V.

— Io sono vile nei miei affetti!
Come Paolo, l’inverno seguente, la trascurava ancora per la politica, ella tornava a scongiurarlo di esser buono con lei; e poichè egli negava di esser mutato e derideva le sue paure, ella ripeteva:
— Ridi, ridi pure! Sai che t’amo, che sono vile nell’amore…
— Che frasi drammatiche!
E adesso, ogni volta che ella esprimeva qualche pensiero delicato, un sentimento non comune, egli alzava le spalle:
— Non far la romantica! Come sei teatrale! Non per nulla reciti così bene…
Egli diceva queste cose con un sorriso d’indulgenza che ne temperava la durezza; però era sempre un giudizio poco lusinghiero. Ella si domandava: «Allora, è come con mio marito?»
E quel giudizio le veniva da lui, che dichiarava di fingere ogni giorno, di non credere a quel che diceva!
— Tu, intanto, rappresenti la tua parte!
— È vero… hai ragione! Tutto è finzione…
— Anche l’amore?… rispondi!
Egli rispondeva, con un gesto vago:
— Chissà… forse anche quello!
— Guardami negli occhi: ripetilo…
— No… l’amor volgare, sì; non il nostro…
Spesso, dopo essersi ostinato in qualche concetto, egli le proponeva:
— Adesso, vuoi che io ti dimostri l’opposto?
E come distruggeva ad uno ad uno tutti gli argomenti addotti dapprima, come metteva un più grande calore nel difendere la tesi contraria, ella protestava:
— Basta! Basta! Non credi dunque a nulla?
— A tutto, invece…
Ella credeva all’ideale, alla poesia; gli faceva leggere dei passaggi di romanzi, dei versi che le parevano sublimi, dettati da gente fatta a un altro modo, vivente di puro etere.
— E tu li pigli sul serio? Non vedi che sono parole?
— Ma sono le parole che esprimono i sentimenti!
— D’accordo. Dimmi che cosa vuoi che ti esprima, e parlerò tre ore di seguito.
Ella gli turava la bocca:
— Taci! Mi fai male.
Fingeva dunque anche quando le parlava dell’amor suo? Ma egli ne parlava adesso tanto di rado! I capi del suo partito fondavano un giornale; egli vi prendeva una larga parte, per dei giorni e dei giorni la lasciò sola. Un tempo, quando non poteva venire a trovarla le scriveva lunghe lettere; ora mandava dei biglietti da visita con su due parole; spesso neppur quelli. Ella si sentiva stringere il cuore dinanzi al ritorno più frequente di quei sintomi; poi si rimproverava le sue preoccupazioni, si diceva che doveva agguerrirsi contro i disinganni; che, a lasciarsi scorgere, avrebbe fatto peggio, e che anzi, se voleva ricondurlo a sè, le conveniva mostrarsi piuttosto indifferente e distratta. Ma era più forte di lei: nel bel mezzo della relazione d’un ballo, d’un giro di visite, ella s’interrompeva, esclamando:
— Ma come sei freddo! Non mi ascolti, non mi domandi nulla… non t’importa più di nulla!
— Chi te l’ha detto?
— Lo vedo, da me! Credi che io non abbia occhi?
— T’inganni!
— Ma se non mi dici più nessuna delle cose che mi ripetevi un tempo! Se vieni qui a parlarmi della Camera e del Senato, del giornale e dei ministri! Cosa vuoi che me n’importi? Io ho bisogno di sentirmi voluta bene, d’essere avvolta in un’atmosfera d’affetto…
Incrociate le mani sopra una spalla dell’amato, alzando gli occhi su di lui, ella pregava:
— Dimmi che mi vuoi sempre bene… che sono l’amore tuo caro! Dimmi tante cose…
— Amore! Amore!
Egli la stringeva al petto, ripetendo quella parola, ma senza aggiungere altro.
Ella diceva:
— Se io ti domandassi di darmi una prova di questo amore… di rinunziare per esso alla politica… che cosa diresti?
— Sì…
Ma ella sentiva adesso che egli rispondeva a quel modo perchè era sicuro della sua desistenza; e a un tratto s’accorgeva che mai le aveva detto quel sì sinceramente, neppure ai primi tempi della loro relazione. Non gli rimproverava apertamente quel suo egoismo; però, in tesi astratta, a proposito d’altri, ella usciva in qualche amara affermazione:
— Gli uomini sono incapaci di sacrifizio… vogliono essere amati, solletica il loro amor proprio vedere una creatura perdersi per essi; ma rispondere a questo amore, comprendere questa creatura…
— Già, perchè voialtre siete fatte a un modo arcano!
— Puoi scommettere che abbiamo più cuore di voi…
— Quando vi date, vi date in olocausto! lo so, me l’hai ripetuto molte volte… al visconte hai detto altrettanto?
— E sempre questo rimprovero!
Non erano delle scene vivaci, ma delle piccole punture, dei brevi bisticci, delle allusioni malevole, con dei ritorni all’antica fiducia. Uscendo una sera dal Valle, ella prese freddo; la tosse e la febbre l’inchiodarono a letto. Allora, durante tutto il corso della malattia, per un mese intero, egli ridivenne l’amante d’un tempo. Tutti i giorni, appena desta, ella aveva una sua lettera, buona e bella, piena di cose tenere e poetiche, di invocazioni alla primavera perchè spirasse il suo tepido alito a guarire più presto la Diletta, di benedizioni rese a quel male che la sottraeva al mondo ed alle sue distrazioni lasciandola tutta tutta per lui. E dei fiori, perchè le restituissero i colori rubati alle sue labbra ed al suo viso, e dei libri, dei romanzi d’amore, dei versi d’amore perchè le parlassero per lui: tante care attenzioni che inducevano anche lei a benedire quella malattia, cogli occhi umidi di pianto, un’altra febbre nei polsi: la febbre divina della speranza e della fede.
Guarì, e a poco a poco tutto questo cominciò a passare. Ella tornò a veder gente, egli a sospettare, a punzecchiarla senza ragione. Talvolta ella alzava le spalle, opponendo ai sorrisi sarcastici di lui degli amari sorrisi; tal’altra lo scongiurava di non dirle di quelle cose cattive, gli s’inginocchiava dinanzi, gli rammentava la recente felicità, diceva, giungendo le mani: «Signore, fatemi ammalare un’altra volta!» Egli tornava buono, ma le parole innamorate che le diceva erano le stesse di un tempo — ed anche lei s’accorgeva di ripetere le cose già dette. Certe volte, restavano dei momenti abbracciati, senza dir niente. Egli non aveva più gli scoppii d’una volta, non la torturava e non si torturava; se parlava degli uomini che le facevano ancora la corte, non si scuoteva, non l’assaliva coi suoi sospetti. Ma quella freddezza era forse studiata? Era un’altra forma della sua gelosia?
— Che cosa ti dà ombra? Dillo: io potrò correggermi, provarti che non ho altro pensiero fuori del tuo…
— Niente… nessuno…
— Non è vero! La vita che faccio non ti piace… ma qui è un obbligo per me! Quante volte non t’ho detto di andar via…
— Non dicevi sul serio.
Dinanzi a quelle accuse, un moto di ribellione la sollevava; poi, quand’egli non era più lì, quando si metteva a pensare all’avvenire, una paura la piegava, l’umiliava. Adesso ella intravedeva, più distintamente di prima, una cosa orribile: la morte di quell’amore… Il miraggio che l’aveva affascinata, la speranza che l’aveva sorretta, svanivano, si dileguavano, insensibilmente, ma continuamente, senza speranza di ritorno. Quell’uomo per cui s’era perduta, che l’aveva sedotta con la promessa d’un amore eterno, adesso veniva da lei per leggere i giornali, per dormire sopra una poltrona… Ella si passava: una mano sugli occhi; si diceva: «Non sogno?…» Com’era dunque avvenuto? Quella sua colpa era proprio imperdonabile? E delle cose dimenticate le tornavano alla memoria: dei sintomi di mutamento rivelatisi ancor prima della sua confessione… era dunque l’opera del tempo? la fatalità della vita? L’errore consisteva dunque nel credere alla durata di qualche cosa, quando tutto moriva, tutto finiva? No; l’errore era stato suo, d’aver prestato fede a
quell’uomo. Scettico ed ambizioso, declamatore e vano, ella lo vedeva qual’era. Poi si domandava: «Perchè lo giudico così? Perchè non lo scuso? Ho anch’io dei difetti da farmi perdonare…» Allora tornava ad afferrarsi a lui; e una buona parola la consolava, la paura cessava.
Passò così dell’altro tempo, tra accuse e discolpe, tra urti e riconciliazioni, tra brevi ritorni agli entusiasmi dei primi tempi e lunghi periodi d’indifferenza e di freddezza. I tentativi di seduzione si raddoppiavano intorno a lei; nelle giornate cattive ella pensava che se avesse voluto, tutti gli uomini le sarebbero caduti ai piedi; poi riconosceva che essi le stavano attorno perchè era caduta. Qualcuno, però, la trattava diversamente dagli altri. Lo aveva conosciuto a Pegli, l’ultima estate; rivedendolo a Roma, la prima volta, non aveva rammentato il suo nome. Se ne sovvenne quando egli le lasciò una carta: Eduardo Morani. Un giovane a ventotto anni, con degli occhi dolci, il viso magro dalla pelle leggermente abbronzata dal sole e dall’aria marina. Aveva fatto i suoi studii all’Accademia navale; ma come la sua vocazione pel mare contrariava troppo la sua famiglia, aveva rinunziato alla carriera. Una serietà attraente spirava dalla sua fisonomia; egli le rammentava l’ufficiale di marina incontrato a Milazzo. Nelle parole che le rivolgeva v’era un rispetto così profondo, un riserbo così scrupoloso, che la facevano pensare a quel che avrebbero dovuto essere le sue parole d’amore. Quand’egli parlava del mare, la sua voce tremava.
— Lo amo anch’io — confessava ella — ma da lontano… e quando è buono…
— Bisogna amarlo com’è!
— No, no… lei è troppo esclusivo nelle sue passioni
Inutilmente ella cercava di provarlo, di provocarlo a parlare delle cose del sentimento; egli evitava di rispondere, chinava il capo in atto di deferenza a ciò che diceva lei stessa. L’esperienza la rendeva guardinga: quel contegno non poteva essere studiato apposta per fare effetto? Ma quando ella sentiva l’accento di schiettezza ingenua col quale le parlava, si ricredeva, si confessava che le era simpatico.
Paolo non s’accorgeva di questo; a poco a poco egli aveva finito per non seguirla più in nessun posto, per non vederla altro che nell’intimità di quattro mura. Ma se ella andava a un ricevimento, a una rappresentazione, il domani erano delle allusioni sarcastiche, dei sorrisi ambigui, un avvelenamento del piacere che ella aveva provato. Era tanto sciocca da dirgli quali uomini aveva notato di più, quali le erano stati più a lungo dintorno: egli accavalcava una gamba sull’altra, guardandola con un riso cattivo.
— Ma se tu sei geloso, perchè non mi segui? Io ho l’obbligo di far questa vita…
— E i tuoi progetti di rinunzia?
Ciò che egli voleva, era dunque che ella si appartasse dal mondo per fargli piacere, che non vivesse se non del pensiero di lui mentre egli avrebbe continuato a curarsi d’altro! L’egoismo dell’uomo non poteva rivelarsi meglio che in questa pretesa; però ella si piegava ancora. Prima di andare a un ballo in casa Fucino, gli chiese:
— Se ti fa dispiacere…
— No, assolutamente.
— Dillo pure, se non vuoi… io farò quel che tu imporrai.
— Che diritto ho d’importi qualche cosa?
— Tutti i diritti, lo sai!
— No, non mi fa dispiacere… mi piace che tu brilli, che ti diverta…
Ella chiese ancora, irresoluta:
— Verrai anche te?
— Sì.
Sentendo parlare da madama Duroy di quella festa, si decise, esaltata come sempre all’idea del trionfo da riportare. Gli scrisse, in francese, un bigliettino: «Eh bien, j’y vais, je t’y attends; mon carnet est à toi». Egli non venne; quando si rividero, ricominciarono i malumori, le malignazioni. Ella dunque doveva interpretare le sue volontà celate, imaginare le sue fisime, indovinare ciò che gli passava pel capo, ma che egli non aveva la sincerità di confessare. Ella doveva amarlo, e non ricevere in cambio se non le prove di una diffidenza sorda, d’una freddezza crescente… Il suo orgoglio s’impennava, ella si fermava nel proposito di rispondere alla sua indifferenza con una noncuranza maggiore e, a poco a poco, non s’interessava più ai suoi progetti, non gli chiedeva più nulla delle cose sue, non andava alla Camera a udirlo; nè egli la lodava più, le dimostrava più la stima che aveva avuto del suo ingegno: se talvolta impegnavano qualche discussione, non s’arrendeva come prima, rideva degli argomenti di lei. Ella sentiva il distacco operarsi lentamente e fatalmente; ma come ritornavano ancora una volta le date della loro passione, una nostalgia s’impossessava di lei al ricordo del suo bel romanzo, e cercava di attaccarsi ancora a quell’uomo, di riafferrarsi a quel passato. Egli la lasciava dire, chinando il capo, guardandosi le mani.
— Quanto amore, non è vero? Quante carezze! Ma tu non dici nulla… hai l’aria d’essertene pentito…
— Tu non sai quel che dici.
— Oh, così fosse! Ma io vedo, penso, confronto, intuisco…
Qualche volta arrivava da lei stringendole la mano senza baciarla; le restava una sera accanto parlando di cose indifferenti, non le chiedeva le sue carezze.
— Come sei mutato! — esclamava ella — come sei freddo!
— Io sono lo stesso.
— Ma sai che qualcuno darebbe la vita, per starmi un’ora vicino, così?
— Chi, il principe di Lucrino?
Se il discorso tornava sulle memorie del tempo in cui non si conoscevano ancora, se egli parlava del primo suo amore che la morte aveva crudelmente troncato, le sue parole erano più commosse, ella lo sentiva più lontano da lei.
— Tu pensi sempre alla morta!
— Sì… ma in altro modo.
— Vorrei che pensassi in quest’altro modo a me stessa… Oh, capisco, hai ragione: ella ti avrebbe dato molto più di quel che posso darti io! Che cosa valgo, oramai?
Egli le stringeva una mano, senza protestare.
— Tu avresti voluto essere il primo a leggere nel cuore d’una donna…un giorno, mi lascerai per sposare una vergine…
Allora, come egli restava senza dir nulla, gli si metteva quasi in ginocchio dinanzi, pregando:
— Senti, Paolo… se tu non m’ami… se non mi amerai più… me lo dirai, francamente, sinceramente? Sarà lo strazio di tutto l’essere mio, ma non te ne vorrò… capisco che tutto finisce al mondo! Procurerò d’esser forte! Ma voglio che tu me lo dica, senza infliggermi il tormento di vederti così freddo, stanco, annoiato…
— Ma t’inganni!
— No, non mentire… tu non m’ami più…
— Ebbene, come vuoi: non t’amo…
Un momento, pensava di rispondergli: «Sta bene, separiamoci dunque!…» poi fissava il proprio sguardo sul suo, intensamente, dolorosamente, appassionatamente, ed in quello sguardo ella metteva dei rimproveri umili, una supplicazione devota, tutti i ricordi del loro passato, tutte le promesse dell’avvenire. Ella gli prendeva una mano, senza lasciar di guardarlo; gli diceva, sommessamente:
— Ripetilo… ch’io lo senta ancora…
— No! non è vero! Sei tu che mi fai dire queste cose…
Allora, per non sentirsi accusare daccapo, era lui che la accusava.
— Sei stata col principe? A che punto siete arrivati?
— Oh, Paolo!
— Allora, chi altri hai per le mani?
— Tu non sai che questo è un insulto?
Egli alzava le spalle, esclamando:
— Non recitare! Tu pensi ad altri…
— Io? Io? Ma se fosse vero, perchè ti supplicherei da tanto tempo di non trattarmi così? che cosa m’impedirebbe di abbandonarti?
— La forza dell’abitudine…
Un velo le annebbiava la vista, le sue mani tremavano.
— E sei tu che dici questo? E tu lo credi? Ah, è vero! Dopo averci fatto cadere, siete i primi a disprezzarci!
Adesso la verità le appariva in tutta la sua crudezza: egli non l’amava più, quelle accuse che le rivolgeva erano altrettanti pretesti per stancarla, per disfarsi di lei… Un’amarezza immensa le saliva dal cuore alla gola; ella si ricordava tutto ciò che quell’uomo le costava: la famiglia perduta, il disprezzo del mondo, l’avvenire distrutto. Perchè ella sarebbe rimasta sola, senza un appoggio, esposta ad ogni sorta di rischi… meglio questo, meglio la fine, piuttosto che il freddo insulto! Perchè non aveva egli il coraggio di confessarle sinceramente: «Non t’amo più, tutto è finito?» Allora ella si copriva il volto con le mani, pregava tra sè: «No, più tardi che è possibile… voglio sperare, voglio ostinarmi…» Ed ella non si confessava che anch’ella non lo amava più, che quell’amore non rispondeva al tipo da lei sognato, che quell’uomo non le piaceva. Non lo aveva mai trovato nè bello nè nobile abbastanza; non era mai stato molto elegante, adesso era quasi trascurato; non voleva andare nel mondo, la sua gelosia consisteva più che altro nell’idea del posto secondario che egli vi teneva, del vantaggio che avevano su di lui i giovani alla moda — e impediva a lei stessa di fare la vita che sognava, di ricevere molta gente, di andare a cavallo, di fumare, di divertirsi a proprio talento.
Dell’altro tempo passava: la lusinga rinasceva e tornava a dileguarsi. Con una gran tristezza nel cuore, ella andava nel mondo, fingeva la serenità e l’allegria, non tollerando che la gente s’accorgesse dell’abbandono in cui era lasciata. La passione era stata la legittimazione del suo fallo: ella non voleva sentirsi dire che s’era ingannata. Però, come gli uomini la perseguitavano con le loro insistenze, ella rispondeva con uno scetticismo corrosivo. Non si scopriva in tal modo? Ma come ascoltare senza ribellarsi le menzogne che le recitavano?
Solo Morani la trattava a un altro modo, la circondava d’un rispetto fraterno; l’imagine di lui le era sempre presente. Ella imparava a conoscere la lealtà del suo carattere, la dirittura del suo animo. Un giorno, per istrada, le presentò le sue sorelline: due belle fanciulle, a cui ella si affezionò come a delle figlie. E andando adesso in casa di lui, conoscendo la severità della sua vita, ella aveva una tentazione che si faceva sempre più forte: chiedergli un colloquio, confessargli tutta la sua storia, la situazione presente, e seguire i suoi consigli. Poi l’impossibilità di parlare del suo stato a un giovanotto l’arrestava: non avrebbe egli potuto credere a delle avances da parte di lei? Ed ella s’arretrava ancora, atterrita all’idea d’incorrere nel suo disprezzo.
Come la sua tristezza cresceva, ella s’afferrava di più a Paolo, gli diceva:
— So bene che un giorno tutto finirà tra noi; ma lascia che il tempo compisca la sua opera, senza affrettarla! Perchè privarci di qualche altro giorno di gioia?
Le sue guancie si rigavano di pianto; come egli cercava di replicare, di assicurarle che era sempre suo, ella esclamava tra i singhiozzi:
— T’ho per poco! Ti perdo, mi sfuggi…
Quando egli le si mostrava cattivo, quando le ripeteva l’assurdo pensiero che ella pensava al tradimento, gli diceva:
— Ma non sai che questo pensiero funesto uccide l’amore? Che se non lo combatti, se non lo distruggi, finirà per spegnere il tuo sentimento?
Ella pensava che ardesse ancora un poco, ne rimescolava le ceneri. Un giorno, nel rimettere in ordine le lettere di lui, ne aveva rilette tante, s’era sentita rivivere ai tempi della felicità. La sera, al sopravvenire di Paolo, ella lo abbracciò con più calore, si mise a riferirgli i passaggi più belli di quelle lettere.
— Ti ricordi come scrivesti la prima volta? E dalla Sicilia? Ascolta: dopo Castellammare mi dicesti così…
Egli disse:
— Pensi ancora a queste cose?
— Ma sempre! Non penso che a questo… e tu?
— È un pezzo che me ne sono dimenticato.
Fu un urto in pieno petto. Ella guardò quell’uomo che si stropicciava le mani evitando di guardarla, e ad un tratto sentì che non v’era fra loro più nulla di comune, che un abisso si sprofondava tra loro, abbattendo, travolgendo, inghiottendo ogni cosa. E la sua propria voce, nel silenzio gelido che s’era fatto, la stupiva, la impauriva:
— Hai dimenticato… neppure il ricordo? Allora, tutto quello che mi dicevi?
Egli s’alzò in piedi, facendo per dire qualche cosa. Col petto affondato, il capo pendente, gli occhi sbarrati, ella distese un braccio, ingiungendogli di non parlare. Si sentiva finire, il sangue le si gelava nelle vene, un velo le ottenebrava la vista, un nodo le si aggruppava alle fauci….
Fu una crisi come non ne ricordava più da un pezzo. Un giorno intero le convulsioni e le sincopi si alternarono lasciandola sfinita, contusa per tutto il corpo, con la lingua e le labbra lacerate dai morsi. Nell’esaurimento supremo in cui quegli assalti la lasciavano, ella provava l’impressione di una fatalità ineluttabilmente compitasi, dell’impossibilità d’ogni sforzo, di qualche cosa d’irreparabile. Egli tornava ancora: nella sua fibra spezzata ella non trovava la forza di respingerlo, ma sentiva che era morto per lei, che nulla, nessuna protesta, nessun pentimento, nessuna abnegazione avrebbe potuto cancellar mai le atroci parole. Tutto ciò che egli faceva o diceva le era adesso increscioso; la stessa stima nelle sue doti intellettuali e nelle sue qualità morali era morta. Ella finiva per negare di averlo amato mai; e un immenso stupore la invadeva, pensando alla rivoluzione operatasi nel suo spirito. Un tempo, con Duffredi, ella si era ròsa all’idea della catena legatasi al piede, aveva disperato di poterla infrangere, e adesso che quella catena era rotta, che se n’eran disperse perfino le vestigie, ella ne trascinava un’altra, egualmente pesante. Come un tempo, all’idea di esser stata lei stessa a volere quel nuovo danno, non si dava pace; e nel suo rancore impotente, disperando ancora di liberarsi, ma non riuscendo a tollerar quello stato, se Arconti la teneva fra le sue braccia, ella nascondeva il viso, mormorando:
— Vorrei morire!
Si sentiva profanata, degradata, pensava con amarezza al disprezzo di cui sarebbe stata ora degna. Ma l’idea di esser disprezzata da Morani le riusciva particolarmente dolorosa. Egli era per lei una specie di giudice superiore ed invisibile, che assisteva ad ogni atto della sua vita, che leggeva ogni moto del suo cuore. Che cosa le avrebbe consigliato, se avesse consentito ad ascoltare la sua confessione? Avrebbe potuto ammettere egli, nella sua dirittura, quel prolungamento d’una finzione incresciosa? Ella affrettava la liberazione, ma non sapeva come affrontarla. Vi erano delle donne che riuscivano a dire: «Non t’amo più, lasciami, va’ via…» Ella non sapeva pronunziare queste parole, per sbarazzarsi dell’uomo che era stato tanta parte della sua vita; come quando aveva lasciato suo marito, degli ostacoli la arrestavano; ella provava ancora una volta che tutto era più difficile del previsto… Ma che cosa avrebbe fatto sola? Fin dove sarebbe precipitata? Quali miserie l’aspettavano ancora? E il suo cuore si chiudeva dall’angoscia, dal terrore; nessuna speranza luceva per lei: come sarebbe stato meglio morire! perchè non era morta? La figura di Matilde Cerosa, dell’infelice che s’era sfracellata sul marciapiedi lo stesso giorno in cui ella partiva da Palermo pel viaggio di nozze, risorse allora improvvisamente, dopo tanti anni, nella sua memoria. Quella tragica coincidenza non era stata una fatalità e quasi un avviso del suo destino? L’atroce coraggio della suicida l’affascinava: in certe ore di funebre spleen, quando il cielo era di cenere, le strade silenziose e deserte, la solitudine più fredda e più
triste, voleva finirla anche lei, cercare il riposo nell’ultimo sonno. Pensava di comprare un revolver, piccolo, dal manico intarsiato, dalla canna damascata, un’arma che sarebbe stata un gioiello, e con quella darsi la morte. Allora l’avrebbero pianta, avrebbero saputo qual cuore era il suo!
E come, suo malgrado, faceva intendere all’altro il disgusto da cui si sentiva presa, egli pareva riattaccarsi a lei! Vedendola nascondersi il viso, formulare un voto di morte, le diceva:
— Ti faccio orrore, non è vero? Son io che t’ho voluta perdere! Ma che importa? Restiamo legati lo stesso…
Altre volte esclamava:
— Rammentati le mie previsioni! «Sarai tu che non mi vorrai più»… che non mi vuoi…
— E di chi è la colpa? Chi ha ucciso l’amore? Chi ha detto di non rammentare più il passato… chi lo ha rinnegato? Di chi è la colpa?…
— La colpa… la colpa!
E tornava ad accusar lei, ricominciava con le sue malignazioni. Una sera, ella proruppe:
— Oh, senti! Quando devi venir qui per dirmi di queste cose… è meglio farne a meno… aspettare dei momenti migliori…
Egli s’alzò, soggiungendo subito:
— Lo credo anch’io… sarà meglio separarci per qualche tempo. Tanto, fra giorni la Camera si richiude.
E senza vederla più, senza scriverle un rigo, partì. Nel vuoto fattosele così d’intorno, ella era stupita del sottil senso di liberazione che la penetrava. Perchè dunque quella rottura non l’accorava? perchè non provava il dolore previsto?… Forse perchè ella sapeva che la separazione non era definitiva. Da un momento all’altro contava di ricevere sue lettere, delle lettere umili, pentite, imploranti. Non amava più quell’uomo; ma voleva una prova dell’impero che aveva esercitato, che doveva ancora esercitare su di lui… I giorni seguivano ai giorni, le settimane alle settimane, ed egli non scriveva nulla, non un rigo, non una parola…