III.

Degli abiti neri per tutti, la casa che parea vuota dopo la partenza degli zii di Palermo e il ritorno della zia monaca alla Badia — e le visite degli amici e dei conoscenti che si succedevano tutto il giorno nel salotto buio. Una volta, ella aveva udito il nonno che mormorava a uno di questi amici, parlando delle sue nipotine: «Povere bimbe, esse non sanno quel che hanno perduto!» Lei avrebbe voluto dirgli: «Sì che lo so, nonno!» Ella vedeva la sua mamma tutte le notti in sogno, che le parlava, che le accarezzava i capelli, che se la stringeva al petto. Svegliandosi, si diceva per un poco, col cuore allargato da una gioia infinita: «Ma dunque non è morta!» poi vedeva le sue vesticciole nere, e restava muta, cogli occhi fissi in un punto, senza muoversi, fin quando Miss o Stefana non venivano a chiamarla.
Però, a poco a poco, quei sogni si fecero più rari, non tornarono più. Adesso si ricominciava ad andar fuori, anche per la povera Lauretta che stava peggio dopo quel gran dolore. Andavano ancora sulla spiaggia di San Papino, alla Tonnara, al Castello; ma passando da San Francesco di Paola tutte facevano il segno della croce e recitavano delle preghiere, perchè la povera mamma era sepolta lì.
La chiesa era stata fabbricata dallo stesso Santo, tante centinaia d’anni addietro; anzi egli aveva operato un gran miracolo stirando una trave che non era lunga abbastanza: in mezzo agli affreschi del soffitto avevano lasciato una gran fessura dalla quale si scorgeva quel legno miracoloso. Il pavimento era tutto ricoperto di lapidi, ma lei girava intorno ad esse, col terrore di camminare sui morti, e arrivata dinanzi a quella della mamma, cadeva in ginocchio, a mani giunte. Come restava un giorno ammalata tutte le volte che vi andava, finirono per non condurvela più.
Quella disgrazia le fece ricordare il suo babbo: la sera chiedeva spesso a Stefana:
— Perchè non è venuto anche lui? Gli hanno detto che la povera mamma non c’è più? Non ha scritto al nonno?
— Non so…
— E adesso dov’è?
— A Palermo.
Un giorno, dalla loggia del giardino, udì il portiere e il cuoco che discorrevano; parlavano del conte, il cuoco diceva: «Sua moglie dev’essere contenta! Se aspettavano, non c’era bisogno del divorzio!» Ella pensò un pezzo a questo; poi se ne dimenticò.
Il nonno era adesso più buono di prima, riversava il suo affetto sulle nipotine, le conduceva ogni giorno con sè, in campagna, al Gelso, una gran proprietà comprata da poco, nella pianura, dove piantava un vigneto. Quando fu pronto il villino che aveva fatto costrurre sul palmento, andarono lì invece che al Capo. Fu così allegra la prima vendemmia: tanta gente che andava e veniva ogni giorno, i grandi fuochi che accendevano sull’imbrunire, i canti e i balli delle contadine! Vicino a quella loro proprietà, ce n’era una dei Giuntini, che avevano una figliuola, Bianca. Com’era bella! Alta quanto una signorina, coi capelli più neri dell’inchiostro, il viso pallido, gli occhi profondi! Ella sentiva battere il suo cuore più forte al solo vederla, le stava dinanzi con una secreta soggezione, provava per lei lo stesso turbamento che rammentava di aver provato, a Firenze, pel conte Rossi. In breve divenne sua amica, e l’imitava nel modo di parlare e di muoversi. La prima volta che la baciò in viso si sentì tutta rimescolare. Invidiava il suo pallore così distinto, le sue vesti lunghe; e la voleva tutta per sè. Di ritorno a Milazzo, nel vederla con altre, credeva d’esser trascurata da lei; allora le si mostrava fredda, faceva la sostenuta; ma appena l’amica la prendeva per mano, il suo rigore finiva.
Bianca possedeva dei piccoli monili più belli dei suoi; un giorno che lo disse al nonno, egli le fece vedere quelli della povera mamma. Restò abbarbagliata. Quante perle! Quanti brillanti! Ella si provava gli anelli, faceva scattare le molle dei bracciali, versava le collane da una mano all’altra come piccole cascate, e assediava il nonno di domande sul nome di certe gemme che non aveva mai visto, sulle figure dei cammei, sulla composizione degli smalti. Pensare che tutte quelle bellezze erano metà sue e metà di Lauretta!
Però la sorellina non istava bene, non si divertiva a giuocare cogli altri ragazzi, e malgrado le sgridate del nonno, studiava da mattina a sera, a tavolino od al pianoforte, fino a riammalarsi. Un giorno vi fu una gran novità; si parlava di andare a Palermo dalla zia Carlotta, che li aveva invitati. Il nonno non voleva lasciar la casa nè mandarle sole; ella si mise a scongiurarlo a mani giunte perchè dicesse di sì. Alla Badia, una volta, lo udì parlare piano ma irritato con la zia monaca, che gli diceva: «Infine, è loro padre…» Si parlava certo del babbo.
Come il viaggio fu deciso, Miss cominciò a fare i bauli. Il nonno le accompagnò sul vapore per raccomandarle al capitano: un uomo lungo e magro con una barba ispida, che scese lui stesso sotto coperta per scegliere la più bella cabina. Quando suonò la campana ed ella ebbe finito di salutare il nonno che se ne tornava a terra, il comandante le disse:
— Signorina, vuol salire sul ponte con me?
Diventò tutta rossa; era la prima volta che un uomo le dava del lei. Che festa, quel viaggio! Il capitano lasciava ad ogni tratto il suo da fare per venire a chiedere a Miss se aveva bisogno di nulla, per accarezzare le ragazze, per condurle con lui nel suo camerino, dove offriva loro dei dolci, dei liquori, e mostrava degli strumenti, le fotografie di tanti altri piroscafi, delle scatolette di sandalo intagliato che mandavano un odore così buono. Ogni tanto ella l’udiva dire a Miss, parlando di lei: «Che amore di bimba! Che bellezza!» Ella fingeva di non udire, gettava indietro i suoi capelli, guardava da un’altra parte e assediava di domande il timoniere, credendo di veder da per tutto Monte Pellegrino. Quando finalmente apparve e i passeggeri si prepararono a sbarcare, il capitano venne a salutare la governante: regalò una scatolina di sandalo a Laura ed un’altra a lei stessa, dicendo:
— Questa la serberà in memoria del suo viaggio… Mi dà un bacio in ricambio?
Ella porse la guancia: sentì che quella barba ispida era invece fine come la seta.
Gli zii facevano segnali da una barca; nella fretta di scendere, ella lasciò cadere il suo ombrellino in mare. Miss sgridava, lo zio rideva, la zia si stringeva al petto le nipotine chiedendo notizie della loro salute, del nonno, di Milazzo. Allo sbarcatoio, c’erano dei curiosi assiepati intorno alla bella carrozza che aspettava, e al palazzo tutta la servitù schierata; le cameriere esclamavano:
— Che belle signorine! Come sono grandi!
Ella passava impettita, a testa alta, con un’aria di padroncina, guardando intorno per le belle stanze, pei salotti vasti e riccamente addobbati. Nella camera della zia c’era un letto per una sola persona, voleva dire che suo marito non dormiva con lei.
Dai balconi, si vedeva il corso di Toledo, la sfilata delle carrozze, la folla che ingombrava i marciapiedi e si assiepava dinanzi ai negozii sontuosi. Com’era bella Palermo!
— Più bella di Milazzo?
— Oh, zia! Noi, vedi, ci stiamo per adesso che il nonno vuole così; ma poi, quando saremo grandi, non è vero, Laura? Bisognerà vederla! Tu sei andata mai a Firenze? Io vo’ starci sempre, quando sarò maritata…
— Thérèse! — esclamò Miss, lasciando un momento di sistemare le robe.
— Qu’est-ce qu’il y a, mademoiselle? — rispose lei, scuotendo il capo e facendo sventolar la sua chioma. — Vous savez, ici il n’y a plus grand-papa pour vous donner toujours raison! Je dis quand je serai mariée… Est-ce que vous croyez que j’aurai toujours douze ans?
— Petite folle! — mormorava la zia, abbracciandola. — Tu non avrai sempre dodici anni, ma li hai adesso, non è vero? E bisogna ascoltare quelli che ne hanno più di te!
— Lo so, zia; ma cosa ho detto di male? Quando sarò maritata! Tu non ti sei maritata? Mi mariterò anch’io!
— Va bene, però le fanciulle ammodo non parlano di questo.
— Ti fa dispiacere? Se ti dispiace, non lo dirò più.
Ma ella restava ancora tutta fremente di ribellione, girava intorno gli occhi ingranditi, luccicanti, si mordeva un labbro, e a un tratto, profittando della diversione prodotta dall’arrivo del cameriere che annunziava il desinare, si buttò al collo della zia e le sussurrò, tra risa represse:
— Sai perchè non vuole che se ne parli? Perchè lei non l’ha voluta nessuno!
Il domani cominciarono le visite, prima di tutto ai parenti degli zii: la marchesa di Mistretta, il commendatore Guarino, due vecchi noiosi, dai quali solo Laura si lasciava baciare e ribaciare in santa pace, guadagnandosene le preferenze.
— Hai visto, grulla? — esclamava la zia. — Tutte le carezze sono state per lei!
— Che m’importa! Se le prenda. Mi secca esser baciata dai vecchi!
L’invidia, la gelosia ed anche le zuffe scoppiarono fra loro due più tardi, nel contendersi la felicità di passare, appena sveglie, nel letto della zia; tanto che questa fu costretta a stabilire un giorno per ciascuna. Nondimeno, lei pretendeva talvolta che Laura le cedesse il suo turno, le dava all’occorrenza degli spintoni, la lasciava piangente per terra.
— Come sei prepotente! — rimproverava la zia. — È così che tratti la tua sorellina? Ma tu non sai che devi proteggerla, difenderla, aver cura di lei che è più piccina, malaticcia? Tu sei la maggiore, devi tenerle luogo di mamma!
Chinando un poco gli sguardi, ella consentiva, ripetutamente:
— Sì, zia… hai ragione… hai ragione…
Allora, pensava di parlarle della povera mamma, del babbo, di tutto quello che aveva confusamente capito dai discorsi di Stefana e del nonno; ma dopo aver cominciato: «E dimmi….»; quando la zia chiedeva:
— Che cosa! Di’, figlia mia…
— Nulla, zia, nulla… — rispondeva, e restava un poco senza parlare. Poi, riscuotendosi, cominciava a tempestarla di domande:
— Ed io com’ero, quand’ero piccina? Ti rammenti quando nacqui? Eri con la mamma mia? Te lo rammenti proprio bene, come fosse oggi?
— Sì, che me lo rammento. Eri tanto piccina, così!
— E com’ero, buona?
— Più buona d’ora… Adesso non sei cattiva, non dico questo… ma non ti sai frenare, t’imbizzisci per nulla, ti ostini troppo nelle tue volontà… Nel mondo, bambina mia, non si può fare quel che si vuole; bisogna rassegnarsi, aver pazienza, soffrire…
— La mamma sofferse molto, non è vero?
La zia guardava altrove, rispondendo:
— Soffriamo tutti, al mondo…
Allora ella scrollava il capo cogli occhi in alto.
— Io lo so, che la mamma sofferse molto… a causa del babbo… perchè la lasciò… per prendersi un’altra moglie… Ti pare che non lo sappia? A casa non parlano mai di questo con noi; ma io so bene… so bene…
La zia non aveva tempo d’esprimere il suo stupore, che lei riprendeva:
— E dimmi una cosa, adesso… ha avuto altri figli, con questa moglie? Sì o no? Rispondi.
— Sì.
— Ma quanti?
— Uno.
— Questo mi dispiace… — Pensò un poco, poi disse: — Del resto, che cosa importa?… Noi siamo sempre sue figliuole, eh?
— Ma chi è che ti parla di queste cose?
— Nessuno, zia… le so io! Vedi, al nonno di queste domande non ne faccio, perchè so di addolorarlo… Ma tu, senti: questa moglie… è bella? Più bella della mamma?
— Non so.
La zia s’alzava; ella le teneva dietro, e nella stanza di toletta rovistava in mezzo alla batteria delle bottigline, delle caraffe, delle scatolette, delle spazzole e dei pettini, fiutando gli odori, chiedendo il nome di una cosa e l’uso di un’altra, insistendo per profumarsi i capelli e buttandosi addosso mezzo litro di essenza.
Quando s’andava fuori, prima di vestirsi lei stessa, stava a veder vestire la zia, si cacciava dentro la guardaroba per tastare le stoffe, esaminava una mantiglia o un corpetto, apriva tutte le scatole dei cappelli e dei ventagli, estasiandosi dinanzi alle piume, ai fiori, alle guarnizioni, ai fazzoletti di pizzo, a tutte le cose belle e smaglianti. Poi correva a vestirsi anche lei, e in carrozza, come le signore e i giovanotti salutavano, ella si chinava continuamente a domandare chi erano.
Le bastava vedere una volta le persone per non dimenticarle più, e al passeggio adesso riconosceva da lontano tutte le dame:
— Guarda, la Boscoforte… Zia, la Migliara ti sta salutando.
Ogni signora aveva il suo giorno di ricevimento: la marchesa di Fiordivalle il giovedì, la principessa di Terranova il sabato, la Boscoforte il lunedì; la zia restava in casa tutti i martedì; ed anche lei passava nel salotto, come una signorina. Tutte la festeggiavano, le sciupavano a baci le guancie; ella non udiva che lodi per la sua bellezza. Ma fra quelle signore le sue preferite erano le più giovani e le più eleganti: la Feràolo, che portava una veste da camera azzurra guarnita di larghi merletti bianchi e neri; la Bianchi che voltava il capo, che stendeva la mano, che si stringeva le braccia alla vita con mosse così distinte — dinanzi allo specchio, tutta sola, lei si studiava di riprodurle.
Miss pretendeva che studiassero come a casa; ella rispondeva voltandole le spalle:
— Noi siamo qui per divertirci; punto per ammuffire a tavolino!
E un giorno la zia, lo zio e Miss si misero a confabulare; eran venute delle ambasciate, si sentiva qualcosa per aria. All’ora del passeggio, ella si vestì insieme con Lauretta come di consueto; ma invece di condurle fuori, la zia annunziò:
— Bambine, sentite; a momenti sarà qui vostro padre.
Le due sorelle si guardarono e si misero ad aspettare. Miss, più impettita del solito, era accanto a loro. Si udì il rumore d’una carrozza, lo squillo del campanello, e comparve un signore elegantissimo, con una bella barba bruna spartita sul mento, e una mazza in mano. Andò difilato a salutare la zia, fece un inchino a Miss, e si curvò su di lei dicendo:
— Figlia mia, non mi riconosci?
Era il babbo?
Ella restava a guardarlo, stupita, non ritrovando più la figura che le era rimasta confusamente in fondo alla memoria. Non vestiva a lutto, quella barba gli faceva un’altra fisonomia. Come diede un bacio in fronte a Laura, la piccolina scoppiò in pianto, gli s’aggrappò al collo, mormorando tra i singhiozzi:
— Babbo!… babbo!
Adesso tutti le si misero attorno a calmarla; egli l’accarezzava con le mani inguantate, senza posar da canto nè la mazza nè il cappello. Lei seguitava a guardarlo con occhi asciutti, non comprendendo come quel signore così compito, che non portava il lutto della mamma, potesse essere il suo babbo. Quando Laura finì di piangere, egli domandò notizie a Miss della salute e dell’educazione delle bambine; Miss rispondeva a denti stretti, cogli occhi a terra:
— Oui, Monsieur… Non, Monsieur…
— Vi piace Palermo, bambine?… Verrete un giorno in carrozza con me?
Allora Miss cominciò:
— Monsieur voudra bien m’excuser, mais j’ai des ordres…
La zia prese il babbo in disparte e si misero a parlare fra loro. Non s’udiva quel che dicevano, ma il babbo chinava il capo lisciandosi la barba.
— Come vorrete… — finì per dire; e, dopo un’altra carezza, andò via.
La sera, un servitore portò una bracciata di involti: dei nécessaires da lavoro, dei cartocci di confetti, dei libri illustrati e rilegati. Andò tutto diviso tra lei e Lauretta; ma il possesso di quelle cose non le procurò nessun piacere. Ella era più contenta dei fiori artificiali, dei nastri, dei pezzi di guarnizioni che domandava alla zia, quando questa metteva in ordine le sue cose; e cadeva in ammirazione dinanzi a una piuma vecchia, si provava tutte le carcasse dei cappelli smessi, chiedeva il nome di tutte le stoffe, di tutti i tagli d’abiti, di tutte le gradazioni di colore.
Il babbo tornava a venire, ogni due giorni; Miss era sempre presente, faceva la sentinella. Si discorreva di Milazzo, di Palermo, di tante cose, come nelle visite. Un giorno annunziò che stavano per aprire il teatro Bellini. Ella si tenne dal batter le mani: finalmente sarebbe andata a teatro!
Erano i Puritani che si rappresentavano. Per farle piacere, la zia dovè vestirsi due ore prima dello spettacolo; ella restava estatica a contemplarla in quella toletta scollata, tutta sfolgorante di gemme. Anche lei uscì dalle mani di Miss attillata, azzimata come una damina, con le guancie rosse come di fuoco, sulle quali volle per forza passare il piumino della cipria. Lauretta, che si sentiva poco bene, restò in casa; lei le promise di raccontarle poi tutto.
Che bellezza, quel teatro! Seduta fra la zia e lo zio, ella divorava cogli occhi le signore che avevano già preso posto e sussultavano tratto tratto, come spinte da una molla, per accomodarsi meglio; e ad ogni rumore d’uscio che si apriva voltava il capo per vedere entrare le nuove venute, tutte avvolte negli accappatoi bianchi, dei quali i cavalieri le liberavano. Sapeva che non bisognava far segno col dito, però si chinava appena verso la zia, parlando a voce bassa, chiedendole l’occhialetto che reggeva con tutt’e due le mani e che allungava e accorciava un pezzo prima di trovare il punto giusto, o prendendole il ventaglio profumato per farsi vento, per cacciar la vampa che le saliva al viso. Dalla platea, dai palchi veniva un brusìo confuso; gli uomini, con le spalle alla scena, appuntavano in giro i cannocchiali; e ad un tratto ella sussultò udendo le prime battute della sinfonia. Alzata la tela, si vide un castello con un ponte gettato fra due torri; dei soldati cogli schioppi sulla spalla andavano di su e di giù, e Riccardo, avvolto in un mantello nero, cogli stivali di cuoio giallo e un gran cappello in capo, cantava, portando una mano al petto, alzando l’altra, tendendo poi tutt’e due le braccia: «Ah, per sempre io ti perdei, fior d’amore, o mia speranza!…» La zia spiegava il fatto, ma non bene, quando comparve Elvira, bella e piangente; e poi la gran sala delle bandiere, con la Regina prigioniera dei Puritani, Arturo che voleva salvarla, Riccardo che sguainava la spada, e quella gran confusione, dopo la fuga!
— È finito?… Ah, un atto soltanto!…
Vennero delle visite nel palco; il marchesino di Floristella mormorava alla zia tante cose, mostrando le altre signore; ella udiva: «Una corte spietata! Il marito finge di non vedere… La cognata tiene il sacco…»
Intanto la povera Elvira era ammattita: pallida pallida, scarmigliata, scambiava Riccardo per Arturo, dicendogli: «Vieni a nozze!…» Riccardo piangeva, ma la pazza scoppiava a ridere, cantando dalla gioia: «Vien diletto, in ciel la luna…» fra un subisso d’applausi che si rinnovavano quando Riccardo e l’altro Puritano, sfoderate le spade lampeggianti, cantavano insieme: «Suoni la tromba, e intrepidi noi pugnerem da forti!…»
Oppressa dall’emozione, cogli occhi lacrimosi e ridenti, le guancie ancora più infiammate di prima e così turgide come se fossero sul punto di screpolarsi, ella trasse un profondo sospiro.
— Hai sonno? — chiese la zia.
— Io?… Io starei così fino a domani!
L’ultimo atto; una campagna, con un castello illuminato, e un sedile. C’era Arturo, tutto avvolto in un gran manto nero, che voleva rivedere Elvira. Lei usciva dal castello, sempre pazza, cantando, e se ne andava dall’altro lato. Arturo riprendeva quel canto, accompagnandosi: «Press’un fonte afflitto e solo s’assideva un trovator…» Ed Elvira tornava indietro: «Sei tu?…» Era lui! e s’abbracciavano, stretti stretti, felici e contenti, guardando il cielo: «Vieni fra le mie braccia!…»
— Ma sono già marito e moglie?
Accorrevano i soldati, s’udiva uno squillo di tromba e un araldo annunziava la grazia per tutti, intanto che la gente si alzava in platea, e le signore anche, avvolgendosi nei mantelli e nelle fascie.
A letto, non le riuscì di dormire, con la musica nell’orecchio, coi personaggi sempre dinanzi agli occhi; e nel sonno essi tornavano ad apparirle, si confondevano coi principi e con le regine delle fiabe, cogli eroi guerrieri, cogli amanti infelici che spasimavano lontani gli uni dagli altri e che tornavano da morte a vita appena ricongiunti. E il domani si metteva a ripetere quei motivi, canticchiava con un tempo da tarantella: «Presso un fonte afflitto e solo…» cominciando, interrompendo, e ripigliando cento volte la narrazione dell’opera alla sorellina:
— Però Riccardo vede che Arturo sta per fuggire con la regina, quell’altra, sai? Quella vestita di nero, e lo lascia andare: «Vattene, scappa e non ci tornare più.»
Intanto il nonno scriveva da Milazzo di pensare al ritorno. All’idea che quelle feste stavano per finire, ella aveva quasi voglia di piangere; allora sedeva a tavolino e riempiva un foglio di preghiere, scongiurando il nonno di accordare una dilazione, asserendo che era necessario per la salute di Lauretta, promettendogli tutte le sue carezze e i suoi baci se diceva di sì. E degli altri giorni scorrevano, tra i passeggi, gli spettacoli, gl’inviti a pranzo. Una volta, alla Marina, la loro carrozza s’incrociò con quella del babbo: aveva a fianco una signora bruna, un po’ grassa, colle guancie bianche di cipria e dei grossi smeraldi alle orecchie. Guardò le bambine, sporgendosi di scatto: lei s’irrigidì, guardandola fiso, duramente, comprendendo che era quella per cui la sua mamma aveva tanto sofferto. Ma la sera, a teatro come rappresentavano la Lucia di Lammermoor, non ci pensò più: adesso non sapeva quale delle due opere fosse la più bella. Quella comparsa di Edgardo in mezzo alla festa di nozze! E la sfida dei due rivali! e la scena delle tombe: «Tu che a Dio spiegasti l’ale!…» I motivi più belli le restavano tutti impressi; nel cantare: «Verranno a te sull’aure i miei sospiri ardenti…» delle lacrime le scorrevano sulle guancie.
Gli ultimi giorni passarono nelle visite di congedo, nelle compre di tanti minuti oggetti da portare a casa. Le signore volevano sapere dalle ragazze se lasciavano Palermo con dispiacere; ella rispondeva:
— Non me ne parli!
Ed alla cameriera della zia che le chiedeva quando sarebbe venuta un’altra volta:
— Presto! — rispondeva. — Vi pare che io voglia stare in quella bicocca?
Allora, mentre la donna rassettava la camera, ella cominciò a interrogare:
— Sentite: quanto vi dà la zia ogni mese?
— Trenta lire.
— E al cuoco?
— Settantacinque.
— E al cameriere?
— Altre sessanta.
Si mise a far dei conti a memoria, poi chiese chi fosse il miglior tappezziere, quanto costasse un quartiere sul Corso.
— Ma che cosa le importa di questo?
— Faccio i miei conti, — esclamò — perchè debbo metter casa anch’io!