VIII.

Un nuovo lutto, un lutto di cui non era traccia sugli abiti, ma che pesava eternamente sul cuore. Era bene, adesso, rivivere in quella piccola città silenziosa che le rammentava il tempo per sempre volato della sua fanciullezza, dov’erano sepolti i suoi cari; in quella vecchia casa piena di tanti ricordi! Il mondo tutt’intorno, non era mutato; ella lo guardava da lontano, indifferente a tutto, oramai! Dicevano che ella aveva delle arie, che era superba, che si sentiva superiore agli altri perchè veniva da una grande città — e non sapevano come s’ingannavano! Ella si sentiva troppo provata dalla sventura per avere ambizioni, per curarsi di nulla. Il suo voto era già fatto: rifiutare tutto, lasciarsi vivere, senza desiderii, senza rimpianti, in una quieta vegetazione. Non serbava più rancore a suo nonno; infine, era tutta colpa di lui? Se quell’altro l’avesse amata realmente, si sarebbe così facilmente rassegnato a perderla? Delle domande le si affollavano talvolta alla mente, nel bisogno di trovare una spiegazione a quella condotta inesplicabile; poi, esaurite delle ipotesi, si diceva, scrollando le spalle: «A che pro? Oramai…» Ella non sapeva che cosa pensare di lui; sapeva bene, però, che il suo proprio cuore era morto, che non avrebbe avuto più un palpito. Lo aveva già dichiarato a suo nonno, un giorno che egli, credendo tutto finito, aveva fatto delle allusioni al matrimonio di lei.
— Puoi star sicuro che io non mi mariterò — gli aveva risposto, con voce pacata.
— Sentiamo quest’altra, adesso!
— È inutile, sai, nonno. Non mi parlare di questo, perchè è tempo sprecato. Tu vedi che io faccio quel che vuoi, che sto qui, senza chiederti nulla, così, tranquillamente. Io farò tutto ciò che dirai, anche per l’avvenire; a patto che non mi parlerai di partiti, di matrimonii e di niente. Fino a quando mi vorrai con te a questo patto, ci starò; se non vorrai, andrò a chiudermi in convento.
Ella aveva a lungo rimuginata quell’idea: andarsi a chiudere alla Badia, fra le vecchie monache che passavano il loro tempo a preparare conserve e a scodellar biancomangiari, od a pregare ed a seguire le funzioni religiose dietro una grata. Era andata lassù, a fare una visita alla vecchia zia Serafina, a domandarle minute informazioni sulla vita delle monache, sulla possibilità per una ragazza come lei di ritirarsi fra loro, sulle vestizioni secrete che ancora si celebravano malgrado la proibizione del governo. Però non aveva detto nulla del suo proposito, trovando che ci sarebbe stato tempo, e che intanto la sua vita era proprio d’una monaca. Nessuna distrazione mondana, tranne dei consigli che le conoscenti — non aveva più amicizie — le chiedevano sulla foggia degli abiti, sulle cose che si portavano, sopra minuti lavori femminili. Ella si rassegnava nuovamente alla tirannia di Miss e non si vestiva quasi più; se la zia invece di abiti confezionati le mandava dei tagli di stoffe, li lasciava dentro una cassa, in pasto alle tignole. Oramai! Ella passava il suo tempo leggendo, divorando la vecchia collezione del Journal pour tous, tutti i libri del nonno e quelli dei suoi amici, i giornali che arrivavano in casa e quelli che portavano dal Gabinetto in seconda lettura. Dopo i romanzi francesi, i Promessi Sposi che non conosceva ancora, le parvero un poco noiosi: Ettore Fieramosca la fece palpitare; e, tutta sola, con voce velata dalla commozione, declamava i versi del Marco Visconti:
«Rondinella pellegrina
che ti posi sul verone…»
o canticchiava sulle arie delle opere udite a teatro, e quasi piangendo, le strofe della Serventese:
«Nella stessa oscura cella —
Entro un sol letto di morte
La più bella — ed il più forte
Poser taciti a giacer.
Lampeggiar parve d’un riso —
Al levar della celata
Presso il viso — dell’amata
Il sembiante del guerrier».
Un giorno, leggendo l’Edmenegarda del Prati, le venne in mente di scrivere la sua storia: non era piena di strani avvenimenti, di casi straordinarii? Così, comperò della carta reale, la migliore che trovò; fece venire il legatore, gli spiegò in che formato doveva tagliarla e come doveva rilegare il libretto. Quando l’ebbe, ne fu molto contenta: aveva l’aria d’un album semplice e severo. Scrisse sul frontespizio: Memorie della mia vita, rimandò a un altro giorno la
composizione del primo capitolo, e non ne fece più nulla.
A Milazzo, adesso, c’era una monotonia ancora più grande di prima; pure, se il nonno la forzava ad andare in qualche posto, ella lo seguiva, per dovere, per non dar troppo nell’occhio, ma senza distrarsi, senza notar nessuno. Luigi Accardi era a Messina, Niccolino Francia aveva preso moglie a Barcellona; e fra gli altri giovanotti che le stavano attorno ve n’erano alcuni non brutti, Manara, per esempio; ma il suo gesto continuo quando si vedeva guardata, quando pensava per caso a qualcuno di essi, era una piccola alzata di spalle — un gesto che ella ripeteva dinanzi alla gente e che veniva appreso come un tic nervoso. Il nonno, preoccupato da quell’aria costantemente annoiata,
faceva dei progetti, voleva rinnovare la casa per ricever gente; ma lei rispondeva:
— Perchè? Lascia stare! Una spesa inutile…
— Ma allora, che diavolo vuoi? che diavolo bisogna fare per vederti contenta?
— Nulla, nonno! Sono contentissima!
— Con quella faccia da accompagnamento? Ma dici cosa vuoi! Vuoi andar via? Vuoi andare a Napoli?
— No, non voglio nulla…
Però, ella si penti subito di aver rifiutato. Avrebbe potuto andare in quella gran città, portare il proprio lutto in mezzo al suo tumulto, alle sue feste, osservare la vita senza prendervi parte, incontrare anche Enrico, chissà! Sorprenderlo a fianco di un’altra donna, vederlo impallidire ad un tratto — e poi rifiutare di ricevere le persone che egli le avrebbe mandate, sorda alle sue insistenze, ai ricordi che egli avrebbe evocati in lettere di fuoco, nelle quali avrebbe minacciato uno scandalo, una pazzia… Adesso, ella era irritata contro di sè stessa per quello sciocco rifiuto, e la sua
irritazione cresceva pensando che se avesse chiesto al nonno di contentarla, egli avrebbe subito accondisceso, ma che, per non sentirsi rinfacciare la sua mutabilità d’opinione, per non mostrar di piegarsi, ella non gli avrebbe chiesto mai nulla…
Di tanto in tanto, quando arrivava gente da Messina o dal fondo della provincia, il nonno era tutto occupato, faceva dei preparativi di ricevimento, oppure le diceva di vestirsi per condurla a qualche posto. Ella sapeva che cosa significava tutto ciò: qualche candidato alla sua mano che veniva in casa, o che bisognava andare a trovare in casa altrui: dei provinciali milionarii, ma goffi come dei contadini, che le facevano pena, perfino — poveretti! — o certe volte dei giovanotti messinesi, o di Reggio, chiacchieroni, antipatici, o comuni, come tutti gli altri, incapaci di parlare al suo cuore. Ella si sentiva offesa da quelle esposizioni della sua persona, dalle contrattazioni di cui indovinava di essere oggetto, da quel mercato che si pretendeva fare di lei; e al nonno che le chiedeva che cosa le era parso del tale o del
tal’altro, rispondeva, con un mal dissimulato fastidio:
— Te ne prego, nonno: lasciami in pace… sai bene che io non ti domando nulla, a te…
Il nonno gridava, le dava della pazza, minacciava di andarsene al Capo, di piantar tutti. Lei lo lasciava dire finchè la tempesta si chetava.
Quando l’orgoglio non la sosteneva più, un’immensa tristezza le gravava sull’anima: ella si sentiva così sola al mondo, senza madre, senza padre! Non v’era più avvenire per lei, la sua vita era infranta! A che le servivano la sua nascita, la sua ricchezza, tutte le doti della mente e dell’anima? E invidiava la sorte degli umili, dei poveri di spirito. Ma certe notti d’insonnia, se la scossa prodotta da una lettura metteva in moto il suo cervello, una prodigiosa serie di visioni la teneva immobile, cogli occhi sbarrati, col cuore palpitante, come se tutti gli avvenimenti imaginati, le gioie, gli spasimi, le stranezze del destino, le audacie sue proprie, fossero reali e presenti. Che cosa le sarebbe realmente accaduto? Avrebbe ella un giorno divisa la sua vita con quella d’un uomo? Allora, a quell’idea, all’idea di vestire la bianca veste delle spose, di cingere la simbolica ghirlanda del fior d’arancio, due mute lacrime le rigavan le gote.
Di tratto in tratto, lo slancio mistico della rinunzia la riprendeva; andava spesso in chiesa, ricamava delle tovaglie d’altare, seguiva tutte le funzioni religiose, si confessava spesso, era assidua alle prediche di padre Raffaele; e nelle cerimonie del Natale e della Pasqua la sua commozione si risolveva in lungo pianto. Ma se riprendeva a leggere romanzi, sognava di vivere nel gran mondo, di andare a cavallo, di essere corteggiata, e quei desiderii la struggevano. Manara non le dispiaceva; se egli l’avesse chiesta, forse avrebbe finito per dir di sì; ma il giovane la seguiva soltanto da lontano. Certe notti, sognava di lui, di altri uomini, e i suoi sogni erano pieni di un turbamento misterioso. Ella esaminava a lungo il suo corpo: quantunque fosse cresciuto ancora un poco, rimaneva piuttosto piccolo, ma era d’una modellatura squisita: vita snella come un anello, seno e fianchi sviluppati, gambe e braccia che parevano fatte al tornio. Che le giovava? In casa Russo, v’era un bel ragazzo di dieci anni; si chiamava Mario, aveva un viso d’angelo. Ella se lo teneva spesso vicino, gli regalava delle cravatte o dei fazzoletti ricamati da lei stessa, gli prodigava lunghe carezze, lo baciava sulla bocca. Poi se ne stancava, e il vuoto della sua vita le pareva più grande.
Allora, il desiderio di viaggiare prima di maritarsi, di vedere un poco il mondo, la riprendeva, più cocente di prima. Se il nonno avesse rinnovata la sua offerta! Ma non ne parlava più… Solamente, un giorno, come la Gazzetta di Messina annunziò l’arrivo della squadra in quella città, e se ne discorreva dai Ferla, alcuni proposero:
— Si va a vederla?
— Andiamo! — disse il nonno. — Facciamo svagare i ragazzi!
Ma la cosa era ancora un progetto, quando, una mattina, la rada presentò uno spettacolo straordinario: la squadra all’áncora, tre corazzate e un avviso, con uno sciame di barche intorno. Dal dispetto pel viaggio mancato, ella aveva rifiutato di visitare le fregate; però in città c’era un gran movimento: il Municipio dava un pranzo allo stato maggiore delle navi, un pranzo ufficiale, di soli uomini, ma seguito da un ricevimento al quale erano invitate le signore. Ella si sentì a un tratto invasa dalla febbre antica, spese nella sua toletta le cure d’un tempo.
Quando la loro carrozza arrivò dinanzi al Municipio, una folla di dimostranti con la musica, dei lampioncini, delle torcie, gridavano: Viva la Marina! Viva la squadra a Milazzo! Ella entrò nel momento che ufficiali, autorità e invitati si facevano ai balconi: dei battimani, l’inno, nuove grida, un’esaltazione che si propagava contagiosamente. I militari non sapevano come ringraziare; il sindaco, rientrato in sala, faceva delle presentazioni sommarie, intanto che la musica, di sotto, continuava a strepitare. Rimasta un poco in disparte, ella sorrideva di pietà, vedendo le altre donne circondate dagli ufficiali; avrebbero saputo dir loro tante cose, quelle stupide! Adesso il sindaco conduceva accanto all’ammiraglio il nonno, che chiamava anche lei: e ad un tratto ella si vide in mezzo allo stato maggiore.
Si parlava delle navi ancorate nella rada; avendone letta la descrizione nella Gazzetta di Messina, ella stupiva tutti con la precisione delle sue notizie; e udendola chiedere che cosa si fosse fatto pel rinnovamento della flotta, e discorrere degli errori commessi nella battaglia di Lissa, che il fanalista del Capo le aveva narrata di fresco, l’ammiraglio attestava la sua meraviglia per avere incontrata una signorina così al corrente di certe quistioni.
— I miei complimenti, davvero! Ma non siamo per nulla in quest’isola che è la perla dei mari!
Adesso l’ammiraglio parlava col pretore, e un tenente di vascello, un bel giovane magro, col viso inquadrato da una barbetta bruna e dei grandi occhi pensierosi, le spiegava in che cosa consistessero le esercitazioni che ogni giorno la squadra andava a fare al largo.
— Non sarà possibile visitare le navi?
— S’imagini! Sempre, sempre che siamo all’áncora — rispose il giovane, premurosamente. — La signorina non ne conosce nessuna?
— No, ed è un torto…
— Che ci prometterà di riparare…
Ella se n’era andata a casa con una leggiera esaltazione prodotta dalla folla, dal successo che aveva riportato. L’imagine di quell’elegante ufficiale le tornava spesso dinanzi; ella avrebbe voluto sapere se pensava a qualcuna, se non aveva lasciata una persona cara al suo paese, domandandosi ancora che cosa avrebbe pensato di lei, l’effetto che quell’incontro gli avrebbe prodotto… Il domani, il segretario comunale, girando con una carrozzella, venne a dire che l’ammiraglio invitava a bordo, pel pomeriggio, tutte le persone che erano state al ricevimento del Municipio.
— Pare che ci saranno delle regate… credo che si ballerà…
Ella mise la casa sottosopra, mandò a chiamare la sarta, fece rovistare in tutte le casse e in tutti gli armadii per trovare un nastro; se la prese con Miss e con Stefana che non facevano abbastanza presto. Aveva scelta la sua toletta bianca, adattandovi come cintura una gran fascia azzurra, i cui lunghi capi pendevano al fianco; il cappellino di paglia guarnito d’azzurro anch’esso, una cravatta della stessa tinta, l’ombrellino di merletto écru, le scarpette sboccate che lasciavano vedere le calze color del mare: un assieme che faceva voltar la gente, alla Marina, mentre si dirigeva col nonno e con Miss allo sbarcatoio. Le scialuppe della squadra venivano prese d’assalto dagl’invitati: una barca a vapore, comandata dall’ufficiale bruno, fischiava. Ella voleva ad ogni costo salir su di essa e trascinava il nonno da quella parte;
ma l’ufficiale, appena scorto il senatore, saltò a terra.
— Onorevole, se vuol prender posto… signorina, s’appoggi…
Le altre, dalle barche a remi, guardavano con invidia la lancia che filava rapidamente, avanzandole tutte. Ella aveva aperto l’ombrellino, e ascoltava le spiegazioni dell’ufficiale che additava or l’una or l’altra nave e dimostrava il meccanismo della piccola vaporiera. Egli le offrì ancora la mano, saltando sul pianerottolo della scala pendente lungo il fianco nero dell’ammiraglia; e su in alto, il ponte coperto di tappeti era adorno di vasi di fiori, di rami di palma, come un salone. I canotti che dovevano correre se ne andavano a prender posto verso terra, dove si vedeva una siepe di folla fittissima. Poi, ad uno sparo, partivano, tra grida lontane, confuse, e come s’appressavano, volando sull’acque spumose, con un batter fragoroso di remi, delle esclamazioni si levavano dal gruppo degli invitati, e i marinai di bordo gridavano anch’essi, incitando i compagni: Palestro!… Roma!… Arranca, arranca!… Roma!… San Martino!…. Un clamore, dei battimani, il timoniere vincitore che agitava il berretto; e ad un tratto, volgendosi alle signore, ella propose vivacemente:
— Un premio! Bisogna offrire un premio ai vincitori!
Quelle stupide non sapevano che cosa dire, che cosa risolvere; solo la moglie del sindaco e qualche altra approvavano. Ma che dare, che comprare, in quella bicocca dove non si trovava mai nulla?
— Io mando a casa… la statuetta di bronzo, sai, nonno?… E voialtre?
Ciascuna adesso offriva un oggetto; bisognava però mandare qualcuno a terra. Ella si guardò attorno: Manara stava a divorarla cogli occhi.
— Scusate, Manara, volete farmi un piacere? Andate a casa nostra, fatevi dare la statuetta che è sull’étagère del salotto, sapete… e a casa di queste signore…
Il giovane partì, dicendole cogli occhi che andava per lei; e l’altra regata cominciò. Ma ella preferiva adesso visitare la nave, e appena espresse quel desiderio, l’ufficiale le si mise a fianco. Andarono con Miss, scavalcando catene, girando attorno alle ruote di cordami, scendendo in batteria; ed egli spiegava ogni cosa, faceva muovere i cannoni sulle rotaie semicircolari, mostrava la manovra del caricamento. Come Miss era rimasta un poco indietro, ella appoggiò una mano sulla gola fredda e nera d’un pezzo, tenendo l’altra sul pomo dell’ombrellino. L’ufficiale, contemplandola un poco, sussurrò:
— Mi lasci adesso ammirare questo quadro: la forza cieca accanto alla grazia splendente…
— Lei fa dei madrigali!
La visita ricominciò. Scesa un’altra scala, si trovarono nelle viscere della nave: dei corridoi scuri con delle lampade pendenti dalla vôlta bassa, una balaustrata di ferro da cui l’occhio si sprofondava nella voragine delle macchine, un uscio socchiuso dal quale si scorgevano dei visi di marinai febbricitanti.
— L’ospedale.
— Povera gente!
S’udivano, soffocate, le grida salutanti i vincitori della seconda regata. Ella adesso trovava che la vita del mare doveva avere delle grandi attrattive: la lotta degli elementi, le grandi calme e le convulsioni supreme, le genti lontane, i nuovi costumi; ma che, alla lunga, poteva riuscire monotona.
— È vero!
L’ufficiale diceva la sua vocazione di fanciullo, i contrasti che aveva dovuto superare, l’opposizione della sua mamma — e l’ideale finalmente raggiunto.
— Ma vi sono, è vero, delle ore in cui si prova la nostalgia della terraferma.
E gli occhi aggiungevano: «È questa, l’ora…»
Risalirono, intanto che il sole tramontava e che arrivava Manara, trafelato, coi doni. Egli mostrò il suo dispetto, vedendola con l’ufficiale accanto; ma ella adesso era occupata a chieder consiglio sul modo con cui distribuire quei premii improvvisati. I vincitori si avanzavano, salutando militarmente e prendendo gli oggetti con le mani ruvide, incallite, dalle sue mani esili ed inguantate. La sua statuetta toccò al timoniere della San Martino; l’ufficiale, vedendola portar via, mormorò:
— Peccato!
E ad un tratto una musica invisibile, tutta ottoni, intuonò un vivace ballabile. L’ammiraglio scusava i suoi ufficiali che andavano impegnando signore e signorine, e sul ponte sgombro, nella sera fresca, alla grand’aria del largo, delle coppie intrecciarono i loro giri. Ella ballava col suo tenente, ed ogni volta che passava dinanzi a Manara, scorgeva il suo sguardo geloso, il suo pugno chiuso. Come il cielo era già scuro, una viva esclamazione di meraviglia si levò dalla folla: delle lampade elettriche si accendevano in cima alle antenne e una specie di chiaror lunare si proiettava sulla riva, di nuovo formicolante di spettatori curiosi. Altre danze, un buffet sontuoso dinanzi al quale tutti si affollavano, degli sguardi accesi dal piacere, le risa degli ufficiali instancabili, egli che ballava un’altra volta con lei, premendole appena la mano, nell’onda luminosa che pioveva dai fari elettrici, una luce fantastica, come di sogno… Un sogno che ella continuava con la testa in fiamme sul guanciale, nella silenziosa oscurità della sua cameretta. Le parole dell’ufficiale le ritornavano tutte, ad una ad una: erano degli omaggi, delle dichiarazioni implicite, una grande lusinga per lei. «Peccato!» egli invidiava il marinaio a cui era toccato un oggetto che le apparteneva: forse se lo sarebbe fatto cedere, mediante un compenso! E sorrideva pensando alla gelosia di Manara, trovando naturale di essersi servita di lui per mandarlo a terra. L’imagine del tenente, dolce, seria, distinta, non le andava via dagli occhi: ella lo seguiva nella sua cabina, aspettava di rivederlo.. quando, il domani, la rada si mostrò vuota, deserta. Nella notte, era venuto l’ordine di partenza, e la squadra aveva salpato, all’alba.
Allora uno stupor triste, una malinconia indefinita invase il suo cuore, al pensiero di quell’incontro rapido, imprevisto, che non si sarebbe rinnovato mai più. Poteva dire di amarlo, quell’uomo? Non ne aveva avuto il tempo; nondimeno sentiva un vuoto desolato, uno sconforto di vivere, e insieme uno struggimento tenero al pensiero che qualcuno, attraverso ai mari, portava via l’imagine di lei chiusa in cuore: un’impressione indefinibile, come ella non aveva ancora provata l’eguale…
E il rancore per quella vita inutile, monotona, uggiosa, e il rimpianto della sua gioventù sfiorente a poco a poco, crescevano, si facevano cupi e profondi. Un disprezzo l’animava contro tutta la gente da cui era circondata, contro la grettezza provinciale che le faceva altrettante colpe delle sue iniziative, del suo spirito; che condannava ogni suo modo di pensare, che si scandalizzava d’ogni sua parola, d’ogni suo atto — come quella proposta dei premii per le regate, che
non le perdonavano perchè a nessuna di loro sarebbe venuta in mente. Ed ella doveva ancora vivere lì? Avrebbe dovuto morire tra quelle mura? Esser sepolta in una di quelle chiese tristi ed oscure? A volte, la prendeva la tentazione di fuggirsene via; poi invidiava i morti, quelli che dormivano l’eterno sonno sotto il marmo bianco a San Francesco di Paola, e il suo dolore finiva in pianto.
L’orgoglio, la superbia le impedivano di chieder nulla al nonno, di darsi per vinta — e i suoi giorni erano adesso d’un grigio che niente rompeva. Nei primi tempi, aveva spesso ricevuto lettere dalle sue amiche, specialmente da Giulia Viscari; poi si erano fatte rare, erano cessate. Ella diveniva scettica, non credeva più all’amicizia, si rimproverava lo zelo che vi aveva portato. Un giorno la zia scrisse che Giulia era promessa ad un ricco signore di Trapani, che fra breve avrebbe sposato. Dapprima, ella quasi credette d’aver letto male, suppose un momento che la zia avesse sbagliato: l’amica non le aveva giurato tante volte che si sarebbe uccisa piuttosto che rinunziare a Toscano? Ella non era stata spettatrice della sua passione che pareva sfidare l’universo? Come era dunque possibile?… Ed era vero! Ed ella si diceva, scrollando le spalle: «Dopo tutto!» Che cosa era infine l’amore? Ella era stata molto sciocca a giurare unicamente su di esso! L’amore non aveva impedito ad Enrico Sartana di lasciarla, di scomparire, di amare delle altre! V’era l’interesse, più forte dell’amore; v’erano la ragione, le necessità della vita! Giulia aveva compreso questo, ed anch’ella lo comprendeva. Ancora facevano di lei delle esposizioni umilianti, contrattavano in suo nome; quel che avrebbe avuto di meglio a fare non sarebbe stato di accettare il primo partito che capitava? Ne prendeva l’impegno con sè stessa; ma sempre la volgarità, la goffaggine, l’ignoranza di quella gente la faceva indietreggiare, inorridita. Maria Ferla s’era fatta sposa con uno di Patti, un milionario; il giorno che era entrato in casa della promessa, egli le aveva regalato un braccialetto di brillanti, dicendole: «Prendi questo, per adesso; poi te ne darò uno più caro…» Non sarebbe ella morta, se avesse udite queste parole rivolte a lei? Dove trovare lì in mezzo qualcuno che realizzasse il suo sogno di nobiltà, di eleganza, di cavalleria? E a poco a poco veniva anche rassegnandosi all’idea d’una mediocrità alla quale le conveniva adattarsi, se voleva vivere un’altra vita, d’un pis aller che doveva accettare per romperla una volta con quell’esistenza che era peggio della morte…
A un tratto, ella aveva scorto nel nonno i segni forieri dei soliti progetti: delle lettere che riceveva e spediva, delle confabulazioni col notaio Artali, degli sguardi che fissava a lungo su di lei e che lo tradivano. «Ci siamo ancora!» ella si era detto tra sè, e cercava d’indovinare di chi poteva trattarsi. Ma non veniva nessuno a casa sua, non la conducevano in nessun posto, e la sua curiosità aveva finito per cadere, quando un giorno il nonno annunziò:
— Doman l’altro partiremo per Palermo.