla, affettuosamente:
— Perchè non sei andata a letto? Vuoi ammazzarti, così?
— Adesso… — rispose, con voce velata — Quando andrai anche tu…
L’aiutò ella stessa a levarsi, la sorresse fino alla sua cameruccia. La vecchia batteva i denti.
— Stai male?
— No… no.
Col giorno, la febbre l’assalse. Non volle che la padrona chiamasse nessuno, asseriva di non aver nulla. Ma come la febbre era alta, ella mandò pel dottore. Il delirio sopravvenne. Nel delirio biascicava parole incomprensibili; un nome solo s’udiva: Teresa. Il terzo giorno un miglioramento parve determinarsi. La riconobbe: nel vederla i suoi occhi velati tornavano a brillare. Coi segni, le diceva di mettersi a sedere accanto al capezzale, le prendeva una mano e restava un pezzo tenendola così. Peggiorò rapidamente. Sul far della notte, la casa fu invasa dalla gente che seguiva il Viatico; ma i sacramenti le furono amministrati che già rantolava.
Era una nuova tristezza che scendeva su lei. Ora, ella non aveva più la paura d’una volta in presenza della morte; la miseria della vita non le rendeva più insoffribile quel tragico spettacolo. Così, all’alba del domani, quando vennero a dirle che Stefana era spirata, ella s’inginocchiò, pregò un poco, poi passò nella camera mortuaria. La finestra ne era spalancata, due candele ardevano sopra un tavolo dinanzi a una imagine sacra. Il cadavere era così rimpiccolito che pareva quello d’una bambina. Una benda passata sotto il mento e annodata sul capo tratteneva la mascella cascante. Ella restava a contemplare una mano della morta, una povera scarna mano che aveva avute tante carezze per lei, e la sua mente si perdeva al pensiero dell’umiltà di quel destino, dell’oscurità di quella vita ora spenta.
La vecchia serva non aveva più nessun parente; nessuno veniva a reclamare la misera successione. Ella ne fece l’inventario. V’era della biancheria, delle vesti, un piccolo gruzzolo di risparmii. Una cassetta dipinta in verde, che Stefana aveva sempre trascinata con sè quando aveva accompagnata la padrona, era posta dentro una cassa più grande, ma la chiave non si trovava. Ella non sapeva che cosa contenesse; supponeva vi fossero degli altri denari, il frutto di lunghi anni di lavoro. Pensava di distribuirle in elemosine, di far dire delle messe in suffragio di quell’anima semplice e buona, quando, un giorno, il cameriere le presentò una piccola chiave, cascata da una vecchia veste della morta.
Era quella della cassetta. Come ella l’aprì, come ne trasse le cose che vi erano dentro, le sue mani cominciarono a tremare. V’era una vesticciuola che ella aveva portata a dieci anni, un ramoscello del fior d’arancio del suo abito nuziale, i vecchi quaderni delle sue lezioni, una puppattola con la quale aveva giuocato bambina, i carnets dei suoi balli, gl’imbuti di carta ricamata che avevano rivestito i mazzi di fiori offertile per le sue feste, le imagini di santi ricevute in premio al tempo delle sue prime comunioni. Man mano che ella traeva uno di quegli oggetti sformati e scoloriti, i rottami della sua vita che un affetto cieco, del quale ora apprezzava l’intensità, aveva serbato come reliquie, era una trafittura che ella sentiva al cuore. In un angolo, tra vecchi fiori e nastri di cappelli, stava il suo ritratto di fanciulla, quella che ella non era riuscita a trovare quando aveva voluto donarlo ad un amato. Non contenta di starle sempre al fianco, la vecchia aveva voluto custodir la sua imagine; quelle cose religiosamente raccolte, per tanti e tanti anni, attraverso continue peregrinazioni, dicevano la devozione, l’idolatria che quel povero essere aveva avuto per lei. Le reliquie le restavano ora tutte dinanzi: ella le contemplava con occhio arido e fisso. Il pensiero di non poter più confortare quella povera donna d’un sorriso, d’un abbraccio, l’opprimeva. Ella non l’aveva pianta neppure! Adesso rammentava tutte le volte che l’aveva maltrattata, che le aveva date delle risposte dure, che l’aveva respinta come un essere inferiore, incapace di comprenderla. Invece, la buona creatura le si era attaccata sempre di più. Che bene le aveva voluto! Come l’aveva protetta bambina, come l’aveva ammirata fanciulla e sposa! «Tu sembri una regina!» Che orgoglio metteva nel farla più bella, che indulgenza nel piegarsi a tutte le sue volontà! In ogni suo dolore, ella l’aveva trovata al fianco, vigile, inquieta; era vissuta della sua vita, era morta quasi per lei. Ed ella l’apprezzava ora soltanto; riconosceva, sempre tardi, che nessuno, mai, l’aveva amata così.

FINE.