Parte quarta

25 Capitolo 25- Dalla persona ai dati

25.1 Datificazione

Stefano Rodotà così sottolinea il passaggio storico dal concetto di soggetto a quello di persona [Rodotà 2012, 140-141].

Vi è un momento nella riflessione dei giuristi nel quale il soggetto astratto non appare più come uno strumento capace di comprendere la realtà attraverso una sua elevata formalizzazione. Si presenta, al contrario, come un impedimento, un ostacolo. Non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto, che perde un volto riconoscibile come accade alle figure di Francis Bacon. Il corpo è lì, ancora visibile, però con un viso come stravolto, cancellato. Ma una figura rimane, e il problema diviene appunto quello di restituirle una faccia, renderla di nuovo riconoscibile, attrarla nella realtà. È questa la ragione del progressivo slittamento dell’attenzione dal soggetto alla persona, testimoniato dalla prevalenza di quest’ultima parola in gran parte della letteratura giuridica recente. Quasi con prepotenza, la persona tende a occupare il centro della scena, con la forza che le deriva dalla capacità immediata di esprimere la materialità dei rapporti.
La realtà contro l’astrazione? Ma qui, almeno nelle apparenze, si può subito cogliere un paradosso. Nel linguaggio del diritto anche «persona» è termine che rinvia a un processo di astrazione dalle pure condizioni materiali, com’è particolarmente evidente nella finzione che regge la persona «giuridica». Come vuole il suo etimo, persona è prosopon, maschera, dunque mezzo che occulta un volto reale e lo sostituisce con una convenzione, con un doppio giuridico che consente a ciascuno di muoversi anche nel mondo reale come se nulla lo distinguesse dagli altri o, meglio, di pretendere di essere formalmente sottratto a discriminazioni, stigmatizzazioni, selezioni, alla sua stessa naturalità. Ma il prezzo è proprio l’allontanamento dalla realtà, per non dire la sua soppressione, con l’attore greco che, indossata la maschera e calcando la scena, diceva a tutti d’essere altro dalla persona reale che poteva essere incontrata sulla scena ordinaria del mondo. Nel momento in cui, invece, il riferimento alla persona viene assunto come connotato realistico, che la fa emergere per ciò che è effettivamente, il discorso giuridico prende congedo da quella storica finzione.

Nella seconda parte del libro si sono portati alcuni esempi di come la lettura costituzionalmente orientata del diritto privato abbia consentito di difendere la persona da svariate forme di aggressione. Particolare attenzione è stata riservata alla tutela di attributi immateriali della persona fisica contro le prime forme di mercificazione della rivoluzione industriale come la stampa scandalistica.

Ma cosa succede se prende forma una visione del mondo che sostituisce la centralità e il primato della persona con la centralità e il primato dei dati?

Nell’introduzione di questo libro [v. –> Introduzione] si è accennato alla teoria che predica, sulla scorta di una convergenza di biologia e informatica, il datismo, ovvero la riduzione di tutto l’universo, e dunque anche delle persone, ai dati.

Tra coloro che hanno denunciato i rischi legati all’ascesa di questa teoria (o di questa religione) vi è lo storico Harari.

Il datismo è profondamente radicato nelle sue due discipline madri: l’informatica e la biologia. Delle due la biologia è la più importante. È stato l’abbraccio di quest’ultimo campo di studi con il datismo a trasformare una limitata svolta nell’informatica in un cataclisma sconvolgente che può rivoluzionare radicalmente la natura della vita. Potete non concordare con l’idea secondo cui gli organismi sono algoritmi e le giraffe, i pomodori e gli esseri umani rappresentano soltanto differenti metodi per elaborare i dati. Ma non dovreste ignorare che questo è l’attuale dogma scientifico, che sta cambiando così in profondità il nostro mondo da renderlo irriconoscibile. [Harari 2017, 561].
[…] La religione dei dati ora dice che ogni parola e ogni azione è parte del grandioso flusso dei dati, che gli algoritmi vi stanno guardando costantemente e che essi si preoccupano di qualsiasi cosa facciate e di qualsiasi sentimento proviate. Alla maggior parte delle persone questo piace parecchio. Per i veri credenti, essere disconnessi dal flusso dei dati comporta il rischio di perdere il vero significato della vita. Che senso ha fare o sperimentare qualsiasi cosa se nessuno ne è al corrente, e se ciò non contribuisce in qualche maniera allo scambio globale di informazioni?

 

L’umanesimo ritiene che le esperienze accadano dentro di noi, e che proprio lì dovremmo trovare il significato di tutto quello che accade, permeando in tal modo l’universo di significato. I datisti credono che le esperienze siano senza valore se non sono condivise, e che non abbiamo bisogno di – in effetti non possiamo – trovare il significato in noi stessi. Abbiamo soltanto bisogno di registrare e connettere le nostre esperienze al grande flusso dei dati, e gli algoritmi scopriranno il loro significato e ci diranno come agire. [Harari 2017, 587-588].

I rischi connessi alla datificazione della persona sono stati puntualmente registrati da Rodotà.

Le tecnologie sottopongono il concetto di persona a spinte incrociate di dilatazione e di riduzione. L’elettronica induce a concludere che «noi siamo le nostre informazioni», la genetica fa ripetere che «noi siamo i nostri geni». Bisogna allentare l’enfasi tecnologica, per evitare che la biologia cancelli la biografia, che la virtualità trascini di nuovo la persona lungo i sentieri estremi dell’astrazione. Vi è una permanente eccedenza della persona rispetto all’insieme dei dati fisici e virtuali che la compongono [Rodotà 2012, 169].

25.2 La mercificazione della persona datificata

La mercificazione è un processo di riduzione artificiale di un’entità – lavoro, terra, moneta, conoscenza, persona – al concetto di merce. Questo processo di riduzione è funzionale al primato del mercato autoregolantesi affermatosi con la rivoluzione industriale.

Karl Polanyi ha espresso in questo modo il concetto.

Un’economia di mercato deve comprendere tutti gli elementi dell’industria compreso il lavoro, la terra e la moneta. (In un’economia di mercato anche quest’ultima è un elemento essenziale della vita industriale e la sua inclusione nel meccanismo di mercato ha […] conseguenze istituzionali di lunga portata). Lavoro e terra tuttavia non sono altro che gli esseri umani stessi dai quali è costituita ogni società e l’ambiente naturale nel quale essa esiste. Includerli nel meccanismo di mercato significa subordinare la sostanza della società stessa alle leggi di mercato. […]
Il punto cruciale è questo: lavoro, terra e moneta sono elementi essenziali dell’industria; anch’essi debbono […] essere organizzati in mercati poiché formano una parte assolutamente vitale del sistema economico; tuttavia essi non sono ovviamente delle merci, e il postulato per cui tutto ciò che è comprato e venduto deve essere stato prodotto per la vendita è per questi manifestamente falso. In altre parole, secondo la definizione empirica di merce essi non sono delle merci. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo, la moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato. La descrizione, quindi, del lavoro, della terra e della moneta come merce è interamente fittizia. […]
Permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere di acquisto porterebbe alla demolizione della società. [Polanyi 1944-1974, 92-94].

Zuboff nell’elaborare la sua teoria del capitalismo della sorveglianza dialoga idealmente con Karl Polanyi.

Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti. Alcuni di questi dati vengono usati per migliorare prodotti o servizi, ma il resto diviene un surplus comportamentale privato, sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come «intelligenza artificiale» per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente, tra poco e tra molto tempo. Infine, questi prodotti predittivi vengono scambiati in un nuovo tipo di mercato per le previsioni comportamentali, che io chiamo mercato dei comportamenti futuri. Grazie a tale commercio i capitalisti della sorveglianza si sono arricchiti straordinariamente, dato che sono molte le aziende bisognose di conoscere i nostri comportamenti futuri […].
I processi automatizzati non solo conoscono i nostri comportamenti, ma li formano. Il focus passa dalla conoscenza al potere, e non basta più automatizzare le informazioni che ci riguardano; il nuovo obiettivo è automatizzarci. In questa fase dell’evoluzione del capitalismo della sorveglianza, i mezzi di produzione sono subordinati a «mezzi di modifica del comportamento» sempre più complessi e completi. In tal modo, il capitalismo della sorveglianza dà vita a nuovi tipi di potere che io faccio rientrare nella categoria dell’ideologia strumentalizzante. L’ideologia strumentalizzante conosce e indirizza i comportamenti umani verso nuovi fini. Anziché usare eserciti e armi, impone il proprio potere tramite l’automazione e un’architettura computazionale sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi. [Zuboff 2019, 17-18].
Il capitalismo della sorveglianza non ha confini e ignora le vecchie distinzioni tra mercato e società, tra mercato e mondo, tra mercato e persona. Agisce a scopo di lucro subordinando la produzione all’estrazione [dei dati relativi all’esperienza umana], rivendicando il controllo esclusivo di umanità, società e politica, andando ben oltre l’ambito convenzionale di un’azienda o del mercato. Rifacendoci a Karl Polanyi, possiamo vedere che il capitalismo della sorveglianza annette l’esperienza umana alle dinamiche di mercato per farle rinascere come comportamento: il quarto «bene fittizio». I primi tre beni fittizi di Polanyi – terra, lavoro e denaro – erano soggetti alla legge. Anche se imperfette, le leggi sul lavoro, sull’ambiente e sulle banche costituiscono delle cornici di regole per difendere la società (così come la natura, la vita e la finanza) dagli eccessi peggiori del capitalismo. L’esproprio dell’esperienza umana da parte del capitalismo della sorveglianza non ha incontrato ostacoli simili. [Zuboff 2019, 529].

Il pensiero di Karl Polanyi è stato di recente riscoperto e riportato al centro del dibattito (anche giuridico) a seguito della critica che si è sviluppata in antitesi all’ondata liberista (o neo-liberista) emersa prima negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito a partire dalla fine degli anni ’70 [Resta 2011, 282-283; Resta 2018, 511].

Nel corso di questo libro si è fatto riferimento a più riprese al concetto di mercificazione [v. –> Capitoli 7, 9, 23].

Nell’ambito dei diritti delle personalità troviamo esempi di mercificazione della persona a proposito del diritto all’immagine, del diritto alla riservatezza, del diritto all’identità personale e del diritto all’oblio. La mercificazione non è solo subita, si pensi alla celebrità perseguitata dalla stampa scandalistica, è anche consapevolmente perseguita. Nella seconda parte del libro abbiamo portato l’esempio del diritto allo sfruttamento commerciale della notorietà (right of publicity). Dunque, la mercificazione non soltanto è voluta dal sistema dominante (il capitalismo), pur sempre fatto di persone, ma è scientemente alimentato dalle persone notorie che fanno un business della propria identità. Per assecondare il commercio dell’identità gli interpreti trovano il modo di far quadrare il cerchio e rendere disponibile per via negoziale ciò che stando all’astrazione della categoria dei diritti della personalità non lo sarebbe.

Cosa succede se la mercificazione si associa alla datificazione della persona? Cosa succede se la mercificazione è alimentata in modo più o meno consapevole da tutti, ad esempio, attraverso l’uso dei social networks?

25.3 Datificazione, sorveglianza di massa e tramonto della democrazia

La mercificazione (o, secondo Zubuff, la riduzione a materia prima) delle persone datificate è alimentata da una sorveglianza di massa costante e pervasiva. Tale sorveglianza è resa possibile dalla diffusione di Internet e soprattutto da alcune piattaforme come Google e Facebook. Gli Stati sorvegliano. Le piattaforme sorvegliano. Ma i confini tra pubblico e privato appaiono quanto mai scoloriti. Gli Stati sorvegliano attraverso le piattaforme. Le piattaforme influenzano la legislazione statale e sovranazionale. Ad essere a rischio non è solo il primato della persona, ma anche quello della democrazia.

Nella terza parte del libro si sono offerti alcuni esempi di sorveglianza di massa [v. –> Capitoli 16, 17, 19].

Per più di tre secoli, la civiltà industriale ha cercato di governare la natura per il bene degli uomini. Con le macchine abbiamo superato i limiti dei nostri corpi e siamo riusciti a dominarla. Solo in seguito abbiamo cominciato a pensare alle conseguenze: la Terra è in pericolo e gli ecosistemi sono fuori controllo.
Siamo all’inizio di un nuovo processo storico che ho chiamato civiltà dell’informazione, nel quale ci stiamo comportando con la stessa arroganza. Il fine non è più il dominio della natura, bensì della natura umana. Siamo passati da macchine che superano i limiti del corpo a macchine che modificano i comportamenti di individui, gruppi e popolazioni al servizio di obiettivi di mercato. L’ascesa del potere strumentalizzante spazza via quell’interiorità che è alla base della volontà di volere e della nostra voce in prima persona, privando così la democrazia delle sue radici.
Si tratta naturalmente di un colpo di stato senza spargimenti di sangue. Non ci sono atti di violenza diretti ai nostri corpi, perché la terza modernità strumentalizzante preferisce addestrarci. La gente vuole una vita migliore, e la risposta è l’eliminazione graduale di caos, incertezza, conflitto, anormalità e disarmonia, a favore di prevedibilità, trasparenza, confluenza, persuasione, pacificazione e di una regolarità automatizzata. Noi dovremmo delegare la nostra autorità, liberarci dalle preoccupazioni, azzittirci, seguire il flusso e sottometterci ai tecnocrati visionari tanto ricchi e potenti da sapere senz’altro giudicare meglio di noi. In futuro avremo meno potere e controllo, nuove fonti d’ineguaglianza divideranno le persone, in pochi saranno soggetti e in tanti saranno oggetti, in pochi offriranno stimoli e in tanti daranno le loro risposte.
Questa visione minaccia anche altri delicati sistemi millenari, di natura sociale e psicologica. Sto pensando alla democrazia, costata tanti scontri e sofferenze, e all’idea di un individuo capace di elaborare un giudizio morale autonomo. L’«inevitabilità» della tecnologia ci viene ripetuta come una sorta di mantra, ma si tratta di un sonnifero esistenziale [Zuboff 2019, 529-530]
[…] Il potere strumentalizzante ha tratto la propria forza ignorando tanto l’umanità quanto la democrazia. Non c’è legge che possa proteggerci da quel che non ha precedenti, e le società democratiche sono indifese nei confronti di questo nuovo potere […]. Il capitalismo della sorveglianza è pertanto parte di una preoccupante deriva, che secondo molti analisti politici sta portando il pubblico a non ritenere più la democrazia una necessità inviolabile. [Zuboff 2019, 531].

Ma c’è anche chi si spinge pessimisticamente oltre.

[…] Se nel XXI secolo le condizioni dell’elaborazione dei dati cambieranno ancora, la democrazia potrebbe andare incontro al declino e perfino scomparire. Al crescere del volume dei dati e della velocità con cui si diffondono, venerabili istituzioni come le elezioni, i partiti politici e i parlamenti potrebbero diventare obsolete – non perché esse non si ispirino a principi etici, ma perché non elaborano i dati in maniera abbastanza efficiente. Queste istituzioni si sono evolute in un’epoca in cui la politica si evolveva più in fretta della tecnologia. Nel XIX e nel XX secolo la Rivoluzione industriale dispiegò i suoi effetti così lentamente da consentire ai politici e agli elettori di rimanere un passo avanti a questi mutamenti epocali, così da regolare e modificare il loro corso. Tuttavia, mentre il ritmo della politica non è cambiato granché dai tempi delle macchine a vapore, la tecnologia ha accelerato enormemente. Le rivoluzioni tecnologiche adesso avanzano più in fretta dei processi politici, determinando quella perdita di controllo che parlamentari ed elettori sperimentano da qualche tempo. [Harari 2017, 568-569].

25.4 Una società senza diritto e senza giuristi?

Alcune delle riflessioni pessimistiche sul futuro dell’umanità e della democrazia si chiudono con una sorta di scatto di orgoglio finale.

Il libro sul capitalismo della sorveglianza di Zuboff ne è un esempio.

La democrazia è vulnerabile a quel che non ha precedenti, ma la forza delle istituzioni democratiche è l’orologio che determina quanto tali ferite siano gravi e durature. In una società democratica il dibattito e il contesto garantito dalle istituzioni ancora solide può orientare l’opinione pubblica contro forme inattese di oppressione e ingiustizia, per mostrare la strada a leggi e giurisprudenza. [Zuboff 2019, 533-534].

«Mostrare la strada» significa aprire un dibattito pubblico, insegnare e cambiare i comportamenti quotidiani che alimentano il capitalismo della sorveglianza.

Tutto questo però potrebbe non essere sufficiente se come dicono, ad esempio, Severino [v. –> Capitolo 4] e Harari la tecnologia arriva prima delle leggi e della giurisprudenza perseguendo fini suoi propri diversi dal diritto (e dalla democrazia).

Il cyberspazio è oggi cruciale per le nostre vite quotidiane, la nostra economia e la nostra sicurezza. Tuttavia, le scelte importanti tra progetti alternativi che riguardano il web non sono prese tramite un processo politico democratico, anche se esse chiamano in causa temi tradizionalmente politici come la sovranità, i confini, la privacy e la sicurezza. Avete mai votato in merito a vari modelli di cyberspazio? Il fatto che i progettisti web prendano decisioni rilevanti in luoghi molto lontani dalla ribalta dello spazio pubblico significa che oggi Internet è uno spazio libero e privo di leggi che erode la sovranità, ignora i confini, abolisce la privacy e pone forse i rischi più seri alla sicurezza globale. Mentre un decennio fa questi pericoli erano appena localizzati dai radar di politici e burocrati, oggi questi ultimi assumono atteggiamenti isterici e temono un imminente cyber 11 settembre.
Di conseguenza, i governi e le agenzie non governative portano avanti dibattiti intensi su come ristrutturare la rete, ma è molto più difficile cambiare un sistema che già esiste che intervenire quando un fenomeno è appena agli inizi. Inoltre, quando l’elefantiaca burocrazia governativa si sarà chiarita le idee su come regolamentare il cyberspazio, Internet avrà cambiato aspetto dieci volte. La tartaruga governativa non è in grado di tenere il passo della lepre tecnologica. [Harari 2017, 569-570].

Considerazioni analoghe potrebbero essere svolte a margine dell’altro fronte della datificazione della persona: le biotecnologie.

Dobbiamo, dunque, malinconicamente rassegnarci al tramonto del diritto e dei giuristi?

Le nuove generazioni, almeno in Italia, dimostrano meno interesse verso gli studi universitari giuridici. Gli immatricolati ai corsi giuridici si sono ridotti negli ultimi dieci anni di un terzo (una riduzione maggiore della riduzione complessiva degli immatricolati all’università tutta) [Caso 2016]. Questo fenomeno può avere molte spiegazioni. Una di esse potrebbe essere relazionata all’intuizione, nei giovani, di una progressiva marginalizzazione (o di un’agonia più o meno lenta) del diritto.

Si tratta, però, di un’intuizione molto probabilmente errata. La società attuale, nella quale i rischi per le persone aumentano e le disuguaglianze crescono, ha bisogno di più diritto e di più giustizia.

Forse però i corsi universitari giuridici e i giuristi, per poter realmente incidere sul futuro, devono cambiar pelle. Soprattutto devono acquisire nuovi linguaggi utili al dialogo con altri saperi.

Se è vero che il codice informatico è diritto («code is law» nella fortunata «formula magica» di Lessig), se è altrettanto vero che le biotecnologie sono diritto, allora vuol dire che il diritto esiste ancora, solo che è scritto con un linguaggio diverso da persone – al momento ancora in carne e ossa – che non si sono formate nelle aule dei corsi universitari di giurisprudenza.

Non è un caso che una delle indicazioni politiche emerse negli ultimi venti anni sia quella di incorporare principi e regole nella progettazione delle tecnologie [v. –> Capitolo 20].

Formare le nuove generazioni di giuristi non sarà un’impresa semplice, ma vale sicuramente la pena di perseguirla se pensiamo che il primato della persona (e della democrazia) abbia ancora un senso.