Parte Prima

1 Capitolo 1. Il metodo casistico-problematico

1.1 Approccio all’analisi del diritto

«Metodo casistico» nel contesto del discorso giuridico è espressione che riveste almeno due significati. Il primo attiene a un metodo di analisi (e a una concezione) del diritto che mette in esponente la giurisprudenza (le decisioni dei giudici). Il secondo concerne la didattica, in questa seconda accezione metodo casistico significa metodo di insegnamento che si basa su casi: tratti dalla giurisprudenza (le decisioni dei giudici), inventati (dal docente o dagli studenti) o estrapolati da narrazioni (ad es. romanzi, film) [Pascuzzi 2016].

Per spiegare in cosa consiste il metodo di analisi del diritto basato sui casi giurisprudenziali è doveroso fare riferimento al grande civilista, comparatista e storico del diritto Gino Gorla, scomparso nel 1992.

Gino Gorla è stato tra i primi in Italia a riportare in primo piano la giurisprudenza. Ricollocare al centro dell’analisi le decisioni delle corti significava negli anni ’50 del secolo scorso combattere una concezione del diritto di tipo formalistico-dogmatico che costruisce le teorie basandosi essenzialmente su norme di legge e concetti astratti. Nel ragionamento formalistico-dogmatico le decisioni delle corti non rivestono importanza (o assumono un’importanza relativa). Secondo questa concezione, ad esempio, si possono scrivere manuali di diritto privato omettendo del tutto i riferimenti alla giurisprudenza.

Nelle pagine dedicate a Gino Gorla da Paolo Grossi nel suo libro sulla cultura del civilista italiano si legge [Grossi 2002, 135].

Gorla non apriva soltanto la sua esperienza di studioso a quel pianeta di common law tanto poco frequentato dal misoneista civilista italiano così imbalsamato nella sua «mummificazione» romanistica, ma introduceva nella cultura giuridica italiana un modello alternativo […].

Nella voce «Giurisprudenza» dell’Enciclopedia del diritto Gorla scrive quanto segue [Gorla 1970].

 

[La scienza storico-comparativa della giurisprudenza è] una scienza storico-comparativa dei fattori del diritto, o dei processi di sua formazione (legislazione, consuetudine, giurisprudenza e dottrina): una scienza, tuttavia, che ponga l’accento sulla giurisprudenza, o consideri quel processo sotto l’aspetto, o sub specie, dell’attività dei tribunali nel loro ius dicere. Né questo punto di vista è arbitrario, perché, se gli altri fattori possono tacere (e tacciono talvolta, o quasi, in certi periodi storici), la giurisprudenza dei tribunali non può tacere; inoltre, essa, dal punto di vista di una media «statistica» attraverso la storia comparata, può considerarsi il fattore più importante del diritto.

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Tra i temi oggetto della scienza storico-comparativa della giurisprudenza figurano [Gorla, 1970]:

 

    • i soggetti (i tribunali);

 

    • l’attività dei tribunali;

 

    • i prodotti dell’attività: le decisioni (struttura, stile e metodi);

 

    • i mezzi di informazione: raccolte e repertori;

 

    • l’opera degli avvocati e del pubblico ministero.

 

La scienza storico-comparativa della giurisprudenza si occupa inoltre della dialettica tra fattori del diritto. Più specificamente si occupa di tre vicende [Gorla, 1970]:

 

1) dei rapporti tra la giurisprudenza (i tribunali) e la legge;

 

2) dei rapporti tra la giurisprudenza e la dottrina (i dottori);

 

3) della dialettica interna: l’autorità del precedente vincolante.

 

È importante sottolineare che Gorla guarda realisticamente a tale dialettica come a un conflitto di potere.

 

Nelle sue parole [Gorla, 1970]:

 

Queste «tre vicende sono spesso lotte tra i vari fattori del diritto per la supremazia»

.

 

1.2 Metodo di insegnamento

 

Una delle opere più famose di Gorla dedicate al diritto dei contratti si intitola emblematicamente «Il contratto – Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico» [Gorla 1955, corsivi aggiunti].

 

Il libro di Gorla registrava i risultati di un corso universitario (a dimostrazione del fatto che, nell’università, didattica e ricerca sono indissolubilmente legate), svolto appunto con metodo comparativo e casistico. Lo ricorda l’autore nella prefazione all’edizione del 1955 quando spiega di aver fatto ricorso a questo metodo di fronte al vago senso di insoddisfazione che all’epoca si poteva percepire rispetto ai metodi usuali di studio e insegnamento del diritto.

 

Esiste dunque una relazione tra metodo casistico come tipo di analisi giuridica e metodo casistico come modalità di insegnamento.

 

Non a caso Gorla guardava ai sistemi di common law dove il metodo casistico è utilizzato anche come metodo di insegnamento.

 

In particolare, nelle università americane dove si insegna il diritto, il case method è tradizionalmente il principale metodo di insegnamento [Rheinstein 1975]. L’invenzione della didattica mediante metodo casistico, chiamato anche metodo socratico in riferimento alla tecnica di dialogo usata dal filosofo greco, si fa risalire a Christopher Columbus Langdell, giurista americano e a lungo Dean della Harvard Law School durante gli ultimi decenni dell’800 [Gilmore 1991, 43 ss.].

 

Così si esprimeva Gorla nel 1950 [Gorla 1950].

 

Un po’ di case method e dell’atmosfera che esso crea contribuirebbe anche da noi a debellare il feticcio dei codici, il concetto autoritario del potere legislativo e la convinzione dell’illimitatezza dei suoi poteri. Il case method avvezza i giovani a sentire, se non sempre a pensare, che il diritto non è lo Stato. Li abitua a discutere e a ragionare.

 

L’atmosfera a cui allude Gorla è stata rappresentata in libri, serie tv e romanzi.

 

Si prenda ad esempio il racconto autobiografico di Scott Turow, famoso autore di legal thriller, che narra le vicende del suo primo anno di studio alla Harvard Law School durante gli anni ‘70.

 

Qui si seguito si riporta un estratto del libro [Turow 2013, 24-25, corsivi aggiunti].

 

Sarebbe stato tutto fittizio, ma avremmo seguito il problema in ogni sua fase, per impratichirci nei vari aspetti del lavoro di un avvocato. Tra le altre cose, Henley ci disse che avremmo dovuto parlare con il cliente, presentare il ricorso, preparare e discutere una memoria legale per un giudizio sommario. Alla fine, avremmo visto in che modo due avvocati esperti avrebbero gestito il caso in un dibattimento fittizio. Io avevo appena un’idea vaghissima di ciò che significavano i termini usati da Henley e, forse per questa sola ragione, il programma mi sembrava interessante.

 

Henley disse che il nostro primo compito ci sarebbe stato assegnato al termine della lezione. Consisteva in un promemoria del capo del nostro fantomatico studio legale e di un «caso» che questi chiedeva al collaboratore di consultare. Qui «caso» significava la sentenza pubblicata di un giudice nella soluzione di una controversia a lui sottoposta. Tipicamente, una motivazione di questo genere contiene un riepilogo dei fatti che hanno portato all’azione legale, le questioni legali sollevate, e ciò che ha da dire il giudice nella decisione. La parte in cui il giudice espone i suoi punti di vista viene chiamata «opinione». I casi e le opinioni formano il centro del mondo di uno studente di legge. Virtualmente tutte le facoltà di legge americane seguono il «metodo dello studio del caso» che impone agli studenti di imparare la legge [rectius, il diritto, n.d.r.] leggendo e discutendo in aula una quantità di motivazioni di sentenze. In gran parte sono decisioni di corti d’appello, le corti di grado superiore alle quali gli avvocati ricorrono esponendo le loro obiezioni a certi punti di diritto sui quali ha deciso il giudice di primo grado. Poiché sono imperniate su questioni di diritto molto precise, le «opinioni» sono considerate strumenti particolarmente efficaci per insegnare agli studenti quel tipo di ragionamento meticoloso che è ritenuto indispensabile per l’attività di un avvocato.

 

Oppure si può fare riferimento al film The Paper Chase del 1973 diretto da James Bridges. Al di là del piglio autoritario del professore di diritto dei contratti [Pascuzzi 2018], in una delle scene della pellicola è descritto molto bene il modo in cui funziona il metodo casistico (o socratico) tradizionale dei corsi universitari di diritto americani. Il professore ha preassegnato alla classe la lettura di un caso giurisprudenziale. Gli studenti dovrebbero venire in classe molto ben preparati avendo letto attentamente la decisione della corte. Il professore dispone di un diagramma della classe con i nomi (e talvolta anche le foto) degli studenti che frequentano e i corrispondenti posti a sedere che sono fissi (rimangono gli stessi per tutto il periodo di svolgimento del corso). In questo modo il docente può interrogare sul caso un determinato studente chiamandolo a parlare. Dopo averlo chiamato svolge una serie di domande. Solitamente, non spiega il senso delle domande né espone la risposta corretta. Ma continua ponendo altre domande. Se lo studente chiamato non sa rispondere, il professore chiama altri studenti a parlare.

 

L’impostazione classica ha subito mutamenti e il case method è anche oggetto di un esteso dibattito negli USA [cfr. Spencer 2012].

 

Quel che però interessa in questa sede è il senso didattico del coinvolgimento degli studenti e della classe nel dialogo con il docente. Un altro aspetto rilevante è lo stimolo a creare gruppi di studio di studenti per la lettura e la discussione dei casi giurisprudenziali (sia il racconto sia il film qui citati insistono molto sull’importanza dei gruppi di studio). Insomma, il metodo casistico-problematico, se ben utilizzato, può aiutare a creare in un corso universitario quello che i greci chiamavano sinuìa, cioè il sentirsi parte essenziale di un’unica comunità di studio e conoscenza.

 

Epurato dall’esasperazione competitiva che talora connota l’atmosfera delle classi americane, il metodo casistico rappresenta ancora oggi un validissimo strumento per insegnare e apprendere il diritto.

 

Dagli anni ’50 durante i quali Gorla denunciava la scarsa attenzione scientifica e didattica alla giurisprudenza molte cose sono cambiate. Oggi anche in Italia nei corsi universitari di diritto e nella manualistica c’è più giurisprudenza. Esistono anche generi letterari dedicati all’analisi delle sentenze. E nel settore dei testi didattici si trovano spesso volumi dedicati alla discussione delle decisioni dei giudici.

 

Vi è altresì un ricco filone di riflessione critica sul ruolo assunto dalla giurisprudenza (nel confronto con legislatore e dottrina) nel diritto civile.

 

In proposito si può portare ad esempio il pensiero di Carlo Castronovo.

 

Dagli anni novanta del secolo scorso si è verificato un mutamento del modello dei rapporti tra dottrina e giurisprudenza. Causa ultima se ne può dire il fatto che alla fine abbia persuaso anche quest’ultima il graduale accreditamento dell’idea di creatività dell’interpretazione. Non che nei decenni precedenti fossero mancati chiari esempi di giurisprudenza alternativa; ma in particolare nel diritto del lavoro, si era trattato di una giurisprudenza preoccupata di risolvere la controversia specifica, più che di affermarsi in una sorta di autarchia ermeneutica. In questa nuova fase, paradossalmente l’aspirazione dominante della giurisprudenza non è tanto il completamento di un’idea di sé come potere normativo, bensì l’ansia di dialogare pari a pari con la dottrina [Castronovo 2015, 87-88].

 

Non è questa la sede per entrare in questo dibattito.

 

Qui si può solo rilevare che il momento del giudizio assume (o conserva rispetto al potere della tecnologia) un ruolo importante.

 

La complessità sociale non consente più di essere ricondotta a schemi definiti e i criteri di valore che emergono nei diversi contesti non possono essere fatti discendere da formule consegnate a enunciati, ma vanno, volta a volta, desunti da rapporti, da situazioni, da indici personali o ambientali. Il paradigma del valore si sposta dalla legge al giudizio assegnando al giurista (teorico o pratico) una funzione che era rimasta soltanto implicita nella stagione delle grandi omologazioni assiologiche [...].

 

Se […] l’indice della normatività si viene progressivamente spostando dal vertice all’atto di posizione alla base di una concreta applicazione, è inevitabile che l’organo giudicante acquisisca un ruolo progressivamente sempre più rilevante e che esso, nelle sue pronunce, tenda a collocare il conflitto che è sottoposto al suo esame in un più ampio panorama di interessi incisi [Lipari 2017, 3, 8].

 

D’altra parte, esistono letture alternative a quelle della competizione tra dottrina e giurisprudenza.

 

Siamo passati dalla consolidata struttura di un diritto consegnato ad un sistema di enunciati, alla mobile, ma storicamente viva, realtà di un diritto che si articola in una molteplicità di situazioni, di vicende, di esiti. Dottrina e giurisprudenza non sono chiamate (ammesso che mai lo abbiano fatto) a leggere testi, confrontandosi fra loro sulle modalità di quella lettura, ma ad analizzare contesti, nella asprezza delle loro tensioni, ma anche nell’aspirazione a ricercare un punto di equilibrio. La formula nella quale si ritiene debba essere condensato l’assunto teorico della posmodernità dice che «il mondo non è uno, ma molti». La pluralità riferita al diritto, se non vuole ridursi alla passività del nichilismo o della indifferenza di tutte le soluzioni interpretative astrattamente possibili, esige un continuo confronto con la molteplicità delle situazioni, con la varietà degli interessi in conflitto, con la duttilità degli statuti normativi e con la potenziale conflittualità degli indici di valore presenti all’interno di un contesto sociale, non sempre facilmente e stabilmente definibile nei suoi contorni. Dottrina e giurisprudenza, confrontandosi tra loro e cercando mediazioni storicamente comprensibili, pure nella loro inevitabile temporaneità, si sforzano di cercare un punto di equilibrio, riaffermando, nella stagione del postmoderno, la verità dell’affermazione di Capograssi. Davvero la scienza – assunta nella pienezza della sua dimensione teorico-pratica – è l’unica vera fonte del diritto. [Lipari 2017, 55-56].

 

Personalmente ritengo che occorra ancora investire molto nello sviluppo del metodo casistico-problematico anche in insegnamenti fondamentali come quello di diritto civile.

 

Com’è stato rilevato [Pascuzzi 2016], leggere (e studiare) una sentenza aiuta lo studente a:

 

– Individuare i problemi giuridici;

 

– Differenziare i problemi;

 

– Comprendere le modalità di risoluzione della controversia (regola e iter argomentativo);

 

– Riconoscere le opzioni di politica del diritto;

 

– Affinare la capacità di elaborare un pensiero autonomo e critico;

 

– Affinare le abilità che servono alla redazione di testi giuridici (ad es. atti processuali).

 

1.3 Come si legge una sentenza: la distinzione tra ratio decidendi e obiter dictum

 

Per saper leggere una decisione giurisdizionale e, in particolare, la sua tipologia più importante (la sentenza) occorre conoscere come si articola la sua struttura [Pascuzzi 2019, 74].

 

Una pronuncia giurisdizionale è un documento lungo in media venti o trenta cartelle. Sul piano formale esso contiene una serie di elementi utili a identificare l’atto. Essi sono:

 

a) l’organo giudicante (ovvero l’organo che ha emanato il documento. Se si compone di più sezioni, viene segnalata quella che ha reso la pronuncia);

 

b) il nome dei giudici che compongono il collegio (o del giudice in caso di organo monocrati
      co);

 

c) il nome del giudice che ha redatto la motivazione (giudice estensore o giudice relatore);

 

d) il tipo di atto emanato (sentenze, ordinanza, decreto);

 

e) il numero progressivo attribuito alla decisione;

 

f) la data del deposito in cancelleria (si tratta di un elemento attestato dal responsabile       dell’ufficio);

 

g) il nome delle parti in giudizio;

 

   h) il nome dei difensori delle parti.

 

È fondamentale conoscere la distinzione tra ratio decidendi e obiter dicta [Gorla 1964a].

 

A proposito della struttura della sentenza è utile sottolineare quanto segue [Pascuzzi 2019, 75].

 

La porzione più rilevante sul piano quantitativo di una pronuncia giurisprudenziale è (di regola) la motivazione. Essa si articola in due parti. La prima, denominata «svolgimento del processo» (o anche «narrativa»), contiene l’illustrazione dei fatti di causa. La seconda, denominata «motivi della decisione», riporta le ragioni che hanno portato il giudice ad assumere quella particolare decisione.

 

All’interno della motivazione in senso stretto, è utile distinguere [sulla scia di quanto sostenuto da Gorla] tra obiter dicta e ratio decidendi […].

 

La ratio decidendi è il principio di diritto adottato dal giudice per definire la causa in relazione al contenuto di una domanda (ovvero, il criterio di decisione adottato dal giudice per la soluzione del caso sottopostogli).

 

Gli obiter dicta, invece, sono costituiti dall’insieme delle argomentazioni da cui il giudice ha tratto il proprio convincimento, ivi comprese le questioni preliminari e collaterali che egli ha creduto opportuno esaminare onde giungere alla decisione di ciò che forma il vero oggetto della controversia.

 

Gli obiter dicta possono anche essere definiti come:

 

tutte quelle proposizioni di diritto che non sono necessarie alla decisione del caso concreto. Tal volta sono anche dei trattatelli teorici su questioni diverse da quelle che formano oggetto della lite […]. Tal’altra espongono regole o principi su casi ipotetici, più o meno occasionalmente suggeriti da quello sottoposto al giudice. Tal’altra, ancora, obiter dictum si presenta come una proposizione generalizzante o concettualizzante al di là del necessario o, comunque, troppo generica e indefinita rispetto al caso deciso […] [Gorla 1964a. 89, nota 2].

 

Alla ratio decidendi corrisponde la massima pubblicata sulla rivista giuridica e sul repertorio di giurisprudenza. Infatti, la massima [Pascuzzi 2019, 107]:

 

riproduce il principio di diritto che il giudice ha adottato per decidere il caso. Una pronuncia può avere più massime se molteplici sono le questioni affrontate. La formulazione della massima è il compito probabilmente più arduo affidato ai redattori delle riviste di giurisprudenza. Attraverso la massima si deve cogliere la ratio decidendi della sentenza, obiettivo non sempre agevole.

 

La pronuncia giurisdizione si chiude con una parte denominata «dispositivo» [Pascuzzi 2019, 75].

 

Si tratta, in genere, di poche righe nelle quali viene espresso il comando del giudice dopo lo svolgimento della motivazione. Il dispositivo segue il noto acronimo «Pqm» (per questi motivi), con il quale si chiude la parte argomentativa.