Un anno

 Tutta la storia italiana dal 1900 (cioè dall’uccisione di Umberto I e dalla caduta degli inani tentativi dottrinari di creare uno Stato costituzionale con un rigido corpo di leggi scritte), e forse anche tutta la storia contemporanea del nostro paese dall’avvento dell’unità nazionale, sarebbe un enigma se si prescindesse dall’assumere come punto centrale della visione storica l’incessante sforzo di determinati ceti governativi per incorporare nella classe dirigente le personalità piú eminenti delle organizzazioni operaie. La democrazia italiana, come si è creata fin dal 1870, manca di una solida struttura di classe per la non verificatasi prevalenza di nessuna delle due classi proprietarie: i capitalisti e gli agrari. La lotta tra queste due classi ha rappresentato nella storia degli altri paesi il terreno per la organizzazione dello Stato moderno, liberale e parlamentare. In Italia questa lotta è quasi assolutamente mancata, o, per meglio dire, si è attuata in una forma equivoca, come un assoggettamento, di natura burocratica e plutocratica, delle regioni centrali e meridionali del paese, abitate dalle classi agrarie, alle regioni settentrionali, dove invece aveva trovato sviluppo il capitale industriale e finanziario.

La necessità di mantenere un regime democratico, che nello stesso tempo era dominio di minoranze borghesi e si attuava come predominio di una ristretta parte della nazione sulla maggior parte del territorio, spinse incessantemente i rappresentanti dell’industrialismo e della plutocrazia settentrionale a cercare di ampliare i propri quadri di classe dominante incorporandovi le masse operaie e annullando la lotta di classe nella propria zona. Fino al 1900 i capitalisti settentrionali cercarono in un’alleanza coi latifondisti meridionali di soffocare contemporaneamente la lotta di classe del proletariato industriale e le esplosioni di violenza delle classi povere del contadiname meridionale. Ma apparve chiaro che questa alleanza a lungo andare avrebbe capovolto la situazione, dando il potere dello Stato ai latifondisti e facendo perdere al settentrione le posizioni di privilegio conquistate con l’unità nazionale. Il tentativo di Umberto e di Sonnino di dare allo Stato una rigida struttura costituzionale, togliendo al Parlamento le prerogative di fatto che era riuscito a conquistare, fu il punto di risoluzione di queste lotte. Definitivamente, con l’uccisione dì Umberto, il capitalismo ebbe il sopravvento, e all’alleanza su piano nazionale delle classi proprietarie cercò di sostituire un sistema di alleanza col proletariato urbano, sulla cui base potesse svilupparsi, come negli altri paesi capitalistici, una vera democrazia parlamentare. Giolitti è il rappresentante tipico di questa tendenza, e tutta la storia del movimento socialista dal 1900 a oggi non è altro che il risultato delle successive combinazioni escogitate dal giolittismo per procurarsi l’appoggio delle classi operaie. In nessun paese come in Italia è stato favorito dai governi il sorgere e il sistemarsi di organizzazioni sindacali e cooperative. Attraverso il consolidarsi di questi interessi costituiti era presumibile che sarebbe nata dal seno della classe operaia tutta una stratificazione piccolo-borghese di funzionari che facilmente avrebbe ascoltato le parole di adescamento degli statisti borghesi. Questo piano ventennale della parte piú intelligente della borghesia italiana è giunto oggi a completa maturazione. Nella sua estrema vecchiaia Giolitti si vede sul punto di cogliere finalmente i frutti del suo lunghissimo e pazientissimo lavoro. E a questa conclusione si giunge proprio nei giorni che segnano l’anniversario del congresso di Livorno.

Un anno fa apparve chiaramente ai comunisti quale fosse il reale indirizzo della vita politica italiana, e nonostante l’estrema difficoltà del momento, nonostante che il loro atto potesse sembrare, a una gran parte della classe operaia, avventato e prematuro, i comunisti non esitarono ad assumere una precisa posizione, scindendo la propria responsabilità e quindi, in ultima analisi, la responsabilità di tutto il proletariato italiano, dagli atti politici che ineluttabilmente dovevano essere compiuti dallo strato piccolo-borghese che in vent’anni di storia si era venuto costituendo e fortemente organizzando nel seno della classe operaia.

I cosiddetti massimalisti unitari, con quella ignoranza della storia sociale del loro paese che sempre li ha distinti, credettero invece che il tenere imprigionate in una formazione di partito verbalmente rivoluzionaria le tendenze collaborazioniste, fosse sufficiente per evitare che il fatto storico si compiesse. I massimalisti sostennero che una collaborazione preordinata e quotidianamente predicata, rappresentasse una manifestazione di volontarismo; essi si rifiutarono sempre, con una cocciutaggine da muli bendati, di riconoscere che tutta la storia italiana, per i suoi presupposti peculiari e per il modo con cui si era costituito lo Stato unitario, dovesse necessariamente condurre alla collaborazione.

Ma Giolitti conosceva meglio dei massimalisti la storia del movimento socialista italiano: egli sapeva, perché in gran parte egli stesso ne era stato il creatore, che il sistema delle cooperative e tutte le altre organizzazioni di resistenza, di previdenza e di produzione della classe operaia italiana non erano nate per uno sforzo autonomo della classe operaia stessa, non erano nate per un impulso di creazione originale e rivoluzionario, ma dipendevano da tutta una serie di compromessi in cui la forza del governo rappresentava la parte dominante. Ciò che il governo aveva creato, il governo poteva distruggere. Ciò che il governo aveva creato senza ufficialmente compromettere l’autorità statale, poteva essere dal governo distrutto con lo stesso metodo. Il fascismo divenne cosí lo strumento per ricattare il partito socialista, per determinare la scissione tra la piccola borghesia incrostata tenacemente agli interessi costituiti della classe operaia e il resto del partito socialista che si limitava a pascersi di formule ideologiche, poiché si era dimostrato incapace a condurre a termine lo sforzo rivoluzionario del proletariato. Ancora una volta l’economia ha prevalso sulle ideologie. Oggi i rappresentanti degli interessi costituiti, cioè delle cooperative, degli uffici di collocamento, delle affittanze collettive, dei comuni, delle casse di previdenza hanno, sebbene in minoranza nel partito, il sopravvento sugli oratori, sui giornalisti, sui professori, sugli avvocati che perseguono irraggiungibili e vacui piani ideologici.

In un anno, intensificando fino all’assurdo la politica dei compromessi, che è la politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, la borghesia è riuscita ad ottenere ciò che da venti anni pazientemente aveva preparato. Il grande partito socialista che nel 1919 sembrava essere l’unificatore di tutte le tendenze alla rivolta che covavano fin nei bassi strati della popolazione italiana, è completamente disgregato. Ne sono risultate due forze politiche, nessuna delle quali è in grado di dominare la situazione: da una parte la tendenza riformista, che verrà rapidamente incorporata nel seno della borghesia, dall’altra il partito comunista. Ma questi obiettivi risultati del congresso di Livorno non sono tali da scoraggiare i comunisti. Essi anzi sono forti appunto perché non rifiutano di guardare in faccia la situazione e di valutarla nei suoi reali rapporti di forza. Perché il proletariato potesse diventare una classe indipendente era necessario che si disgregasse l’edificio di falsa prepotenza economica costruito in venti anni di compromessi. Un crollo di tal genere non poteva mancare di avere conseguenze gravissime di indebolimento per lo stesso proletariato. I comunisti ebbero il coraggio di affrontare la situazione e di farla precipitare. Del resto se di questo coraggio avessero mancato, il crollo sarebbe avvenuto ugualmente e neppure l’attuale forza conservata dal proletariato si sarebbe salvata dallo sfacelo. È una premessa necessaria per la rivoluzione che anche in Italia avvenga la completa dissoluzione della democrazia parlamentare. Il proletariato diventa classe dominante e si pone a capo di tutte le forze rivoluzionarie del paese solo quando sperimentalmente, per una riprova della realtà storica, le tendenze collaborazioniste dimostrano di essere incapaci a risolvere la crisi economica e politica. I massimalisti non hanno voluto convincersi a Livorno di questa verità che scaturisce da tutta la dottrina marxista: essi hanno creduto di potere con la coercizione ideologica di una vuota disciplina di partito impedire che il processo storico si attuasse integralmente in tutti i suoi momenti e che un anello della catena potesse essere saltato. Sono stati puniti nel loro orgoglio miracolista. Per la mancanza di ogni capacità politica e di ogni comprensione della storia reale del popolo italiano, essi hanno raggiunto solo il miserabile successo di ritardare artificialmente un esperimento che a quest’ora sarebbe già stato liquidato dalle sue stesse risultanze, e quindi hanno ai dolori e alle sofferenze imposte alla classe operaia dall’oppressione capitalista aggiunto nuovi dolori e nuove sofferenze che avrebbero potuto essere risparmiate.

L’Ordine Nuovo, 15 gennaio 1922. Non firmato.