VI.

Era stata una corruzione sottile, lunga e sapiente, una febbre malsana, la profanazione dei suoi sogni d’amor forte, schietto e trionfante. Non aveva amato quell’uomo, era stata ubbriacata da lui. Durante il torpore in cui i suoi sguardi e le sue parole l’avevano immersa, ogni tentativo di rivolta era stato soffocato dall’idea della propria ignoranza, dall’esempio delle altre, dall’ansietà di sapere, fin quando quell’uomo era andato via com’era venuto, da un giorno all’altro, portandosi qualche cosa di lei, del suo pudore, del suo candore, lasciandole in fondo all’anima, con un amaro disgusto, un’irrequietezza scontenta e come il bisogno d’una purificazione, d’un ideale lavacro.
L’improvvisa decisione di Guglielmo di partire per la capitale operò in buon punto una diversione nello spirito di lei. Il marchese stava sempre male, ma egli stesso aveva consigliato loro di andar via, per mettere un freno alla prodigalità pazza del nipote, che restando a Palermo, in mezzo alla Società abituata a vedere il suo lusso, non avrebbe mai saputo frenarsi. Il bambino era affidato, pel momento, alla zia Carlotta ed a Stefana.
I preparativi della partenza, le visite di congedo, il viaggio, la distrassero; ella era piena di vaghe fantasie, di aspettazioni indecise, cercava di rappresentarsi quel che le sarebbe accaduto in quella nuova fase della sua vita che stava per cominciare. Nei primi giorni di Roma, dinanzi alla folla sconosciuta, con l’oppressione d’un inverno rigido, non trovò che delle crisi d’angoscia muta e sconfinata. Poi, come lasciarono l’albergo per un quartiere piccolo ma grazioso, in via del Tritone, le cure dell’assestamento l’occuparono; a poco a poco la vita della capitale la travolse. Aveva cominciato per andare in casa di Mazzarini, il ministro siciliano legato con suo nonno da un affetto quasi fraterno; le sue conoscenze, lì, si moltiplicarono rapidamente. I salotti del ministro erano molto frequentati da uomini politici, da alti funzionarii, da ufficiali; non v’era però l’alta aristocrazia, le grandi dame fra le quali ella si struggeva di prendere posto. Una sera, si vide guardare da un giovane alto, magro, coi capelli bruni, i baffetti biondi. Malgrado gli anni trascorsi, lo ravvisò subito; il deputato Arconti, che aveva incontrato durante il suo viaggio di nozze. Avvicinatosi alla padrona di casa, egli le venne incontro insieme con lei.
— L’onorevole Arconti… — cominciò la Mazzarini.
Ella stava per dire qualche cosa; l’altro la prevenne:
— Io non so più se ella si rammenta che ebbi già l’onore di esserle presentato, cinque anni addietro…
— Ma sì, rammento benissimo…
— Il giorno dell’inaugurazione della legislatura passata, all’albergo di Milano…
Questa precisione di ricordi da parte d’una persona che doveva conoscere tanta gente la stupì un poco. Voleva dunque dire che ella gli aveva lasciata un’impressione speciale? E intanto che egli parlava della Sicilia, del suo desiderio di andarvi, d’un giro che prossimamente vi avrebbe fatto in missione parlamentare, ella lo guardava, cercando di scoprire l’intimo pensiero di lui dietro alle sue parole rapide e calde, dietro al suo sguardo scintillante, penetrante, irresistibile. «Gli piaccio!» si diceva; «che effetto produco su lui!» Ed ella restava piena della sua figura, della sua voce. Non era bello, ma pieno di simpatia, col fuoco che lo animava, con la schiettezza buona che traspariva dai suoi occhi vivaci. Un interesse che non voleva ancora confessarsi la induceva a parlare di lui, a chieder notizie intorno alla sua persona ed ai suoi casi. Così venne a sapere che egli apparteneva ad una nobile famiglia lombarda, ma che, alla Camera, sedeva verso l’estrema sinistra. Un gran dolore gettava un’ombra nella sua vita: fidanzato a una bella fanciulla, gracile e delicata, nel cui petto un germe mortale aveva già cominciato secretamente la sua opera distruttrice, egli era stato spettatore d’un’agonia straziata in entrambi dall’idea della felicità perduta sul punto che stava per essere raggiunta. Dicevano che il giorno in cui la poveretta s’era spenta, avean dovuto strappargli a viva forza il suo revolver, perchè egli non voleva sopravvivere alla creatura adorata. Era stato sul punto d’impazzire, poi aveva viaggiato lungamente; di ritorno in patria, s’era buttato alla politica. Possedeva una coltura brillante, era un oratore irresistibile, una natura di fuoco. Ella si lasciava vincere da una curiosità irrequieta, si chiedeva se quell’uomo potesse amare ancora, studiava il senso della premura con cui s’era fatto ripresentare. Aspettava che venisse a trovarla; lasciò invece una carta. Però lo incontrava sempre dalla Mazzarini; ed egli le si metteva vicino, le parlava a lungo: delle conversazioni attraenti, nelle quali il giovane mostrava una rispettosa deferenza per tutte le opinioni di lei. Ma come ella manifestò una sera il desiderio di assistere qualche volta alle sedute della Camera, egli protestò:
— No! no! Non ci venga!
— Perchè?
— Perchè quell’ambiente falso, vecchio, ammorbato, è letale per tutto ciò che è grazia, freschezza e serenità… Perchè gli sguardi fatti per contemplare le cose belle, tutto ciò che riluce e sorride, non si debbono perdere in quel limbo tristo!
— Lei intanto ci vive.
Egli tacque un poco; poi rispose, piano:
— Io seguo i precetti della medicina omeopatica: curo la tristezza con la tristezza.
Ella pensava: «Se quest’uomo mi amasse? Lo amerei anch’io?» Non si rispondeva, però una gaiezza insolita le metteva dei muti sorrisi sulle labbra; si diceva: «Qualche cosa nascerà!»
Gli aveva detto che era in casa tutti i martedì: e il martedì seguente che ella era sola, con un libro chiuso fra le mani e il pensiero rivolto a lui, venne a trovarla. Vi era, nella sua voce sommessa, qualche cosa di turbato intanto che le parlava ancora della Sicilia.
— E lei è nata proprio a Palermo?
— Io sono fiorentina!
Ascoltava intento le spiegazioni che ella gli dava sulla propria famiglia; la interrompeva di tratto in tratto per chiedere qualche cosa, dei minuti particolari.
— Io andrò presto in Sicilia… Ma, fanciulla, dove è vissuta?
— A Milazzo.
Si sentì intenerire all’idea che egli pensasse al suo passato di giovanetta, udendogli pronunziare quella parola: fanciulla, in cui le era parso di sentire come una blanda carezza.
La conversazione durò ancora un poco; quando egli fu andato via, ella restò con un certo senso di disinganno, come se qualcosa d’aspettato non fosse avvenuto. Voleva dunque che le cadesse ai piedi? Ella scherniva la fretta da cui la propria imaginazione era presa; però aveva la certezza di non essergli indifferente. E un gran signore romano, il principe di Lucrino, che le avevano presentato in casa Varconati, la guardava a lungo anche lui. Era un altro tipo: non s’occupava d’altro se non di sport, voleva fare la vita dell’allevatore: ogni giorno alle sette del mattino saliva sopra un due-ruote e fino alle dieci addestrava un cavallo, col bavero del paltò sul collo, un plaid sulle ginocchia e grossi guanti alle mani. Poi andava a far colezione, e subito dopo riprendeva a guidare fino alle quattro. Assisteva alla ferratura degli animali, faceva mettere sotto i propri occhi la biada in macerazione, e comprava lui stesso gli arnesi occorrenti nella scuderia. I suoi amici lo mettevano un poco in canzonatura, contestavano la sua competenza. La sua conversazione era molto limitata: razze, corse, premii, allevamenti. Tutte le volte che egli la incontrava, l’osservava da capo a piedi, con l’occhio avvezzo a giudicare le belle forme dei nobili animali. Ella discuteva tra sè le qualità di quest’altro. Non aveva l’ingegno e la cultura del deputato, ma un nome più sonoro, una più alta posizione sociale e la passione per quella vita di signorili passatempi alla quale ella stessa si sentiva portata. Egli poteva dare l’ebbrezza dei successi mondani; l’altro parlava alla mente ed al cuore. L’amor proprio di lei era solleticato da quei desiderii destati in due uomini appartenenti all’élite della capitale. Del resto, la sua bellezza, le sue doti intellettuali le procuravano da per tutto l’accoglienza più lieta. Le restava di andare a Corte: la Mazzarini s’era incaricata delle pratiche occorrenti.
Ella studiava attentamente gli usi della società, per correggere i provincialismi dei quali poteva essere attaccata. A Palermo, nel suo giorno, il cameriere annunziava le visite: vedendo che dalla principessa di Castrano questo non si faceva, diede ordine di smettere.
Alcune signore ricevevano coi guanti, altri senza: ella li lasciava da parte, perchè s’ammirasse la sua mano; e quando arrivavano delle lettere d’amiche, le fiutava prima di leggerle, per sapere quale profumo era più in voga. Venne anche il principe a trovarla. Come ella aveva visite, dei Siciliani di passaggio, fu tutta lieta di mostrar loro che relazioni avesse stretto. Per far parlare il principe, avviò il discorso sul suo tema favorito, chiedendogli delle notizie e degli schiarimenti. Egli descrisse capo per capo la sua scuderia, annunziando che il suo Rataplan era già iscritto a Palermo per la riunione di fine marzo. Parlava con una voce molle, strascicata, da prete.
— Ma coi nostri fantini! In Francia, fantini e trainers sono tutti inglesi; solo in Germania, a Francoforte, ho visto fantini tedeschi. Ogni ottobre, i Francesi fanno delle corse di prova: bisogna vederli, sembrano altrettante scimmie a cavallo…
— Del resto, l’Inghilterra è la patria dello sport
— Però, vi sono buoni allevatori anche in Francia. Adesso non solo battono gl’Inglesi che vengono da loro, ma vanno a contendergli il campo fino a Londra. Cominciò Gladiateur, il primo francese vincitore del Derby. Un cavallo! Arricchì il proprietario ed il fantino, che scommisero tutto, anche quello che non avevano…
Non parlò d’altro. Ella faceva tra di sè un paragone fra questa e la visita del deputato, fra le impressioni diverse che i loro discorsi e i loro atteggiamenti le avevano lasciato. Le loro qualità erano assolutamente opposte. Ella antivedeva il momento in cui avrebbe dovuto scegliere; poi si domandava: «Perchè?» Non poteva accogliere egualmente gli omaggi di entrambi? Pensava dunque a cadere con uno dei due? E la sua mente correva alle signore romane che erano cadute, di cui Aldobrandi le aveva narrato le avventure: la Triburzi che era con Gelli, la Respigliani che aveva fatto dei figliuoli col marchese d’Empoli, la Ferazzano che aveva abbandonato per Marino Cortona il conte di Borgia, il quale si era vendicato riferendo agli amici, in pieno Caffè di Roma, tutto quello che aveva ottenuto da lei…
Al principe davano delle amanti: l’idea di toglierlo ad esse la tentava. Ma la vita austera di Arconti aveva pure la sua seduzione. Un pomeriggio che era al Pincio, in carrozza chiusa, ferma sul piazzale, lo vide che le si avvicinava, col cappello in mano. Ella sussultò un poco, comprendendo che era lì ad aspettarla. Disse, porgendogli la destra:
— Lei qui, tutto solo?
— Mi sono messo in vacanza!
I suoi occhi ridevano. Parlava della dolcezza della stagione, le chiedeva, con un’insistenza discreta:
— Non scende un poco?
Ella ebbe un istante di esitazione. Non avrebbe fatto questo a Palermo; ma era alla capitale, nessuno la conosceva…
Egli aprì lo sportello, le porse la mano. Il giardino era quasi deserto: delle coppie che si allontanavano pei viali, qualche straniero fermo contro il parapetto a guardare in giro col cannocchiale. Grandi nuvole rosse striavano il cielo, verso Monte Mario.
— Si direbbe un incendio!
— È bello! — esclamò lei. — Non la fa pensare a Nerone?
— Sì, ma… Forse dirò un’eresia…
— Che cosa?
— Io capisco poco Roma antica, la grandiosità delle vecchie pietre.
— Oh, non lo ripeta!
In fondo, era d’accordo con lui; ma le pareva che stesse bene mostrarsi un poco scandalizzata.
— Lei così intelligente! — soggiunse.
— Che cosa ne sa?
— Ma è il giudizio di tutti!
— Potrebb’essere una calunnia…
— Tutto ciò che lei dice dimostra il contrario.
Camminandole a fianco, egli chinava un poco il capo, in atto di ringraziamento un poco scettico.
— Allora, è segno che la mia intelligenza non arriva a certe cose.
— Ma non è stato mai al Foro Romano, in un tramonto come questo? Non le è parso di veder sfilare le legioni vittoriose sotto gli archi trionfali? Guardi lassù; non sono gli uccelli da cui Romolo trasse gli auspicii?
Parlava vivacemente, affrettando i suoi piccoli passi. Egli esclamò, ammirato:
— Come s’entusiasma! Sì, sì, ma io vivo nel mondo moderno, e ammiro quello che capisco, quello che è moderno come me… Debbo dirlo? Darei tutta la pittura classica per un pastello del De Nittis….
— Oh! oh!  — ella soffermossi un istante, scuotendo il capo, protestando.
Egli la guardò ancora, tutta; poi disse:
— Ecco, per esempio: in questo momento, sotto questi alberi, lei è un pastello del De Nittis.
— Purchè non incominci coi madrigali?
Riprese il suo moto affrettato, sorridendo interiormente. Adesso egli taceva, e il suo silenzio le permetteva di assaporare l’incanto di quell’ora.
Parlò ella stessa per la prima, chiedendo:
— È stato molte volte a Parigi?
— Tre volte. Probabilmente vi ritornerò in estate. È quella, l’urbe… Non la conosce?
— No, e me ne duole tanto!
Egli propose:
— Venga anche lei!
Per tutta risposta, alzò un poco le spalle, con una mossa enimmatica, intanto che un pensiero si formulava nella sua mente, in due parole: «Se fosse?» Libera, sola con quell’uomo, assaporare la vita che aveva sognata! Non lo ascoltava più, perduta dietro ad una visione, con lo spirito lontano da quel luogo e da quel tempo. Un alito freddo la scosse: cercò con gli occhi la sua carrozza.
Egli disse, piano:
— Va via?
— È tardi.
— Che peccato!
E intanto che la carrozza discendeva pei viali serpeggianti, che correva per le vie della città, ella si ripeteva ancora, imaginando l’intimità suprema con quell’uomo: «Se fosse… se fosse…»
Ora, l’imagine del principe si scoloriva, si eclissava dietro a quella di lui: ella pensava che non avrebbe trovato mai uno più degno dell’amor suo. Ma perchè non le diceva ancora nulla? La seguiva da per tutto, si trovava spesso sul suo passaggio, veniva ancora a trovarla lassù al Pincio, alla stessa ora dell’altra volta, come si fossero dato tacitamente un convegno; ma le parole di lui non esprimevano nulla più d’un’ammirazione rispettosa. Se egli non l’amava? Se era pieno della sua morta? Se aveva giurato di rimaner fedele al ricordo di lei? Ella lo imaginava dibattersi tra l’antico e il nuovo amore, pensava che il culto delle memorie potesse trionfare in un’anima come la sua; poi scuoteva il capo, si diceva scetticamente: «Questo avviene nei romanzi!» Ma, a tale persuasione in cui riconosceva il frutto della trista scuola per la quale era passata, uno scontento di sè la prendeva; ella protestava in nome dell’ideale, della poesia, in nome dello stesso sentimento dolce, delicato, che quell’uomo le ispirava… Ebbene, se egli soffriva ancora per la perdita amara, se ricordava sempre la povera morta, ella avrebbe agognato di ricevere le sue confidenze, d’esser per lui una consolatrice, un’amica del cuore, una sorella. Un affetto puro, un sentimento disinteressato, nascosto a tutti, gelosamente preservato dalle cadute fatali, non era quel che conveniva ad entrambi?
Delle volte, egli era un poco più ardito del consueto, la guardava insistentemente, come sul punto di confessarle qualche cosa; poi tornava alla discretezza timida di prima. Per alcuni giorni non si fece vedere: ella non l’incontrò in nessun posto. Allora, ad un tratto, all’irrequietezza sorta in lei, ella si confessava la verità che aveva cercato nascondersi. Ella lo amava d’amore! Aveva bisogno di lui, di udir la sua voce, di vedere la sua figura, di ricevere i suoi omaggi! Non sapeva che pensare, si domandava se gli aveva fatto qualche cosa perchè la trascurasse così. Temeva che fosse ammalato, che fosse andato via; ma non osava chieder di lui per paura che la gente le leggesse in viso il suo secreto. Erano passate due settimane; ella cominciava a smaniare. E come un giorno udì discorrere d’un’interpellanza interessante che doveva svolgersi alla Camera, decise di recarvisi.
La Mazzarini le propose di andare insieme, nelle tribune della Presidenza. Il segretario di Sua Eccellenza le accompagnava; però, appena entrate, dei deputati vennero ad ossequiare la moglie del ministro, offrendosi di guidarla.
— Tu non hai visto ancora Montecitorio? — chiese la Mazzarini.
E cominciò a farla girare per le sale. Dai divani sui quali stavano sdraiati, degli onorevoli si levavano, al passaggio delle signore. Ella credeva di vedere Arconti da un momento all’altro; pensava: «Qui vive una parte della sua vita!» ma egli non compariva. Le sale di conversazione, di lettura, il gabinetto della presidenza, la biblioteca…. l’amica non le risparmiava nulla ed ella cominciava ad essere stanca ed impaziente. L’aria calda, il leggiero tanfo di fumo e di stoffe polverose le davano fastidio. Finalmente, attraversato uno stretto corridoio, si trovò nella tribuna.
L’aula era spopolata, semi-buia in quella grigia giornata di febbraio. Un nuovo disinganno: per la distanza, ella non discerneva le fisonomie.
— Chi c’è? — chiese la Mazzarini, guardando in giro con l’occhialino.
Il segretario nominò alcune notabilità, cominciando dalla destra; poi disse:
— Ecco l’onorevole Arconti.
Ella lo distinse confusamente.
— Chi parla?
— L’onorevole Stampini.
Si udiva solo un borbottio confuso. Il tema delle interpellanze era il lavoro delle donne e dei fanciulli, a proposito di un disastro accaduto in Romagna; ma gli oratori ascoltati non avevano ancora la parola. Degli onorevoli venivano ad ossequiare la Mazzarini, che li presentava all’amica, non lasciando di discorrere intorno ai progetti di legislazione sociale. Ella aspettava che venisse anche lui. Invece, dei campanelli elettrici squillarono, l’aula si popolò, i visitatori si congedarono.
— La parola è all’onorevole Bernardi.
— L’ex ministro, sai…. — commentò la Mazzarini — Ascolta che eloquenza!
L’oratore, circondato da un gruppo di colleghi, cominciò a parlare. Una voce fredda, studiata, delle parole che si spiccicavano una dopo l’altra, come per darsi il tempo di cercarle; ma dei periodi filati, interminabili, correttissimi. Ella si chiedeva, guardando verso il posto di Arconti: «Non m’ha veduta?»
Il deputato sedette, fra un mormorio di approvazione. Sorse un altro, al centro. Ella cominciava a seccarsi; col buio crescente non si vedeva più nulla.
— Potrebbero accendere, però….
— È presto — rispose la Mazzarini che, non perdendo una sillaba dell’oratore, scuoteva tratto tratto il capo ed esclamava: — Non è vero… ci sono i documenti! — chinandosi poi verso di lei, quasi a persuaderla del torto di quell’altro.
Dal banco dei ministri si udì un’interruzione; delle voci sorsero: «Domando la parola!» e il presidente scampanellò.
Dopo un terzo discorso, s’alzò il ministro dell’agricoltura. Ella era disperata: Arconti non sarebbe venuto; la noia di quella seduta non avrebbe avuto più fine.
— Senti, senti! — diceva la Mazzarini, interessandosi sempre più alla discussione.
Ma come il ministro ebbe finito, ella propose: — Andiamo via? Ho da far qualche visita.
L’amica era già alzata, quando, nel mormorio confuso che seguiva il discorso, s’udì la voce del presidente che annunziava:
— La parola è all’onorevole Arconti.
Ella si sentì scuotere da capo a piedi; avrebbe voluto restare, ma per paura di tradirsi si contenne. Non udì che le prime parole di lui, la voce calda, vibrata, squillante, che arrivava diritto fino alla tribuna. Uscendo, il suo umor nero crebbe a dismisura, ella s’accusava d’impazienza, poi tentava di persuadersi che non gl’importava di lui, e ad un tratto si accorgeva dei passi giganti che la sua passione aveva fatto. Sul Corso accendevano i primi lampioni, e il cielo era ancora chiaro: la folla ingombrava i marciapiedi, le carrozze sfilavano a processione incrociandosi con la sua. Mentre l’amica parlava ancora di politica, ella pensava che se quell’uomo le avesse dette delle parole d’amore, gli sarebbe caduta tra le braccia. Perchè, invece, non s’era fatto vedere? Come non capiva?
Quando tornò a casa e trovò la comunicazione della prima dama di Corte che annunziava l’udienza della regina per il 20 gennaio, non pensò più a lui. Chiedeva dei consigli, preparava la sua toletta, con un’ansietà febbrile, con un piacere misto ad una specie di paura, col sentimento che imaginava dovesse provare un soldato la vigilia d’una rivista, affascinata e turbata insieme all’idea di contemplar da vicino la maestà regale…. Come il momento s’avvicinava, la sua emozione cresceva; però, dalla carrozza della Mazzarini che saliva su al Quirinale, avrebbe voluto far sapere alla gente in qual luogo ella andava. E come in sogno, passava dinanzi ai soldati ed ai corazzieri, saliva su per lo scalone, attraversava la fila delle sale, rispondeva agli inchini dei cerimonieri, si trovava nel salotto dove le altre signore stavano ad aspettare. Ve n’era una, infagottata dentro una casacca inqualificabile, goffa ed impacciata.
— Chi è? — chiese all’amica.
— La moglie d’un magistrato; non rammento il nome.
— Ma non si viene a Corte in un simile accoutrement, non trovi?
A un tratto, entrò la regina: un fruscio di stoffe, il triplice inchino. Ella divorava cogli occhi la figura della sovrana, ne afferrava tutt’insieme la toletta e la fisonomia, l’incesso e l’espressione, liberata assolutamente dalla soggezione che l’aveva tenuta sin lì. Sua Maestà, salutando in giro le dame, arrivò fino a lei.
— La signora Duffredi.
— Dei Duffredi di Sicilia?
— Maestà sì. Sono anzi i soli….
— No, no: ve n’è degli altri, a Venezia. Non lo sapeva? E però un’altra famiglia. La loro discende da casa d’Altavilla, non è vero?
— Si, Maestà….
Con un sorriso, passò oltre.
— Che bella toletta! — osservò piano la Mazzarini.
La sovrana parlava adesso con vivacità, in mezzo a un gruppo di dame con le quali era intima; poi si rivolgeva affabilmente ora all’una ora all’altra delle nuove presentate. Il discorso, dalle notizie d’Oriente, passava alla letteratura slava; Sua Maestà citava la leggenda di Marco Kraljevich e, nominato il Karageorgevitch, si volse a lei, dicendo scherzosamente:
— Anche loro potrebbero vantar dei diritti sulle Due Sicilie!
Tutte la guardarono. Ella rispose subito:
— Non abbiamo che i doveri di sudditi devoti!
Guardandosi intorno, ella ora pensava d’esser stata sempre in quella sala, non credeva di doverne andar via, e quando Sua Maestà si ritirò, le rimase un leggiero senso di rammarico, come per un bel sogno svanito.
Per dei giorni, il ricordo di quell’udienza l’occupò tutta; i giornali la citavano fra le dame ricevute dalla sovrana. La figura di Arconti si relegava al secondo piano, quantunque quegli stessi fogli le mettessero continuamente sotto gli occhi il suo nome, nel commentare il discorso da lui pronunziato alla Camera.
Dalla Mazzarini, un giovedì, se lo vide improvvisamente dinanzi.
— Le mie congratulazioni! — gli disse.
— Perchè?
— Pel successo del suo discorso. Ero alla Camera, lei non m’ha vista: aveva da badare a cose più importanti!
Al leggiero sarcasmo, egli rispose balbettando confusamente qualche parola. Non le levava gli occhi di dosso. Ella sapeva di star bene, si sentiva innalzata sulla folla anonima, assaporava il proprio trionfo. L’esaltazione la faceva provocatrice; sostenendo gli sguardi di lui, insisteva a chiedergli:
— Dov’è stato? Fuori di Roma?
— No.
— Come non la vedevo da un pezzo….
— Non ne imagina la cagione?
— No, davvero!
— Ma non vede che è per lei? Che ho voluto evitarla a posta?
Si mise a ridere mostrando i denti.
— Le faccio dunque paura?
La sua ilarità era un poco forzata, ella ostentava una sicurezza che dinanzi al pericolo non la sosteneva più. Erano appartati in un angolo; al pianoforte il tenore Bagnoni cantava il Suonatore di lira, di Schubert e le note soavi, i melodiosi sospiri accompagnavano le parole del giovane:
— Sì…. paura, terrore…. perchè la mia vita dipende da lei…. perchè io l’amo….
Aveva parlato piano, lentamente, con un fervore contenuto, con uno struggimento nella voce e nello sguardo.
Ella ansimava un poco, col cuore che precipitava i suoi battiti. Disse, socchiudendo gli occhi, contraendo quasi dolorosamente le labbra.
— Per pietà…. non aggiunga altro….
— No; bisogna che m’oda.
Dei «bene», dei «bravo» si levarono intorno. Egli riprese rapidamente:
— Ho creduto di morire, non osavo parlare, pensavo che mai le mie parole avrebbero potuto salire fino a lei….
Delle persone si avvicinarono; ella ingiunse:
— Taccia; ci ascoltano….
Ora non comprendeva quel che si diceva intorno a lei; si mise a parlare senza pensare quel che diceva, col viso in fiamme, un tumulto nell’anima, gli occhi attratti dagli sguardi di Arconti che martoriava un guanto. Avrebbe voluto dirgli: «Non insista, io non posso ascoltarla, si scordi di me….» Ma quelle parole non l’avrebbero tradita, dimostrando la sua esitazione? Bisognava essere più dura, più recisa. Come, se ella lo amava?
Egli pareva in preda a una nervosità irritata, sempre crescente a misura che il tempo passava senza che ella restasse un momento sola. Della gente cominciava ad andar via, suo marito arrivò. L’altro era scomparso; e un pentimento la prese: era stata troppo severa, lo aveva offeso, egli la fuggiva! Nell’anticamera, se lo vide dinanzi. Aiutandola a mettersi il mantello, le disse rapidamente, con una supplicazione tenera:
— Mi permette di scriverle?
Guglielmo si avvicinava; ella ebbe paura, e chinò gli occhi. Una lettera di fuoco, riletta ogni ora, custodita sulla propria persona; delle frasi inaudite che le tornavano a memoria, come una musica… «Il sogno sfrenato d’una mente in delirio è dunque compiuto?… Io v’ho detto senza morire che siete l’aspirazione dell’anima mia?… No, non ve l’ho detto ancora!… Sorriso del cielo, poesia del creato, nembo d’oro e di rose, io piego i ginocchi dinanzi a voi, sospirando… Una virtù nuova m’infiamma, la vostra grazia discende su me!…»
La sua cameriera, che le aveva data quella prima, le consegnò altre lettere, i giorni seguenti. Ella fingeva di lasciarle sulla toletta, dando a intendere che doveva consegnarle a qualche altro. Le leggeva quando poteva, a letto, in carrozza, nel bagno. Ve n’era una lunga, fittissima, in cui egli narrava la storia di quell’amore, la lotta combattutasi in lui prima di confessarlo, e un’altra brevissima, un biglietto dove non si conteneva che un pensiero, una imagine, una preghiera. «Un vostro rigo, una vostra parola, qualche cosa di voi, che emani da voi, che mi parli di voi, che mi faccia credere alla realtà di quanto m’accade…»
Ella aveva tentato di rispondergli; ma stracciava fogli sopra fogli, non riuscendole di conciliare l’espressione dell’amore coi consigli della prudenza. La domenica egli mandò due lettere, a distanza di poche ore. Voleva rispondergli di aver più riguardi, di non comprometterla; preferì di dirglielo a voce. Il tempo, fattosi orribile, le aveva impedito di andare al Pincio, dove si sarebbero certamente incontrati. Ogni giorno guardava il cielo, studiava il corso delle nuvole; il vento e la pioggia si alternavano di continuo. Il lunedì, come vi fu una tregua, andò fuori. Egli era all’angolo di palazzo Chigi, con altre persone; salutò profondamente. Però non venne al giardino, dove ella girò un pezzo spiando continuamente pei viali, aspettandolo. Non vi era nessuno; gli alberi nudi, sotto un cielo di cenere, mettevano una grande malinconia. Il dispetto del primo momento per esser lasciata sola, cedeva adesso all’imaginazione del conforto che un grande affetto doveva procurare contro le tristezze della natura e della vita.
Il domani, che era il suo giorno, ella fece una lunga toletta. Sarebbe venuto certamente, l’aspettazione le metteva la febbre.
La prima visita fu invece quella di una Americana che aveva conosciuta dai Mazzarini. Ella s’era messa a parlare inglese, con l’occhio alla portiera, aspettando di vederlo comparire. Si udì uno squillo di campanello; egli le venne incontro.
— Arconti, come va?
Si sentì prendere tutta dalla mano di lui; però, dominandosi, fece la presentazione.
Egli pareva felice, parlava con grande vivacità, diceva delle galanterie alla straniera, ma guardando lei. Ella stessa recitava una parte, e quella commedia di salone le procurava un piacere mai provato, sedava l’agitazione del suo spirito.
L’Americana andò via. Allora egli le afferrò la mano, cominciò a divorarla di baci, mormorando rotte parole.
— No! No! Stia buono… potrebbe venir gente!
— Amor mio! Non è possibile… che tortura…
A un tratto la portiera si sollevò nuovamente: apparve, come piovuto dalle nuvole, il vecchio don Gaetano Linguaglossa. Repressa la sua violenta commozione, ella stese la mano al nuovo venuto.
— Sono a Roma da due giorni; la mia prima visita è per lei.
— Sempre amabile! L’onorevole Arconti, il commendatore Linguaglossa…
Il vecchio lo squadrò con un’aria di stupefazione; poi disse, lentamente, compitando:
— L’onorevole deputato? — e stendendogli a un tratto la mano, glie la strinse forte — Oh, quanto piacere!
L’altro non aveva detto nulla, mordendosi i baffi. Con degli sguardi supplichevoli, intanto che il commendatore spiegava il motivo della sua venuta alla capitale, ella gli diceva di aver pazienza, di non tradirsi. Però l’altro non finiva più di parlare, narrando la storia d’un suo nipote che, dovendo fare il volontario, aveva corso il rischio di essere arrestato come disertore, per un imbroglio di carte.
— Una legge diabolica, nessuno ci capisce niente! Dal distretto alla prefettura, dalla prefettura al municipio, dal municipio al reggimento, dal reggimento al consiglio di leva… — e a misura che enumerava i passi fatti, volgeva gli occhi dal deputato a lei e da lei al deputato.
— Anzi, giacchè ho avuto l’alto onore di conoscere l’onorevole — e s’inchinò un poco — potrebbe farmi grazia, di dirmi se al Ministero della guerra…
Egli rispose appena, con un fastidio mal dissimulato; il commendatore riprendeva come nulla fosse. Vi erano dei momenti di silenzio, durante i quali don Gaetano si guardava intorno, scrollando il capo, in aria d’approvazione. Con la tentazione di gridargli: «Andate via!» ella era costretta a riattaccare il discorso.
— E le sue sorelle, stanno bene?
— Così, come comportano gli animi. Ma il tempo qui è micidiale! Io ero stato a Roma d’inverno, la prima volta nel 1868, quando c’era il potere temporale e bisognava fornirsi nientemeno di passaporto…
A un tratto Arconti si alzò.
Ella gli disse, trattenendolo un poco per la mano:
— Va via?
— Sì, — rispose, quasi duramente.
Aveva voglia di piangere: egli l’aveva con lei, forse non sarebbe tornato! Come il commendatore se ne andò, corse al tavolino e gli scrisse la sua prima lettera: «Perchè mi avete lasciata così bruscamente? Non avete compreso che io soffrivo più di voi? È stato un contrattempo disgraziato, nel quale io non ho colpa. Se sapeste che male mi avete fatto! Voi dite di amarmi e non vi rassegnate a sopportare le piccole contrarietà che sorgono ad ogni piè sospinto nel mondo!» Aveva da poco mandata quella lettera, che ne ricevè una di lui. «Una tortura spietata come questa nessuno può imaginarla: esser dinanzi a voi, aver piene le labbra, le mani, tutta la persona del vostro profumo, e non potervi stringere al cuore, non potervi dire le sole parole che voi dobbiate ascoltare! Vedete che è impossibile durare in questo tormento! Per pietà di me, se non volete farmi commettere una pazzia, lasciate che io vi veda sola, un momento, non fosse che un momento, dove vorrete…»
Allora ella si pentì di avergli scritto quel biglietto. Appena ricevutolo, egli rispose: «Voi mi avete scritto! la vostra mano regale si è posata su questo foglio! Il vostro pensiero arriva fino a me! Incredibile! Sogno! Ora e sempre, a costo di tutto, la vostra volontà sarà la mia. Nessuna dolcezza eguaglia quella di obbedirvi. Voi avete sofferto per me! Ed io non ho ancora data la vita, per sentirmi dire queste parole!»
Le lettere seguivano alle lettere, sempre più infiammate, sempre più supplici, traboccanti di passione devota, di amor mistico. Come un aroma d’incenso se ne sprigionava, avvolgendola tutta. Ella le lasciava cadere, tendendo le braccia, dicendo tra sè: «Sì… sì… prendimi!» Però, non gli rispondeva che per scongiurarlo di esser calmo, di esser prudente; e incontrandolo, lassù al Pincio, alle supplicazioni di lui rispondeva con altre supplicazioni:
— Abbia pietà di me! Si contenti di questo! Io non posso darle di più…
Egli l’accusava, freddamente:
— Voi non mi amate! Voi non mi avete detto ancora che mi amate! Ve ne siete guardata bene!
— Oh!…
Allora gli sguardi di lui, umidi e fissi, la penetravano tutta, la costringevano ad abbassar le palpebre. E il martedì, nei momenti che restavano soli, egli la stringeva alla vita, la baciava furiosamente sulle guancie, sulla bocca. Atterrita all’idea di veder comparire qualcuno, ella lo allontanava; allora l’altro si lasciava cadere sopra una poltrona, si prendeva la testa fra le mani, con una disperazione muta.
Per confortarlo, ella si appressava, gli diceva dolcemente:
— Perdonatemi… ma che colpa è la mia? Non sapete a che rischi mi espongo?
— Sì, sì… avete ragione! Siete voi che dovete perdonarmi…
A sua volta ella si gettava a sedere, e dei lunghi sospiri le sollevavano il seno, intanto che egli si chinava su di lei.
— Voi mi amate? Ditelo, almeno! Ch’io lo senta almeno dalle vostra labbra adorate…
Ella chiuse gli occhi, poi gli buttò le braccia al collo. Così, guancia contro guancia, egli le soffiò all’orecchio le parole di fuoco:
— Verrete da me?
— No! Mio Dio! No…
Ma una febbre le accese il sangue, e come egli insisteva, pregando, minacciando, scrivendo lettere su lettere, evitandola più tardi, torturandola con la sua indifferenza, tornando a farsi supplice, ella riconosceva di non poter durare nel rifiuto, di esser costretta a parlamentare. Era dunque fatale passare di lì? Si metteva una mano sugli occhi, s’immergeva in una contemplazione interiore; poi, alzatasi, passeggiava rapidamente da un capo all’altro della stanza, mormorando: «Ma se l’amo! Se l’amo!»
Egli non le dava tregua, scongiurava:
— Venite! Ch’io vi veda sola, ch’io vi abbia per me un’ora, un minuto! Perchè dite di no? Di che avete paura? Non sapete che la vostra volontà è la mia legge?
Allora ella metteva innanzi altre difficoltà:
— Ma dove volete che venga? A casa vostra? Non pensate alla compromissione?
— Non a casa mia… — Abbassata la voce, presale una mano, spiegò: — In un’altra casa… che è mia ed è vostra… dove non ci conosce nessuno…
Ella si nascose il viso tra le mani.
Era laggiù, in via Leonina. Ella era andata a piedi fino a piazza Venezia, s’era fatta lasciare in carrozzella a Tor de’ Conti. Malgrado il velo che le nascondeva il viso, malgrado la tranquillità di quel quartiere, ella credeva di avere tutta Roma alle calcagna. Andava rapidamente, ansimando, leggendo i nomi delle vie, con la paura di smarrirsi, atterrita all’idea di dover chiedere la sua strada. A un tratto scoperse la casa gialla, il piccolo portone. Un uomo vi stava fermo dinanzi. Ella passò oltre, col cuore stretto da un’angoscia. In capo a via Santa Maria dei Monti, tornò indietro: qualche raro passante le piantava gli occhi addosso. Ella affrettava il passo. Il portone era libero; entrò. A due riprese, su per le scale, dovette fermarsi, sul punto di svenire. Delle voci che partivano dall’alto la spronarono. L’uscio cedette alla sua pressione; due braccia la sollevarono.