VI.

Erano tristi pure i primi giorni di Palermo, ma d’una tristezza diversa. Anche a restare in casa, il frastuono della città, il movimento che si sorprendeva dalle finestre, il succedersi dei visi nuovi procuravano delle distrazioni involontarie. Poi, col nonno, quantunque fosse tanto buono, ella non si poteva intendere così bene come con la zia.
Le condizioni della sua salute richiedevano che ella facesse molto moto; così la mattina a buon’ora andava fuori; giravano a lungo pei negozii, o si facevano lasciare in carrozza al Giardino Inglese, all’Olivuzza, ai Quattro Canti di campagna, donde ritornavano a piedi.
La morta era sempre fra loro; però non ne parlavan mai. Ella non voleva lasciare il lutto: sapeva che dopo sei mesi avrebbe potuto smettere quello grave, ma contava di portarlo per degli anni, per sempre. Sorrideva tristamente, quando si guardava allo specchio, quando apprezzava, senza volerlo, il risalto che le vesti nere davano alla sua carnagione rosea, ai suoi capelli d’oro. Le pareva che quella salute, che quella bellezza fossero un’irriverenza verso la sua povera sorellina morta: avrebbe voluto che il suo viso esprimesse ciò che il suo cuore sentiva; provava un senso di contrarietà quando si sentiva ripetere che aveva un aspetto fiorente.
Suo padre viaggiava in quel momento; quando tornò s’incontrarono ancora; un giorno ella andò a desinare da lui, Miss non aveva più la consegna d’opporsi. Ma in presenza della donna che aveva fatto soffrir tanto la sua mamma, che aveva distrutta la sua famiglia, ella sentì risvegliarsi il rancore antico. Colei le prodigò delle carezze, delle moine; ella restò tutta fredda sotto quei baci. Suo figlio, che adesso aveva sette anni, era un ragazzo malavvezzo; fece mille monellerie, guardandola di traverso; a lei non entrava in mente che fosse suo fratello. Il babbo era sempre così compito e così contenuto come un estraneo, e le dava tanta soggezione che, potendo, ella evitava di tornare in quella casa.
La zia era molto legata con la contessa di Viscari; la figlia di lei, Giulia, le ispirò una simpatia istintiva; dopo pochi giorni strinsero amicizia. Giulia era bruna, alta, un po’ irregolare in viso; ma piena d’espressione, vivace, briosa; ed elegante, aristocratica fino alla punta dei capelli. Ella sognava di farsene un’altra sorella; e a poco a poco il suo sogno si mutava in realtà. Malgrado la sapesse venuta dal fondo d’un paesuccio di provincia, Giulia le chiedeva dei consigli, faceva un gran conto dei suoi giudizii: si scoprivano dei gusti identici, gli stessi ideali. Però le lodi che l’amica le prodigava per la sua bellezza, per la sua coltura, pel suo spirito, non la rassicuravano molto; ella guardava le altre signorine della società palermitana con una timidezza secreta, pensando che dovevano essere tanto superiori a lei.
— Come t’inganni! — esclamava Giulia. — Ti farò conoscere io una che fa per te.
Era Bice Emanuele: una ragazza pallida, malinconica, senza mamma come lei. Ma quanto buona e intelligente! Tutt’e tre, si giurarono un’amicizia eterna; più tardi, Enrichetta Geremia, la figlia del conte di Tolosa, entrò nella loro piccola côterie. Ella voleva a tutte un bene dell’anima; soffriva e gioiva per esse più che per sè stessa: imaginando la morte di una di quelle dolci compagne, si diceva che avrebbe portato il lutto come per una sorella.
Quando non era con le amiche, ella passava il suo tempo studiando. Non s’era trovato ancora un professore di lettere; venivano invece i maestri di musica e di disegno. Per riposarsi dallo studio, lavorava con la zia a dei minuti ricami, alle frivolità.
Lo zio leggeva continuamente dei romanzi che mandava a prendere da un gabinetto di lettura o che gli prestavano i suoi amici. Ve ne erano degli antichi in uno scaffale confinato in una retrostanza; ma la zia le aveva proibito di toccarli. Per un certo tempo ella obbedì; poi la tentazione fu più forte; non poteva mica restare le intere giornate a pianoforte, o dinanzi al cavalletto, o a ripassare con Miss delle lezioni che sapeva a memoria. Prese così qualcuno di quei volumi e lo divorò di nascosto.
Vi erano i Tre Moschettieri, in francese, un’edizione a due colonne con delle illustrazioni in legno. Restò come intontita da quella lettura; per un pezzo, in tutti gli uomini che vedeva cercava delle rassomiglianze con qualcuno degli eroi del libro. Che simpatia! Però, Porthos era un poco volgare e Aramis infinto, quantunque avesse una gran cura della propria persona — ed ella provava a tener le mani alzate, per farle venire più bianche, come faceva il moschettiere. D’Artagnan sarebbe stato il più simpatico senza certe cose un po’ troppo buffe: e lei non voleva ridere. Athos, nobile, cavalleresco, malinconico, aveva tutte le sue preferenze. Ella pensava che vi dovessero essere ancora degli uomini così disinteressati, così arditi, così eroici, sempre pronti a metter mano alla spada, a sfidare ogni pericolo, per il sorriso d’una donna, per un capriccio, per una fantasia… Vi erano dei volumi di Paul de Kock; li aveva letti ridendo, buttandoli poi in un canto, indispettita contro sè stessa. Non glie ne rimaneva nulla, tranne la seduzione della vita parigina. Aveva messo le mani sopra Giuseppe Balsamo e sopra il Conte di Montecristo, la sua meraviglia, il suo piacere crescevano a dismisura; ella viveva di quelle letture, dimenticava per esse le amiche, le distrazioni, l’appetito. E i Misteri di Parigi! I Miserabili! Però la parte filosofica di questo romanzo le seccava un poco. C’era ancora del Féval, del Bernard, del D’Arlincourt; ella divorava tutto, fremente di curiosità, di emozioni soffocate. Imaginava vagamente i luoghi descritti, vedeva gli eroi presentati dai romanzieri, s’innamorava di Rodolfo, di Mario; e il ricordo di Luigi Accardi finiva di dileguarsi.
Sulla fede di quei libri, ella sognava fatalità inesorabili, eroismi inauditi, strazii ineffabili, gioie celesti. Tutte le predizioni si avveravano, gli uomini lottavano invano contro il destino; ma l’amore infiorava la vita, era il compenso di tutte le pene. Che importavano le ricchezze? V’erano dei giovani che sotto un vestito lacero avevano un cuore di eroe; e poi, essi le acquistavano, le ricchezze e le posizioni altissime, perchè ne erano degni! Se fosse stato uno di questi il professore che le avevano trovato finalmente?
Il professore era un uomo d’età: corto di statura, con una foresta di capelli e gli occhiali d’oro. Aveva preso a spiegare Omero e Virgilio; ma quello studio, malgrado lo zelo che vi spiegava, non le riesciva gradito. Tutta quella gente era troppo antica, troppo diversa da quella che ella vedeva od imaginava: e confondeva i nomi, incontrava troppe parole difficili, non le era entrato in mente quale dei due autori fosse il latino e quale il greco.
La storia le piaceva di più; sopra tutto la moderna, quella del riscatto nazionale; e le gesta dei Savoia, la magnanimità di re che avevano cimentato il trono per dare una patria agl’Italiani, di principi che avevano pugnato pel loro paese, le davano dei fremiti d’entusiasmo.
Con piacere più grande svolgeva i temi dei componimenti, ne riceveva arrossendo le lodi dal professore, il quale, alle domande dello zio, rispondeva:
— Va bene, molto bene… anzi troppo! C’è troppa fantasia!
Ella descriveva a lungo, minutamente, dei campi di battaglia, delle foreste vergini, dei naufragi, tutte cose che non aveva mai viste, ma delle quali si formava un’idea. La lettura dei romanzi le dava molto aiuto; ma il professore, un pedante, cancellava delle frasi che ella aveva viste stampate, che le parevano piene d’eleganza e d’efficacia, e che lui dichiarava infranciosate. Ella scriveva: la vita sentimentale, e il professore correggeva: la vita del cuore e della mente. Però, tornava con nuova lena alle sue letture; le osservazioni del maestro, i rimproveri dei parenti glie le facevano amare di più.
— Lascia stare cotesti libri — diceva la zia. — Ti guasteranno la testa…
— Perchè? Come se io non sapessi qual’è la finzione e quale la verità!
E voleva sapere se il cavaliere di Maison-Rouge era realmente esistito, se la storia di Montecristo era vera; nella carta geografica, cercava l’isoletta, avrebbe voluto andarvi qualche volta.
Adesso conosceva mezzo Sue, del Balzac che trovava però troppo lungo, quasi tutto Walter Scott. Il ricordo della sua povera sorellina morta la sorprendeva certe volte in mezzo alle imaginazioni suggerite da quei libri: allora, era una mestizia dolce, una malinconia soave che la prendeva, rassomigliandola a qualcuna delle eroine belle e infelici di cui ella si faceva come dei modelli, come delle maestre di vita, con l’ambizione di essere secretamente approvata da loro in ogni atto ed in ogni pensiero. Il dolore acuto e lacerante dei primi tempi si risolveva sempre più in un rimpianto rassegnato, in un ricordo pieno di tenerezza: la sorellina sua non viveva forse in lei, nel suo spirito, non l’accompagnava forse sempre e dovunque, memoria buona e protettrice?
Così, passato il tempo del lutto, malgrado avesse espresso il desiderio di portare ancora le vesti nere, obbedì all’ingiunzione della zia e le smise.
Allora cominciarono ad andare al teatro di prosa: un’altra sorgente di emozioni più forti: la Signora delle Camelie, Kean, la Morte Civile, Celeste. Quando venne la compagnia di Amilcare Baretti e l’attore Roggi rappresentò il Falconiere, ella tornò a casa colla testa in fiamme. Nessun uomo le pareva più bello di lui, la sua voce, quand’egli parlava d’amore la faceva tremare. Tutte le volte che aveva in mano il manifesto, correva cogli occhi a cercare il suo nome; se non lo trovava, la scena le pareva deserta, lo spettacolo insoffribile.
Ella supponeva che l’attore si fosse accorto della febbre con cui ella lo ascoltava, imaginava che egli avrebbe cercato di vederla da vicino, architettava tutto un romanzo. Un giorno, passando dai Quattro Canti, vide, in una mostra di fotografo, i ritratti dei principali attori, il suo fra gli altri. Sempre che ripassava di lì, il cuore le batteva più forte mentre gli occhi cercavano quell’imagine; lungo tempo dopo che la compagnia se ne fu andata continuò a guardarla, fin quando non tolsero il quadro.
Al dramma, alla commedia, ella non domandava nessuna spiegazione alla zia, nè questa diceva nulla intorno a ciò che avveniva sulla scena: ella comprendeva da sè, vedeva da per tutto riprodotta, sotto forme e circostanze diverse, l’eterna storia dell’amore, che l’esaltava, le dava delle irrequietezze nervose, uno scontento vago, l’aspirazione continua ad una esistenza più bella, più intensa, più inebbriante. Viveva in mezzo al lusso e in un bel palazzo, servita ad ogni più piccolo cenno, amata ed invidiata; eppure tutto ciò sbiadiva, diventava semplice, comune, volgare, dinanzi alle visioni che non le si levavano dagli occhi: dei castelli circondati da parchi con porticine secrete; delle caccie al suono dei corni per la foresta odorante di muschio; Parigi e i suoi spettacoli grandiosi, i balli dell’Opéra, i ricevimenti del faubourg Saint-Germain, le passeggiate al Bois de Boulogne con dei squadroni di cavalieri che si cavavano alto i cappelli al passaggio d’un’amazzone galoppante coi veli al vento. Ella aveva in testa i luoghi della grande capitale: la Chaussée d’Antin, i Campi Elisi, il nobile faubourg, il Palais Royal, la Borsa, e i dintorni: Auteuil, Fontainebleau: i romanzi che ella divorava erano pieni di scene svolgentisi lì. Talvolta ella pensava al romanzo che ella avrebbe vissuto, all’uomo che avrebbe amato; e si guardava intorno, cercandolo: ma nessuno dei giovanotti che aveva conosciuto in società le pareva degno dell’amor suo. Sapeva che gli uomini non devono esser belli nel senso femminile della parola; ma non si rassegnava a trovare possibili coloro di cui sentiva vantare la maschia bellezza; dei personaggi troppo forti, dei capelli e delle barbe troppo ispide — e la prima cosa che chiedeva all’uomo che avrebbe amato era un particolar
genere di avvenenza di cui ella si era formato il tipo: corpo agile e slanciato, sanglé in un abito elegante; viso magro, mustacchi fini, soyeux; carnagione pallida, e sopra tutto aspetto signorile, mosse libere e sciolte. Fra coloro che si avvicinavano a quel tipo, ella non sceglieva ancora, perchè non trovava neppure le qualità morali che reputava indispensabili: Brancaccio era troppo leggiero, Giovanni Gravina sparlava troppo di tutti e di tutte, Orlandi era pieno di sè. In qualcuno, però, di tutti i lions ella trovava qualche qualità; di persona o di nome, per aver parlato con loro o per averli sentiti giudicare, li conosceva tutti; e quando dalla sua carrozza li vedeva scappellarsi, e la zia, di vista corta, le chiedeva: «Chi era quello lì?» ella nominava: «Orlandi… Giovanni Gravina…» semplicemente, come persone con le quali fosse in intimità. Tutti insieme, a teatro o nelle vie, formavano per lei l’unico pubblico: essi stavano fermi a crocchio, dinanzi a un caffè, o passeggiavano lentamente, ingombrando i marciapiedi, fermandosi a esaminar le signore, salutando contemporaneamente. Ella si atteggiava più rigidamente appena scorgeva da lontano quel gruppo dei picciotti — dei giovani — fra i quali c’era il principe di Roccamozza, a sessant’anni, don Giacomo Fernandes, ripicchiato e ritinto, Alvaro Adernò con una gran barba bianca come un bel monaco cappuccino! Ciò nondimeno, tutti quegli uomini che rappresentavano il fior fiore della nobiltà, della ricchezza, che facevano od avevano fatto parlare di loro tutta Palermo, con le loro avventure, con le loro pazzie, coi loro duelli; anche quei vecchi più interessanti della folla anonima degli studenti e dei borghesi, esercitavano un’attrattiva su di lei, assumevano ai suoi occhi una seduzione straordinaria. Vedendoli sempre insieme, pensava che fossero legati da un’amicizia eterna, come quella dei Fratelli d’arme; che fossero sempre pronti a difendersi l’uno con l’altro, come i Moschettieri; e comprendendo tutto in una sola parola: il loro valore, la loro fede, la loro forza, li aveva battezzati: «I Crociati.» Il nome aveva fatto fortuna, si sapeva che era stata lei a trovarlo. Però la reputazione del suo spirito, della sua intelligenza, le procurava la sorda gelosia di molte sue nuove conoscenze. Giovannina Leo, Rosa di Carduri, altre ancora che si credevano le più notate non soffrivano la concorrenza che faceva loro una piccola provinciale. Dinanzi ad esse, ella era stata un poco intimidita dal sentimento della propria inferiorità; invece, attribuivano a superbia quel suo ritegno. In società, ella non adoperava mai il dialetto, parendole volgare; e come teneva a far sapere che era nata in Toscana, aspirava un poco la c, pronunziava: ‘osa disce? Mi faccia ‘l piascere! ‘He bella toletta! Per questo l’accusavano d’affettazione; poi, quando le erano dinanzi, facevano le amiche, le prodigavano delle lodi.
La slealtà le repugnava; ma, infine, importava poco quel che dicevano di lei le sue rivali. Ella avrebbe voluto sapere piuttosto che cosa pensavano gli uomini. Vi era uno dei Crociati, Raimondo Almarosa, che la guardava spesso: non era più giovane, ma quanto più attraente di tanti altri giovani! Alto, magro, biondo d’un biondo che diventava bianco, serio, quasi sempre malinconico per la perdita della moglie e della figliuola sofferta in uno stesso giorno. Che cosa vedeva in lei? Una rassomiglianza? una delle sue morte redivive? Ella si perdeva in fantasticaggini. A teatro, quando uno sguardo si fermava su di lei, pensava a Giuseppe Balsamo, al magnetico potere che certuni sapevano spiegare. I romanzi erano sempre i consiglieri ai quali ella domandava i suoi giudizii, i suoi pensieri. Adesso ella conosceva la vita! Ed era una vita intensa che viveva, con quei libri. Slanci d’ammirazione e dolori sconfinati, raccapricci e simpatie, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. A volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un’oppressione fisica, una nausea, un disgusto per tutte le cose, per le volgarità dell’esistenza a cui doveva sottostare e che l’eguagliavano alla folla da cui si sentiva tanto diversa. Rifiutava i cibi, avrebbe voluto nutrirsi d’aria, finiva per procurarsi qualcuno dei soliti attacchi nervosi. Più degli eroi di quei libri, ella amava le eroine: la solidarietà del sesso l’induceva ad attaccarsi alle donne; e poi, non erano esse le arbitre dei destini umani? E le lunghe descrizioni, le pagine piene di narrazione fitta l’infastidivano: ella ne saltava molte, per arrivare ai colloquii d’amore, alle scene dolci e tremende, alle catastrofi improvvise, che la lasciavano sbalordita, con la fronte scottante. Che lacrime le costavano quei libri! Di quale amore cocente e struggente ne amava i personaggi! Ella le vedeva tutte, quelle grandi amate di cui si narravano le storie fortunose: i loro nomi le risuonavano continuamente all’orecchio: Andreina, Matilde, Emma, Cecilia. Il suo proprio nome era bello, ma ne pensava degli altri, invidiava le sue conoscenze che ne avevano di più belli, romantici: Giulia, Eleonora, Enrichetta; avrebbe voluto chiamarsi Marcella, Lidia, Remigia; o portare dei nomi stranieri: Edith, Olga, Nadina. Ed un progetto certe volte le passava per il capo: poiché la sua sorellina era morta, non avrebbero potuto chiamar lei Laura? Sarebbe stato quasi un modo di farla rivivere.
Scriveva ogni due giorni al nonno, gli riferiva i suoi progressi, gli mandava dei lavorini fatti apposta per lui. Adesso aveva anche il maestro di canto, e superate le prime lezioni noiose cominciava ad imparare il repertorio in voga. V’erano le serenate e le barcarole piene di sospiri flebili e di lacrime cocenti al tremolare della luna sulla laguna; i notturni in cui gli amanti traditi si querelavano nell’abbandono, o prorompevano in accenti di vendetta, o si rassegnavano, continuando ad amare in silenzio, costanti e senza speranza; in cui delle povere pazze vagavano pei cimiteri, a mezzanotte, cercando un nome sopra un freddo marmo; ma v’erano sopratutto le romanze che esaltavano la bellezza sovrana della donna, la sua potenza, il suo fascino. Se le lacrime d’una fanciulla cadevano fra le rose, erano goccie di rugiada; se cadevano in mare diventavano perle; ma un angelo le raccoglieva nel cavo della mano e quel nèttare lo dissetava. Un amante voleva essere l’aura che sfiorava il biondo crine della Bella, il fiore che ella sfogliava, la stella che ella mirava; un altro s’inebbriava al ricordo delle voluttà; tutti avrebbero data la vita per un bacio, per un pensiero. E la musica aveva delle successioni di note che somigliavano a singhiozzi, a grida represse, che imprimevano come un moto di culla; degli accordi gravi, pieni d’angoscia e di mistero; degli arpeggi che sollevavano da terra, che esprimevano l’estasi. Ella sentiva il cuore salirle alla gola, le ciglia inumidirsi. Voleva provare tutto questo nella vita, aspettava una grande passione. Non era così bella da ispirarla? E si guardava allo specchio trovando che rispondeva al tipo ricorrente nei libri. Si guardava le unghie per vedere se erano tagliate a mandorla; il viso era d’un ovale perfetto, la bocca piccola, porporina, i denti di perla, tranne quel canino annerito, che un giorno o l’altro si sarebbe fatto strappare. Le guancie rosee le parevano da fanciulla borghese; ma i capelli non compensavano quel difetto? Lunghi fino ai fianchi, folti, odorosi, oro fuso. Il tipo bruno non aveva però anch’esso la sua seduzione? «Bruna come la notte, come ala di corvo…» Nella sua qualità di siciliana, ella avrebbe dovuto essere piuttosto bruna… Siciliana? Viveva in Sicilia; ma era fiorentina! E mentalmente faceva l’enumerazione di tutti i paragoni del biondo: come l’oro, come un raggio di sole, come le spiche del grano, come l’uva matura… Ella aveva la piena coscienza della propria bellezza; però, tratto tratto l’antica disperazione tornava a prenderla: la sua statura era sempre bassa, a diciassette anni ne mostrava appena quindici; qualcuna delle sue amiche non la prendeva sul serio, la trattava quasi da bambina! Fino a vent’anni, non sarebbe cresciuta? Aveva tempo di rifarsi! Ne domandava al dottore, con l’ossessione di restar nana, lei che non ammetteva se non i personaggi slanciati. Così dava un bel da fare al calzolaio, non trovando mai i tacchi abbastanza lunghi, e la pettinatrice doveva risolvere ogni giorno il problema d’una acconciatura che fosse alta, ma non troppo. Però, gli artifizii riparavano male al difetto, e un giorno le salirono le fiamme al viso, quando Giulia Viscari le disse il sopprannome datole da Enrico Sartana.
— Come mi chiama?
— La pupa… dice che non gli fai l’effetto d’una donna, ma d’una bambola…
Questo Sartana era il figliuolo del duca di Castrovecchio, ed aveva per suo conto il titolo di barone di Lerma. Ella lo aveva visto qualche volta da lontano, trovandolo simpatico; da quel momento, un odio le si scatenò nell’animo contro di lui. Lo aveva soprannominato subito San Giorgio cavaliere, con un tono d’ammirazione derisoria per la sua bellezza fade di biondo ricciuto cogli occhi cilestri.
— Il cavalier San Giorgio che atterra il Dragone! — ripeteva, quando lo vedeva passare a cavallo, caracollando. — O Dio, non svenite, solo a mirarlo? È fatale!
— Sei spietata!
— Non lo posso soffrire! Se glie lo riferirete, mi fate un piacere!
Ella se lo vide improvvisamente dinanzi, la sera che sua zia la condusse dagli Alì, dove si ballava: una felicità lungamente aspettata, il suo primo ingresso in un vero salone, dove tutti i giovanotti si contendevano l’onore di ballare con lei. Fu sul punto di dirgli che aveva tutto impegnato e di voltargli le spalle: ma egli era così grazioso, così elegante, che non si fidò. E con una disinvoltura di cui ella non aveva idea e che si lasciava mille miglia indietro i balbettamenti timidi degli altri, egli cominciò a parlarle, a farla ridere a proposito di tutti i tipi comici che si trovavano in quella società.
— Ti sei lasciata addomesticare? — le chiese Giulia Viscari in un angolo.
— O Dio, come resistergli?
Però la sua ironia cominciava a non essere più sincera. Adesso non le riusciva di reprimere un leggiero sussulto, quando lo incontrava. Egli la cercava, tornava a ballare con lei, a darle il contagio del suo riso argentino, pieno d’una simpatia irresistibile, a guardarla con quegli occhi azzurri che dicevano: «Non è vero che siete una bambola; mi piacete!» Una domenica, uscendo di chiesa, la zia si fermò con una signora: era la duchessa di Castrovecchio, sua madre. Il giovedì seguente, venne a far loro visita.
Ella comprese subito che era stata mandata dal figliuolo. Una gioia immensa le aveva allargato il cuore: il vago sospetto prendeva consistenza: egli era innamorato di lei! Nella voluttà del trionfo, ella beveva l’aria avidamente, si chiedeva: «È vero?» e si rispondeva: «È vero, è vero!» vedendo che egli non lasciava sfuggire un’occasione d’avvicinarla, che si trovava in casa quando andavano con la zia a restituire le visite a sua madre, che la seguiva sino per le strade. E dei feroci propositi di vendetta, alla Montecristo, l’animavano: voleva civettare con lui, fargli perdere la testa, lasciarlo struggere d’amore come i Reuzzi delle fiabe!… E lei? era sicura di non volergli bene anche lei?… Non lo trovava simpatico, elegante, spiritoso?.. Allora? Non importava, bisognava farlo soffrire. E spiegava con lui tutta la sua civetteria, si voltava a guardarlo profilando tutto il busto ed il viso, sollevando una spalla, stringendo le braccia ai fianchi, per mostrare tutte le linee del corpo; allungava talvolta un piede che egli divorava cogli occhi, ma che lei ritirava repentinamente dopo un poco, fingendo d’accorgersi a un tratto di quegli sguardi indiscreti; quando aveva vicina Giulia od Enrichetta, passava un braccio attorno alla vita dell’amica, le parlava all’orecchio, la baciava in viso, per tormentarlo con lo spettacolo di quelle carezze; al ballo, lasciava cadere un guanto, il fazzoletto, un fiore, qualche cosa tutta piena di lei, osservando di sbieco l’espressione appassionata con cui egli se ne impossessava per rendergliela. I loro incontri si venivano moltiplicando: riunioni in cui si faceva della musica e che poi finivano in saltate generali, feste in tutte le forme, dal principe d’Alì, dal marchese Carìbici; balli in maschera, veglioni al teatro. Tanti giovanotti ora le stavano intorno: ella sentiva la reputazione di bellezza, di eleganza, di spirito che la circondava; e dell’atmosfera calda e profumata dei saloni viveva come nell’ambiente vitale.
Adesso lo studio noioso, pedantesco, era smesso del tutto: restavano la musica e la lettura: la musica che le assicurava dei trionfi quando, senza farsi troppo pregare, si metteva al piano e con una disinvoltura da concertista teneva tutta la sala intenta; la lettura che alimentava continuamente il lavoro della fantasia. Ella si ripeteva incessantemente: «Sono amata! Sono amata!» Sartana era innamorato di lei, tutti se ne accorgevano, Giulia glie lo ripeteva, scherzando, con allusioni continue! Ed ella lo amava, sì; malgrado i suoi propositi di freddezza, di crudeltà, lo amava: un fremito le passava pel corpo quando egli le si avvicinava; il cuore le batteva più forte quando parlava o danzava con lui, quando egli le stringeva la mano un certo modo diverso da quello di tutti gli altri, quando le diceva certe cose indifferenti con la voce piena d’un tenero turbamento… il suo primo amore! Il suo grande amore! Dei sorrisi di compassione le fiorivano sulle labbra pensando agli amoretti dei dodici anni, a Niccolino Francia, a Luigi Accardi, all’ufficiale di Messina. Sciocchezze, ingenuità da bambina! Adesso sentiva che il suo avvenire s’inpegnava, che la felicità della sua vita dipendeva da quell’amore. Ma lui, perché non parlava? perchè non le diceva che le voleva bene? Certe volte pensava al modo con cui glie lo avrebbe detto, alle parole divine che avrebbe trovate, al momento unico, misteriosamente propizio, che certo egli aspettava ancora di cogliere. Altre volte, delle difficoltà, degli ostacoli sorgevano nella sua fantasia: un dramma che scoppiava, dei dolori ineffabili, la morte che avrebbe potuto coglierla a un tratto! Ella si vedeva, moribonda, con le mani affilate sulla coltre bianca: le donne singhiozzavano intorno, e a un tratto un rumore di passi, l’apparizione di una figura disfatta, spettrale: lui, fermo un istante sulla soglia della camera mortuaria. Un grido terribile gli lacerava la gola, e precipitandosi verso il letto, vi cadeva in ginocchio dinanzi, bagnando di lacrime calde la fredda mano scarnita ch’ella gli abbandonava. La funebre rappresentazione le si spiegava dinanzi con l’evidenza della realtà: sentiva le dita di lui errarle fra i capelli, vedeva i visi pallidi dei parenti, udiva le salmodìe degli agonizzanti; e delle lacrime le rigavano lentamente il viso. Ella piangeva sè stessa, i suoi sogni svaniti, la sua bellezza per sempre distrutta: si vedeva composta in una bara, bella ancora, ma pallida pallida, e fredda, come di marmo. Dei gigli sulla sua tomba… un uomo che si gettava bocconi sulla terra umida e scura… un lamento straziante… E restava così, a singhiozzare pianamente, intanto che il sole rideva e che un fragore di carrozze trascorrenti in lunghe file veniva su dalla via.
Perchè quelle imagini tristi? Ella pensava d’esser una creatura provata dalle sventure, superiore per questo; dotata d’un cuore più sensibile, d’una fantasia più impressionabile, votata ad un destino più arcano degli altri. Ella leggeva i versi del Prati, del Leopardi, dell’Aleardi: v’erano dei passaggi che non intendeva, ma quanti altri che la facevano piangere!
Poi si scuoteva, sorrideva delle sue angoscie senza cagione, tornava alla gaiezza consueta, passava da uno svago ad un altro, s’ingolfava in quella vita felice, senza cure, che era tutta una festa. Allora avveniva che, nell’animazione regnante tra le folle eleganti, nel tumulto giocondo destato dalla musica e dal ballo, ella si dimenticava di Enrico, ma interamente, completamente, come se egli non fosse mai esistito, tutta al proprio trionfo, inebbriata dagli omaggi dei giovanotti, dai complimenti delle amiche, dalle sussurrazioni ammirative che sorprendeva al proprio passaggio. Vi erano tanti altri che decisamente le facevano la corte, Lollò Cutelli, un marchesino ricchissimo ma un po’ grullo, Antonio Bracciaferri, ufficiale di cavalleria che aveva lasciato il servizio e che lei metteva in caricatura, rifacendo i suoi «cosa?» e i suoi «sfido!», il cavaliere Sibiliano, sulla quarantina, buffo con le sue pretensioni giovanili, ma però molto corretto; tanti e tanti altri ancora, a cui ella badava volta per volta, quando li aveva a fianco, studiandosi di montar loro la testa, ma che a distanza si confondevano in una massa; in un coro, dove ella non distingueva, non sceglieva… Sì, vi era uno a cui ella pensava più che agli altri: Mario Caimi, la cui nascita non era molto distinta, ma che aveva, con una ricchezza straordinaria, una fama di rompicollo coraggioso, di viveur à outrance.
— Caimi ti fa la corte! — le aveva detto una volta Giulia, ed ella si era accorta che era vero: dall’alto del suo stage, col magnifico attacco dei due sauri e dei due morelli che faceva voltare tutta Palermo, passava e ripassava sotto casa sua, l’inseguiva a passeggio; e a teatro le piantava il cannocchiale addosso, fino a imbarazzarla; e ai balli se lo vedeva sempre sul proprio cammino, coi gomiti stretti a fianchi, il capo piegato in un saluto profondo. Che cosa sentiva per lui? Non lo sapeva; era sicura che lo avrebbe rifiutato come marito, però le piaceva averlo legato al proprio carro; gli concedeva qualche cosa di più che agli altri per avvincerlo di più. Enrico Sartana gonfiava, le teneva il broncio, mostrava i denti a quell’altro, e l’idea che i due uomini si potessero afferrare per contendersela le dava un senso di compiacenza, malgrado la sua coscienza protestasse, malgrado ella si dicesse, ma sorridendo: «No, no; poveretti!» E adesso Sartana s’era messo a far la corte a Sara Máscali, le stava sempre attorno, le parlava piano, facendola ridere, ridendo lui stesso, fingendo di non accorgersi di lei!
Ella si sentì punta al vivo da quella preferenza accordata ad una delle sue nemiche, ad una di quelle che ora la chiamavano contadina! Si ribellava all’ingiustizia di quell’uomo: che cosa gli aveva fatto per trattarla così? Egli perchè non aveva parlato? Erano gli uomini che dovevano fare i primi passi! Presumeva forse che senza impegnarsi a nulla da suo canto, ella non dovesse aver occhi che per lui? Bisognava che ella si compromettesse dinanzi al mondo aspettando che egli si degnasse di pronunziarsi?
Ed esagerando tutte queste cose, imaginando di dover prendere la sua rivincita, si mise a dar retta a Michele Platamone, uno di quelli che la guardavano con maggiore insistenza. Sua madre era tedesca, egli era stato educato in Germania, e nell’abito, nelle maniere, nell’aria, aveva qualche cosa che lo distingueva da tutti gli altri. Ella voltava le spalle ad Enrico quando lo incontrava, e sorrideva amabilmente all’altro, permetteva il suo corteggiamento. Ma questo qui era volubile, faceva il gallo della Checca — secondo l’espressione di Giulia Viscari — e con un’amarezza sconfortata ella si diceva: «Come sono gli uomini!» Di preferenza, ronzavano attorno alle signore maritate, e certe storie si susurravano tra le ragazze: Amato era con la Filaruta; Pietro di Santà aveva compromessa la Carosia, Caimi aveva tante donne, ballerine, attrici, le altre
Ella si perdeva ad imaginare la vita di queste, le attrattive che esercitavano sugli uomini. Com’era possibile per alcune averne tanti, tutti in una volta e senz’amore? Insieme con le amiche, guardava curiosamente la Camilleri, la moglie del presidente Vasto, tutte quelle di cui più si mormorava: studiava le loro tolette, le loro mosse, non perdeva nessuna delle loro parole; le trovava più eleganti, più affascinanti delle oneste, e le fissava in viso quasi potesse leggere nei loro occhi il secreto della loro vita.
Alcune non venivano ricevute in società; della Sanfiorito si diceva una cosa mostruosa ed inconcepibile: che fosse l’amante del cognato, tanto più vecchio e più brutto di suo marito; ma intorno ad una, Matilde Gerosa, regnava come un’aria di mistero che arrestava i più maligni. Era così bella, con degli occhi così febbricitanti, con un’espressione così fatale, con una voce così stranamente velata, quasi un’eco lontana! La più discussa di tutte era la Gelia: benchè non più giovane, cambiava d’amante ogni quindici giorni, tante signore non avrebbero voluto riceverla, se non fosse stata la posizione di suo marito. Che eleganza, però! Che grazia di linguaggio! Che brio! Dove entrava lei, entrava la gaiezza. In estate, ai bagni, uno sciame di giovanotti l’attorniava sulla rotonda della baracca; usciva a nuotare al largo, e qualcuno sempre l’accompagnava. Le ragazze, in distanza, non avevano occhi che per lei; Anna Sortino, una spregiudicata, diceva mostrando le due teste lontane:
— Chissà che cosa fanno le mani, adesso!
Ella sentiva crescere il suo disprezzo per gli uomini, si rimproverava amaramente di pensare ad essi, li stimava tutti eguali: falsi e odiosi; poi voleva strapparli a quelle altre, averli tutti intorno, essere circondata più delle altre quantunque fosse ancora ragazza.
Enrico, rivedendola, la punzecchiava, faceva delle allusioni alle preferenze che lei dimostrava pel figlio della Tedesca, diceva:
— La signorina ama molto la Germania!
— Sì, per l’appunto; è una nazione seria.
— Ma pesante, via, ne convenga!
— Lei è padronissimo di preferire la leggerezza francese…
E lo piantava lì. Ma una tristezza le restava in cuore: poi trovava che era molto sciocco affliggersene, e ricominciava a farsi corteggiare da tutti un po’, fuorchè da quelli che erano impegnati con le sue amiche vere. Giulia aveva accaparrato Toscano, un bel giovane dalla fama dongiovannesca, che s’era battuto cinque volte, che faceva parlare sempre di sè. Ella non comprendeva come l’amica potesse credere ad uno che faceva quella vita; ma Giulia ne era cotta, giurava che sarebbe stata sua moglie, o si sarebbe uccisa. Bice Emanuele non aveva precisamente un innamorato; molti giovanotti la corteggiavano, ella non li guardava neppure, con la mente piena d’un ideale introvabile. Era la più poetica di tutte, aveva gli occhi pieni di sogni, e un sogno pareva ella stessa, con la sua figurina esile, leggiera e quasi fragile. Certe volte, quand’erano tutte insieme, quando si parlava di tolette, di gioielli, delle ricchezze e delle eleganze che tutte agognavano, qualcuna delle più matte proponeva, per chiasso, una quistione:
— Per una bella collana di perle, chi di voi si farebbe baciare in bocca?
Anna Sortino era la prima a dire: «Io!» Giulia era più difficile: bisognava che le perle fossero come le nocciuole, e cinque file. Ella stessa non si risolveva ad accettare la proposta senza l’aggiunta, per esempio, di un abito di broccato; ma non v’erano offerte a cui Bice Emanuele s’arrendesse.
Ella apprezzava il sovrano disdegno dell’amica, ma non lo divideva. La missione di loro tutte non era la conquista degli uomini? Questo non le impediva intanto di schernirli, di trovar subito il ridicolo di ciascuno e di definirlo con un soprannome che veniva subito ripetuto e adottato: Sfido io! l’ex tenente Bracciaferri, Costantinopoli il cavaliere Bartolomeo Morello che era stato in Turchia e faceva entrare la capitale dell’Oriente in ogni discorso, Hop-hop il barone Sirniani che voleva fare lo sportman, Bébé il vecchietto Sibiliano, la gran cassa Giovanni Reggio, la cui pancia prendeva proporzioni sempre più inquietanti, Cachemir il Vardas, che si chiamava semplicemente Casimiro, il Poeta Marcellini, che passeggiava sempre solo, per vie remote, a ora tarda, guardando in aria. Non importava: malgrado le loro ridicolaggini, le loro stravaganze, i loro difetti, ella voleva loro piacere, voleva sentirsi ammirata, desiderata, vincere le sue rivali, costringere quegli uomini a cercarla, a pensare a lei, a renderle il tributo che le spettava…