Tra realtà e arbitrio

Nella lettera colla quale il vicesegretario generale dei fasci, si è dimesso dalla carica, e che ha maggior valore in quanto rappresenta un’espressione del pensiero di tutto il gruppo collaborazionista parlamentarista che fa capo a Benito Mussolini, Cesare Rossi critica aspramente la degenerazione del movimento fascista provocata dai gruppi agrari:

«La nostra balda minoranza del 1919, — egli scrive, — è stata travolta dalle successive ondate impetuose di nuove forze che, non essendo né culturali né politiche, necessariamente rappresentavano solo lo stato d’animo d’artificio o d’esaltazione o interessi di classe, di casta e di zona».

Per l’azione delle forze agrarie innestatesi al movimento piccolo-borghese dei reduci urbani, il fascismo «laddove appare come dominatore è diventato un puro, autentico ed esclusivo movimento di conservazione e di reazione». Il vicesegretario dei fasci conferma le nostre osservazioni sulla crisi del fascismo, che è essenzialmente dissidio fra nuclei urbani e nuclei rurali, e non di oggi, ma congenito allo sviluppo stesso del movimento fascista.

Mussolini ed il suo gruppo di piccoli borghesi, di appartenenti alle categorie medie, vogliono romperla coi nuclei agrari intransigenti, i quali, persistendo nella tattica della violenza armata antiproletaria, minacciano di inimicare l’opinione pubblica. Il fascismo collaborazionista, sindacalista nazionale, si preoccupa, a ragione, della sua base elettorale.

Il movimento fascista si avvia a grandi passi verso la scissione. Dal prossimo congresso dei fasci usciranno due fascismi. Le necessità della lotta antiproletaria giustificano agli occhi del capitalismo agrario il mantenimento della guardia bianca. Il fascismo rurale rimarrà e proseguirà nel suo sviluppo reazionario, finché rimarranno le ragioni che ne determinarono il sorgere e l’affermarsi. Per questa parte il fascismo si identifica collo stesso capitalismo agrario nella lotta contro i proletari delle zone rurali.

Quale avvenire attende la frazione collaborazionista mussoliniana che Cesare Rossi vuol ricondurre ai programmi primitivi di reduci di guerra interventisti? Il fascismo mussoliniano si propone esplicitamente l’organizzazione politica delle classi medie, della «piccola borghesia lavoratrice»; si propone di diventare, secondo i propositi di Agostino Lanzillo, un «partito medio, equidistante dai socialisti e dai popolari, come dalla plutocrazia e dal grande capitalismo, piú sensibile, per educazione e tradizione, degli altri due gruppi alle grandi idee nazionali e che raccolga in sé quanto di sano e di buono ha la borghesia rinnovata dalla guerra».

Questi propositi del gruppo collaborazionista sono la conseguenza logica di tutta una posizione assunta dai suoi maggiori esponenti nei confronti dei problemi economici, di tutta una teoria ed un programma sulla situazione storica italiana. «La realtà del mondo è capitalistica», è la base dei programmi mussoliniani.

Ma Mussolini ha uno strano, errato concetto della realtà capitalistica, delle attuali condizioni di sviluppo del capitalismo. Egli concepisce la realtà capitalistica come il riflesso della vita industriale di anni fa, di prima della guerra, del periodo anteriore ai trust ed all’accentramento nella banca del capitale industriale. Il capitano di industria è oggi scomparso, l’imprenditore è una figura economica arretrata, la sua attività si è trasformata in quella del semplice tecnico.

La guerra ha accentuato tale fenomeno. Le industrie si sono andate sviluppando e contemporaneamente accentrando sotto il controllo delle banche. L’imprenditore, l’industriale, è scomparso per dar posto alle grandi società per azioni, investenti i capitali delle grandi banche. Industriali sono diventati i depositari negli istituti finanziari, cioè i grandi latifondisti, i proprietari terrieri, gli agrari, che vi hanno impiegati i loro redditi per moltiplicarveli. Che interesse possono costoro avere all’incremento tecnico e sociale dell’industria? Essi non badano che agli alti dividendi, sia pure a costo della rovina di intere industrie.

Questa, e non le arbitrarie concezioni di Mussolini, è la realtà economica. L’errore gravissimo di valutazione, il grossolano equivoco, ignoranza imperdonabile per chi ha il «tic» del realismo, condannano il leader fascista a veder fallire tutti i suoi sforzi per entrare in qualche modo attivamente nella realtà delle lotte politiche, riflesso della realtà delle lotte economiche. Lo sviluppo fascista — non del suo fascismo piccolo-borghese e collaborazionista, ma di quello che si identifica col terrore bianco dei capitalisti agrari, colla reazione armata che ha spezzato ogni attività proletaria in Emilia, Toscana, Veneto, ecc. — gli ha dato l’importanza di un capitano di ventura medioevale o di un Machno a proporzioni ridotte.

Ma ora che il fascismo si va sgretolando, per naturale conseguenza dello sviluppo della lotta di classe, egli e la sua frazione vanno perdendo l’importanza politica che avevano come capi diretti e rappresentanti parlamentari del movimento antiproletario specie nelle zone agricole.

Mussolini e il suo gruppo vedono il loro avvenire nell’organizzazione dei ceti medi, cioè nel tentativo dei ceti medi di resistere alla proletarizzazione, che è portato fatale dello sviluppo storico del capitalismo.

L’Ordine Nuovo, 26 agosto 1921. Non firmato.