IV.

La levatrice, curvatasi su di lei che, appena tornata in sensi, la interrogava cogli occhi, esclamò trionfalmente:
— Eccellenza, un maschio! Un maschio!
E subito dopo Guglielmo entrò, pallido, ancora tremante dall’emozione.
— Teresa! Come stai? Hai sofferto?
Ella fece un gesto vago, col braccio fuori delle lenzuola, per dire: «Tanto!»
— È un maschio, sai? Io non mi son fidato di vederti soffrire… portatelo qui…
E la baciò in viso.
Intorno alla zia, che entrava col neonato in braccio, la levatrice, Stefana, le donne di servizio, facevano un gruppo estatico. Ella vide il suo bambino, paonazzo in viso, cogli occhi socchiusi, e la prima impressione fu un rinnovamento della sofferenza che le era costato.
Guglielmo lo tolse alla zia e glie l’appressò.
— Guarda com’è grande e sano!
— Sono dunque buona a qualche cosa? — disse lei, con un debole sorriso.
E come si sentiva adesso al fianco la piccola creatura, il corpicino fragile e tiepido, vivo frutto delle sue viscere, il ricordo dei tormenti sofferti si disperdeva, si dissipava, nel dilagamento di una tenerezza orgogliosa, di una gioia superba. Un rammarico secreto però l’offuscava: ella pensava alla figlia che aveva aspettato, sentiva quasi il dolore di averla perduta…
I giorni del puerperio passarono rapidamente, pieni di visite, di congratulazioni, della gioia sempre nuova di sentirsi allato la piccola creatura, della sensazione voluttuosa di un ritorno alla salute, del sapore che la vita cominciava a riprendere. Si era ostinata ad allattare la creaturina; però essa non si nutriva, diveniva inquieta, e Guglielmo, sostenuto dal dottore, l’assediava a tutti i momenti:
— È una pazzia! Bisogna prendere una nutrice, il bambino deperisce a vista d’occhio! Soffri tu stessa…
Finì per cedere, a malincuore. Le pareva che la sua sofferenza sarebbe stata santa, che il conforto d’un dovere compiuto l’avrebbe compensata a dismisura. Ma la salute del piccolino era a patto della sua rinunzia. Dinanzi allo specchio, la prima volta che lasciò il letto, rimase lungamente a guardarsi, passandosi una mano sulle tempie, trovando che non era molto imbruttita, che il pallore diffuso sul suo viso le stava bene.
Pel nome da mettere al bambino c’erano state lunghe discussioni. Se avesse avuta la figlia che ella desiderava, l’avrebbero chiamata Costanza, come la moglie di Enrico VI, l’ultima d’Altavilla che cinse la corona regale; ma aspettando e quasi pretendendo un maschio, Guglielmo s’era ostinato a volerlo chiamare Drogone, il solo nome di famiglia che s’era perduto nel corso dei secoli. Ella non aveva voluto acconsentire, parendole troppo curioso: Drogone, Dragone! Le sue preferenze erano per Tancredi, lo zio marchese aveva proposto Ruggero, ma tutti s’erano finalmente accordati sopra Roberto. Per la festa del battesimo arrivò il nonno da Milazzo; la cerimonia venne celebrata in casa, dinanzi a un altare improvvisato, tutto risplendente di ceri, tutto odoroso di fiori, tra una folla di parenti, di amici, di conoscenze. Dei bambini e delle bambine, intorno al gruppo formato dal prete, dal piccolo chierico, dalla levatrice e dai compari, reggevano delle grosse torcie, serii, impettiti, cogli occhi sgranati dinanzi al nuovo spettacolo; e lacrime di commozione le rigavano le guancie, a quella vista, nell’udire le sacre parole, nel baciare in fronte la sua creatura divenuta cristiana…
A poco a poco, finì di rimettersi, le rose della salute le fiorivano in viso; però il suo corpo s’era sformato, aveva preso delle pieghe indelebili. Una tristezza sottile la penetrava: ripensava al suo passato di fanciulla come a quello di una morta. I sorrisi di Bébé la riconfortavano: ella sarebbe vissuta tutta per lui. Aveva ripreso a ricevere, a rivedere le amiche: il matrimonio di Bice Emanuele col barone Ragalna si compiva giusto in quei giorni. Che brutto uomo! Che maniere goffe! E pensare che quella sua compagna aveva sdegnato tutti i corteggiamenti dei giovani più graziosi ed amabili, non trovandoli abbastanza rispondenti al suo ideale! Che sorprese riserbava la vita! Adesso, nelle conversazioni mondane, da certe allusioni, da qualche reticenza, ella s’accorgeva che la voce riferita da Sampieri intorno a Giulia Víscari si faceva strada, che le davano Toscano per amante. L’amica era come prima gaia e spensierata: a seguirla in tutti gli atti della sua vita non si poteva comprendere se le allusioni della gente fossero fondate o no. Ed ella passava lunghe ore pensando a quel mistero, con un’avida curiosità di penetrarlo. Se era vero quel che si mormorava, voleva dire che Giulia aveva fatto un calcolo sposando un altro, aspettando di tradirlo — e qual fede, dopo questo, poteva avere in lei il suo amante? Ma non era anch’egli un uomo leggiero, incapace d’un vero sentimento? A momenti, li invidiava imaginando le secrete felicità che dovevano gustare; più tardi, vedeva nella loro condotta la negazione d’ogni poesia. Ma se era stata invece una fatalità che li aveva rimessi in presenza l’uno dell’altra? E quelle imaginazioni la stordivano.
Venivano in casa sua molti uomini, dei giovanotti eleganti; per difendersi dalle tentazioni ella metteva fra loro e sè stessa il suo bambino, come un’egida, come un baluardo. Però un bisogno di carezze la spingeva verso suo marito — ed egli tornava ad esser freddo con lei. Era pazzo pel figliuolo, restava lunghe ore a giuocare con lui, lasciandosi strappare i capelli, facendolo ballare, buttandosi per terra, ridiventando bambino; ma poi, consegnatolo alla balia, si vestiva, andava via e non tornava che all’ora del desinare.
Ella gli leggeva in viso nuovi tradimenti, nuove tresche; però non si ribellava più come un tempo. Comprendeva che oramai tutto era inutile, che bisognava lasciarlo fare, rassegnarsi a non contar su di lui. Crescendo, Bébé si faceva irrequieto, aveva delle smanie nervose durante le quali si dibatteva e gridava, ostinatamente, ferocemente, senza che nulla valesse a calmarlo. Quelle strida finivano per irritarla, per darle quasi la voglia di picchiarlo. E doveva anche sentire suo marito che incolpava lei, perchè non sapeva prenderlo con le buone. Poi si rimproverava d’essere una cattiva madre, tornava vicino al figliuoletto, sopportando pazientemente le sue bizze, il suo pianto, la sua rabbia.
Erano andati ancora in campagna: Sampieri non c’era più. Ella passava il suo tempo leggendo, divorando romanzi sopra romanzi, d’ogni genere e d’ogni dimensione, fino a stordirsi, fino ad ubbriacarsi. Questa volta la vita dei campi la seccava, le goffaggini dei contadini non la facevano più ridere. Pensava all’inverno, alle feste dove sarebbe andata, alle tolette che avrebbe portate; e appena tornata a Palermo andò a trovare Giulia Víscari, per prendere i suoi consigli.
Al portone, fecero qualche difficoltà prima di lasciarla passare, come se per lei l’amica non fosse sempre in casa.
— Sei visibile? — disse, entrando nel boudoir mezzo buio. — Si può aver l’onore e il piacere?
Giulia le venne incontro, la baciò, e si mise ad ascoltare ciò che ella narrava della villeggiatura, del suo bambino, dei suoi progetti.
— Che cosa si porta, quest’anno? Hai ricevuti i figurini? Tu vedi in me una massara di Borgetto!
L’amica le diede dei giornali di moda, che ella sfogliò, appoggiandoli sulle ginocchia di lei, sollevando la veletta per veder meglio le figure colorate.
— Guarda che traînes! E come si fa a muoversi? Da per tutto giallo, intanto… pare che si porti molto?
— Sì, credo…
— Ma coteste pettinature basse sono un orrore! Guarda che teste! Sembrano schiacciate… è una moda disgraziata, non trovi?
— Sì…
Giulia, col viso in ombra, non guardava i giornali, rispondeva a monosillabi.
— Tu non hai pensato a nulla, ancora?
— Non ancora…
— Io, sai, vorrei cambiar sarta: quella Rabbi non me ne azzecca una. Vorrei prendere Grandoni, ma per un abito così… il bello lo farò venire da Parigi. Ti decidi anche te?
L’amica non rispose.
— Diamo insieme la commissione! Se non sei decisa, t’aspetterò… bisogna eclissare tutte le altre, non debbono guardare che noi!
A un tratto, ella udì un rumore sommesso, come un singulto.
— Cos’è?
Giulia, con la testa sul petto, il corpo sollevato da rapide scosse, rompeva in pianto disperato.
— Giulia! Tu piangi? Giulia, cos’hai?
L’altra scrollava le spalle, con un moto convulsivo, mormorando:
— È finita! Per me è finita! Non v’è più nulla!
— Ma Giulia! Giulietta! Buon Dio! Guardami, ascolta!
E cavato di tasca il fazzoletto, fattasi vicina all’amica, le asciugava gli occhi, l’abbracciava amorosamente, le prendeva la testa fra le mani guantate.
— No… lasciami! Io sono morta! — Di repente la scostò, porgendo ascolto, con una paura mortale sul viso.
Ella s’era alzata, mettendosi innanzi alla sua compagna, pronta a difenderla, a coprirla col proprio corpo. Ma nessuno veniva, e Giulia riprendeva a gemere, sommessamente.
Delle domande le salivano alle labbra, temeva però di essere indiscreta. Chiese soltanto:
— Tuo marito?
— Sì, mi ucciderà… lo ucciderà… Dio! Dio! Va’, corri, salvalo!
— Sì, quel che tu vuoi!… conta su di me, per la vita e per la morte!
Ella aveva già compreso che si trattava di Toscano; senza nominarlo, Giulia le narrava confusamente, a frasi lacerate dai singhiozzi, la storia di quella passione, il tradimento di una cameriera, la scena fatta dal marito la notte innanzi, i suoi tentativi di difesa, l’incertezza paurosa in cui ora viveva.
— Ma allora vattene di qui! Torna da tua madre!
— Per confermare i sospetti di lui? Mio Dio! Mio Dio! E non poter avvertire quell’altro… non potergli mandare una parola!
— Sono qua io!
— Tu? Sì, è il Signore che ti manda!  Ascolta… questo biglietto… lo avevo preparato stamani… lo metterai alla posta? Teresa, sorella mia!
Ella andò via tutta turbata dalle rivelazioni dell’amica, da quel soffio di passione fatale che s’era sentito alitare in viso. Adesso giustificava i due amanti; e negli stessi pericoli che pendevano sul loro capo trovava un fascino arcano. Quelle lotte, quelle emozioni non davano un prezzo alla vita? Più che di compianto, Giulia le pareva degna d’invidia! La trovava soltanto troppo debole: al suo posto, ella si sarebbe lasciata straziare il petto senza piangere, senza confidarsi a nessuno, neppure alla sua mamma! Si sarebbe composta una maschera in viso, avrebbe recitata una parte da commedia, sorridendo con la morte nel cuore!
La sera dopo, Guglielmo, girando intorno alla tavola da pranzo prima di prendervi posto, annunziò:
— Il barone Turi ha cacciata via sua moglie. Non si parla d’altro.
— Come? Quando?
— Oggi; ha intercettata una lettera di Toscano, chiara ed esplicita… ha mandato a chiamare i parenti di lei, ha detto loro: «Conducete via questa signora.» L’ha cacciata via come si trovava, in veste da camera e pantofole, dinanzi a tutti i servi. Ha fatto benissimo.
Ella rispose, lentamente:
— Se questo signore fosse qui, gli direi sul viso che è un facchino.
— Ah, è un facchino? Allora, che cosa doveva fare? Dirle: «Continuate pure, accomodatevi, volete anzi che io vi regga il candeliere?»
— Come sei volgare!
— La distinzione che mi viene dinanzi! È un facchino, eh? Perchè la scaccia via, perchè difende il suo onore? Ma io l’avrei accompagnata a calci in dietro!
— Si può difendere il proprio onore senza degradarsi. Perchè fare uno scandalo? Che cosa vi si guadagna? Che tutti sanno subito quel che si sarebbe saputo, in modo vago, più tardi! Avrebbe invece potuto aspettare, cogliere un pretesto per separarsi tacitamente… E non esporre una signora agl’insulti della servitù.
— Una signora, eh? La chiami una signora?
Ella lo piantò lì. Era brutale, volgare ed egoista come tutti gli uomini; sarebbe stato uno sprecar tempo inutilmente il discutere con lui. Un dovere adesso le incombeva: sostenere la propria amica, aiutarla, provarle che l’amicizia non era un nome vano per lei. Avrebbe voluto andare a trovarla subito, quella sera stessa o il domani mattina; però la sua presenza, in quei primi momenti di spiegazioni intime, avrebbe potuto essere inopportuna. Invece, le scrisse: «Amica mia, in quest’ora che una catastrofe tremenda sconvolge la tua vita, che il tuo animo nobile e buono si colma di un’amarezza infinita, io vorrei esserti al fianco per dirti quanta parte prendo al tuo dolore e quanto vorrei adoperarmi per alleviarlo! Ignorando se tu sei in istato di veder gente, aspetto con ansia tue notizie e mi ripeto sempre, sì nei tristi come nei lieti eventi, tua affezionatissima sorella, Teresa.»
Quantunque Toscano fosse partito subito, una tempesta di condanne, di dileggi, di disprezzi piombava intanto sulla caduta, uomini e donne s’accanivano contro di lei e il vuoto le si faceva d’intorno. Ella andò a trovarla, in carrozza aperta, di pieno giorno, innanzi al mondo; e sola contro tutti la difendeva, trovando ingenerosa la condotta delle altre, ripetendolo ad alta voce, in ogni occasione. Ed ecco che una malignità vigliacca le arrivava all’orecchio: dicevano che ella difendeva l’amica perchè all’occorrenza avrebbe contato sul ricambio…. Il colpo la ferì profondamente. Così dunque il mondo apprezzava quello che era in lei moto generoso e sentimento sincero: così, chiamandolo un calcolo, con la gratuita rinnovazione dell’augurio malvagio! Per fortuna, ella non aveva nulla da rimproverarsi, la sua coscienza era netta; ma una solidarietà con tutte le oppresse la faceva ribelle alla ipocrisia sociale. Come se quelle che eran le prime a scagliar pietre, fossero tutte immacolate! Come se la virtù di cui certune si ammantavano non pesasse loro più di una cappa di piombo!
Ella continuava a veder Giulia, ad accompagnarla in pubblico; però trovava che l’amica s’era rassegnata molto facilmente alla separazione dall’amante. Mettendosi col pensiero in una posizione simile a quella di lei, trovava che non avrebbe potuto resistere a viver lontano dall’uomo amato; tanto, il danno era fatto; ma se vi fosse stata qualche cosa da sfidare ancora, chi l’avrebbe arrestata?
Suo marito, inaspettatamente, le disse una sera:
— Potresti fare a meno di star tutti i giorni con la Turi.
— Ti dispiace? — rispose ella, freddamente, pronta a prorompere.
— Mi dispiace, sicuro, tutti i giorni, come se fosse tua sorella! Io vedo che le altre non la trattano…
— Se le altre son vili, non è una ragione che io segua il loro esempio.
— Adesso lascia stare la tua cavalleria da tavola rotonda! Ti ho detto che mi dispiace…
Ella disse, ancora più freddamente:
— Non ho che farci.
— Sentiamo questa, adesso…
— Guglielmo! È inutile che tu insista. Ho un’amica a cui accade una disgrazia… le altre le dànno addosso; io la difendo e la difenderò…
— Ah, la chiami una disgrazia? Povera innocente! è stata una tegola piovutale sul capo, eh? Chi glie l’ha fatto fare, dunque? Che cosa le mancava, in casa di suo marito?
— Tu credi che queste cose si facciano per un bisogno materiale?
— Ah, lo so… i bisogni del cuore! Il vuoto dell’anima! Di’ piuttosto che l’aveva nel sangue, quella…
Ella sorse in piedi, pallida, fremente.
— Bada come parli.
— Parlo come si merita…
— Guglielmo, bada! È una mia amica… Bada che non tollero che tu l’insulti in mia presenza!
Egli brontolò qualche cosa, cedendo dinanzi alla minaccia. Ella s’acquetò a quella sodisfazione; non sapeva dove si sarebbe arrestata se egli avesse continuato.
Abbandonare Giulia, fare come le altre, le sarebbe parsa una indegnità, tanto più che non v’era in quel momento nulla da rimproverare nella condotta dell’amica. Un bel giorno, però, Toscano tornò a Palermo. Allora, l’accanimento contro la caduta ricominciò, più feroce. Ella raddoppiava d’attenzioni per lei. Toscano glie ne era grato, le dimostrava, in certi saluti rispettosi, in certe strette di mano, quanto apprezzava quella condotta. Egli del resto obbligava anche gli altri al rispetto; aveva provocato Platamone, che era stato uno dei più malvagi contro la caduta, gli aveva assestata una tale sciabolata sul braccio, da storpiarlo malamente. E vedendosi ossequiata da lui, ammirando il suo coraggio, la sua eleganza, la distinzione dei suoi tratti, ella pensava: «Se egli s’innamorasse di me?…» Un romanzo s’intrecciava nella sua fantasia: ella vedeva Toscano lottare tra la vecchia passione e la nuova, Giulia accorgersi di avere in lei una rivale; l’amicizia contrastare con la gelosia, l’amore col dovere, dei sacrifizii compiersi da una parte e dall’altra… Fantasie di cui sorrideva, creazioni della sua imaginazione eccitata, che non avevano nessuna base nella realtà, poichè Toscano, come diventato un altro uomo, viveva esclusivamente per Giulia, compensava coi trasporti d’una passione sempre più calda i dolori che la falsa situazione le procurava… Se l’amica sua era dunque tanto felice, voleva dire che non aveva più bisogno di lei; ma, più che questa idea, era una specie d’invidia, sottilissima ed inconfessata, che la faceva allontanare a poco a poco; una sorda gelosia, non per Toscano, che non le veniva nulla, ma per le gioie arcane di cui la vita di Giulia doveva esser fatta…
Però ella adesso vedeva dovunque delle felici. Lisa Ramondetti era amata da Vadalà: l’uno andava dove andava l’altra, e quale emozione non doveva procurare l’incontrarsi in pubblico, cerimoniosamente, con chi si aveva avuto al fianco, nella più grande delle intimità! La Molina le faceva vedere, nel suo salottino, l’angolo in cui passava il suo tempo, circondata da tutti gli oggetti che le erano cari: un quadretto con una iniziale nera per firma, un’anfora di bronzo, un tagliacarte di filigrana d’argento, un cofanetto sempre chiuso — dei regali d’amanti! La baronessa Marcieff, una russa che svernava a Palermo, seguìta da un marito vecchio e filosofo che la lasciava libera di fare tutto quel che le piacesse, era entrata in relazione col conte Roberto di Diana: tutti lo sapevano, sapevano i loro convegni in una casa di via del Papireto, le passeggiate notturne che facevano insieme, al porto, fuori porta Vittoria. La principessa parlava dell’amante innanzi alle persone; a lei una volta aveva detto, spiegando perchè non era andata ad una festa: «Roberto non può venirci!» Una nuova conoscenza, quella di Antonietta Rossi, moglie di un capitano di vascello venuto in missione, era diventata presto intima. Era bionda come lei, ma più ben fatta, souple, élancée dall’espressione più langoureuse. Si lagnava del soggiorno di Palermo, della lontananza dal proprio paese. Quando ella le proponeva di andare insieme in qualche posto, di far toletta, rispondeva:
— E perchè poi? Son cose di cui vale la pena quando c’è un interesse, uno scopo…
Più tardi, con la confidenza cresciuta, aveva spiegato meglio:
— Quando si deve piacere a qualcuno, quando si va ad incontrare l’amante… per chi vuoi che mi vesta? Tu, sì…
Ella non protestò. A poco per volta Antonietta le narrava il suo romanzo, il grande amore della sua vita: un conte veneziano, discendente dai Dogi, ricchissimo, che possedeva non so quante ville, una delle quali aveva messa a sua disposizione; poi, le gelosie del marito, certe scalate di notte, per mezzo di corde di seta; delle lettere anonime, la denunzia d’un segretario che s’era innamorato di lei; un seguito di avventure che ella ascoltava a bocca aperta, credendole tutte, con la secreta mortificazione della propria inesperienza che non le suggeriva nulla da raccontare a sua volta. Poi le confidenze dell’altra si erano fatte più intime: aveva avuto un altro amore, prima di maritarsi, suo marito non l’aveva trovata ragazza; ma neanche lui aveva aspettata la cerimonia nuziale… Allora, s’era messa ad enumerare altre cose: quello che gli amanti pretendono, le sensazioni che essi procurano…
Tutto questo l’aveva leggermente nauseata; udendo parlare l’amica dei suoi antichi amori con un tono di voce tranquillo, anzi con una specie di lieta compiacenza, ella si diceva che colei doveva essere molto leggiera, per non commuoversi al ricordo degli uomini dai quali era stata amata, per restare così indifferente dinanzi all’evocazione della sua vita sentimentale. Ma se ella avesse amato, se fosse stata amata, solo la morte avrebbe potuto cancellar dal suo cuore le memorie d’un grande affetto! L’invidia secreta per le fortune delle altre donne si temperava allora col sentimento della propria superiorità; ella sentiva che esse meritavano il severo giudizio del mondo. Però, fuori della colpa, nella santità del matrimonio, la passione non avrebbe potuto esistere? Mondini, uno degli avvocati di casa Duffredi, aveva preso in moglie una cugina: come l’amava! Ella era stata un giorno a trovare la giovane coppia, in una casetta di campagna, nascosta tra gli aranci sulla via di Monreale; era tornata via tutta rimescolata: Mondini, cogli occhi umidi, non aveva parlato d’altro che della sua felicità, dell’adorazione che aveva per sua moglie; a un certo punto, senza curarsi della presenza d’un’estranea, le aveva messo una mano sui capelli e l’aveva baciata in bocca… Precisamente come suo marito! Egli era adesso più freddo di prima: aveva assunto con altri amici l’impresa del teatro di musica, rimettendoci quattrini a palate, per fare il pascià in mezzo alle cantanti e alle ballerine; e tutto il giorno se ne stava con dei giovanotti scapoli, con le combriccole di viveurs, di coureurs de femmes, con tutti coloro ai quali venivano raccomandate le donnine allegre di passaggio e che se le passavano di mano in mano… Ella cercava di rifarsi col suo bambino; ma questo diventava ogni giorno più irascibile e sembrava nutrire un’avversione per lei. Col padre, che gli lasciava fare tutto quel che voleva, stava volentieri; con la zia Carlotta che lo guastava peggio, era tutto sorrisi e battute di mani; se lei lo prendeva in braccio, la picchiava sul capo, le graffiava il viso, le afferrava il naso, le strappava i capelli, si torceva come un serpe, rosso quasi stesse per iscoppiare, e non si chetava se non quando tornava con la balia o con Stefana.
I giorni di lei passavano monotoni, vuoti, o pieni soltanto di fantasticaggini, di rimpianti, di aspettative vaghe e sempre deluse che accrescevano la sua irrequietezza. Le distrazioni che un tempo aveva amato adesso la tediavano; sentiva che mancava uno scopo alla sua vita, e un’oppressione insoffribile, atroce, l’accasciava all’idea che gli anni passavano, che il tempo volava… La gioventù! La stagione più bella della vita! La stagione che non sarebbe tornata mai più! E dei
sorrisi d’amarezza le spuntavano sulle labbra.
Un giorno era così, sola, nel suo salottino dalle cui finestre socchiuse filtrava una scarsa luce, quando Guglielmo rientrò, insolitamente presto.
— Ti conduco una vecchia conoscenza, — disse.
Un altro che era con lui s’avanzò. Nella penombra, ella non distingueva i suoi tratti.
— Non mi riconosce?
— Accardi! — esclamò, sollevandosi e tendendogli una mano. — E come a Palermo? Da quando?
— Per affari, appena da ieri l’altro.
— Aspettami un momento — disse Guglielmo all’amico. Poi, rivoltosi a lei, avvertì: — Stasera resta a desinare con noi…
— Naturalmente! E che notizie mi porta da Milazzo?
Egli cominciò a riferirne tante: dei matrimonii, delle morti, delle emigrazioni.
— E di Bianca Giuntini, ne sa nulla? S’è poi maritata?
— Maritata? È già divisa!
— Come?
Egli raccontò una storia. Mentre parlava, ella stava a guardarlo; pareva non fosse cresciuto; a trent’anni, quanti doveva averne oramai, conservava l’aspetto minuto e gentile dell’adolescenza. Quando ebbe finito di raccontare, guardò intorno per la stanza. Chiese:
— E lei? Ha già un bambino?
— Sì.
Aggiunse ancora, guardandola:
— È felice?
Ella rispose, vagamente:
— Sì…
Sopravvenne Guglielmo; i due amici andarono via. Ella restò inchiodata sulla sua poltroncina, con le mani inerti, la testa bassa. Come per un sasso caduto in mezzo ad acque stagnanti, un’agitazione si diffondeva nel suo pensiero, ne guadagnava a ondate le pieghe meglio riposte… Luigi, l’antico amore, i giorni lontani di Milazzo, il presente così diverso dell’avvenire sognato, la fatalità che le rimetteva ora dinanzi quell’uomo, ciò che sarebbe accaduto fra loro prolungandosi il soggiorno di lui… Pensava ancora quand’egli tornò insieme con suo marito. Il desinare fu gaio, Guglielmo era di buon umore, parlava continuamente con l’amico, che però si rivolgeva quasi sempre a lei, dicendole delle cose gentili, approvando ciò che ella diceva. Quando passarono nel salotto, Guglielmo li lasciò un poco soli.
Accardi rammentò alcune scene di Milazzo, la rappresentazione, la seduta fotografica, insistendo sulla parte che vi aveva presa lei stessa; ed ella credeva di leggere delle allusioni al loro passato, imaginava che egli non avesse potuto dimenticarlo. L’altro parlava ancora, la faceva ridere al ricordo di certi incidenti comici, quando suo marito tornò per condurlo via.
Venne a trovarla due giorni dopo; ella era sola.
— Partirò presto… — annunziò, con una sfumatura di tristezza nell’accento, dopo averle parlato di cose indifferenti.
Ella disse, con un falso sorriso, per provocarlo:
— Non la tratteniamo… l’aspetteranno!
— S’inganna! Nessuno m’aspetta… come nessuno m’ha aspettato.
Il colpo era diretto a lei. Ella abbassò gli occhi. L’altro continuava:
— Avevo sognato… avevo sperato di poter ottenere una immensa felicità… Mi duole troppo di vedere che questa felicità è d’un altro… Non so rassegnarmi ad esserne spettatore!
Il cuore di lei batteva violentemente. Una musica di parole turbatrici, mai udite; una sincerità commossa d’accento in quel rammarico sommesso di cui ella era l’oggetto… Ella era l’oggetto di quella passione! Qualcuno l’amava! Glie lo diceva!
Egli s’alzò, sospirando. Fece qualche passo; poi le si avvicinò nuovamente, le disse:
— Come avete potuto dimenticare?
Ella rispose, guardando lontano:
— È la colpa della vita!
Subito si pentì, indietreggiando, poichè egli le era quasi ai piedi, le prendeva una mano, glie la stringeva con forza.
— Dunque lo confessate? Voi non siete felice? Sapevo che non era possibile! Quell’uomo non è fatto per voi! Oh, se sapeste!
Poi, con più fervore, stampandole un bacio sulla mano, soggiunse:
— Teresa, io vi amo!
— Barone!
S’era alzata, liberandosi da lui.
— È troppo tardi… io non posso ascoltarvi! Qualunque sia lo stato dell’animo mio, ho dei doveri: bisogna che io li adempia, a qualunque costo.
— A costo del vostro cuore, a costo della vostra felicità?
— A qualunque costo!
Ella si lasciò ricadere nel suo cantuccio. Vide che egli si stringeva la fronte tra le mani; a un tratto le tornò dinanzi.
— Ebbene, sia… ma lasciatevi amare, se non mi amate! Non è un delitto questo! Voi non potete impedirlo!
Era il suo sogno: un amor puro, un affetto secreto che occupasse l’anima, che illuminasse la vita.
Ella taceva, dicendo di sì col pensiero. Così egli non partiva, tornava ancora a trovarla, a ripeterle delle parole di fuoco quando erano soli, a dirle con lo sguardo: «Vedete a chi vi sacrificate?» quando Guglielmo, non prendendosi più soggezione dell’amico, si rivelava qual’era. Le baciava la mano, tentava di abbracciarla: ella gli sfuggiva, mettendolo a posto con una parola, godendo del dominio che esercitava su di lui, inebbriata dalla passione che aveva destata, dagli stessi pericoli che correva, impedendogli di continuare quand’egli si faceva troppo insistente, ma aspettando sempre che ricominciasse.
Ella si domandava: «Cadrò?» e al pensiero colpevole, all’idea del peccato, chiudeva gli occhi, giungeva le mani mormorando: «No, no!»
Una volta ella aveva il suo bambino in braccio; come si mise a baciarlo lungamente, egli disse:
— Non baciate così!
— Oh! Da quando in qua si proibisce alle mamme di baciare i proprii bambini?
— Si proibisce di far dannare la gente!
Ella rideva, sentiva disarmarsi, e come anche lui dava dei baci al suo figliuolo dove ella stessa lo aveva baciato, si sentì turbare, chiamò Stefana per riconsegnarle il piccolino.
Di tanto in tanto, egli annunziava drammaticamente:
— Partirò domani…
— Fate un buon viaggio — augurava ella, con un sereno sorriso.
— Come siete fredda! Come siete senza cuore! Come nulla vi scuote! Io potrei morirvi dinanzi senza costarvi un palpito solo!
— Non sono fredda, sono saggia.
— Siete senza pietà!
Altre volte egli supplicava:
— Se andrò via, se non resterò qui, che cosa temete? Chi saprà nulla? Non avrete a temere neppure di incontrarmi: non vi verrò mai più dinanzi…
— E la mia coscienza?
— Ma un’ora d’ebbrezza, il paradiso per un’ora, da ricordare per tutta la vita? Sì? Dite di sì?
Ella rispondeva, sentendosi struggere:
— No.
Non sapeva ella stessa come quelle risposte le salissero alle labbra. Quell’uomo le piaceva, la tentazione era piena di fascino, ed ella si stupiva di non trovare l’argomento capitale contro quegl’incitamenti: l’impossibilità, per lei, di ammettere il capriccio di un’ora.
Un giorno che Guglielmo era in campagna, egli fu più insistente del consueto.
— Abbiate pietà di me! Siamo soli, che cosa temete?
E la baciò sulla bocca.
— Scostatevi! Io ho in custodia l’onore di un uomo… di un vostro amico! Sarebbe una slealtà…
— Ma egli vi tradisce… con chi è indegna di alzar gli occhi su di voi!
— Vorreste che diventassi un’indegna anch’io?
— Sempre il freddo ragionamento! Come siete calcolatrice… ed io, come sono…
Ad un tratto l’afferrò per la vita, la piegò a viva forza, la rovesciò sul divano.
Tremando, balbettando, respingendolo con le braccia irrigidite, ella disse:
— Per pietà… ve ne scongiuro…. lasciatemi… No, per pietà!
Egli si sollevò, pallido e sconvolto.
— Sta bene… poichè non volete…
Si contorse i baffi, girò intorno il capo come in cerca d’aria; poi soggiunse:
— A rivederci.
Ella gli stese una mano, supplicando:
— Accardi, sentite… siate ragionevole…
— Sta bene, sta bene… A rivederci.
E andò via.
Qualche giorno dopo Guglielmo venne a dirle:
— Luigi ti saluta; non è potuto venire. È ripartito per Milazzo.
Ella restava immersa in un muto stupore dinanzi alla forza della propria virtù.