Giolitti al potere

Giolitti al potere rappresenterà essenzialmente l’angusto spirito di terrore e di vendetta che caratterizza la piccola borghesia nel momento attuale. Giolitti succederà a Nitti, ma esiste e può esistere una differenza sostanziale tra questi due uomini? Nessuno dei due rappresenta un partito, nessuno dei due rappresenta interessi diffusi in ragguardevoli strati della popolazione, organizzati politicamente ai fini di governo parlamentare: tanto Nitti che Giolitti devono la loro fortuna politica all’essersi fatti i promotori, con i mezzi del potere di Stato, degli interessi della plutocrazia. Il grado di sviluppo raggiunto da questa forma di organizzazione dell’apparecchio nazionale di produzione e di distribuzione ha proletarizzato in gran parte e tende sempre piú a proletarizzare le classi medie; la democrazia parlamentare perde le sue basi di appoggio, il paese non può essere piú governato costituzionalmente, non esiste e non potrà piú esistere una maggioranza parlamentare capace di esprimere un ministero forte e vitale, che abbia cioè il consenso dell’«opinione pubblica», che abbia il consenso del «paese», cioè delle classi medie. A tre riprese l’on. Nitti ha cercato di organizzare una qualsiasi base parlamentare ai suoi governi polizieschi che dovevano garantire i profitti dell’alta banca, che dovevano infrenare l’opposizione economica del proletariato al capitalismo, che dovevano armare forze sufficienti a comprimere e soffocare la sollevazione popolare che fermenta minacciosa e potrebbe esplodere da un momento all’altro; per tre volte l’on. Nitti ha fallito e i suoi tentativi, poiché hanno dimostrato l’impossibilità di governare politicamente la società italiana, hanno contribuito ad accelerare la disgregazione dello Stato, ad esasperarne gli intimi contrasti, ad accrescere l’avvilimento morale e la dissoluzione civile.

Il ritorno di Giolitti al potere, di questo vecchio che durante la guerra ha avuto paura, di questo uomo senza avvenire, senza previsioni del futuro a lunga scadenza, di questo vecchio che non può avere altra ambizione che di tenere fortemente in mano l’arma del potere di Stato per brandirla sulla testa dei suoi nemici; per farli tremare alla loro volta come egli ha tremato, per interrorirli come egli è stato interrorito — il ritorno di Giolitti al potere è l’avvento al potere dello spirito di terrore e di vendetta che caratterizza la piccola borghesia nel momento attuale. Questa classe che piú aveva sperato dalla guerra e dalla vittoria, ha piú perduto a causa della guerra e della vittoria; essa aveva creduto che la guerra veramente significasse prosperità, libertà, sicurezza della vita materiale, soddisfazione delle sue vanità nazionalistiche, aveva creduto che la guerra avrebbe significato tutti questi beni per il «paese», cioè per la propria classe. Ha invece tutto perduto, ha visto rovinare il suo castello del sogno, non ha piú libertà di scelta, è ridotta nella piú tormentosa miseria dal continuo aumento dei prezzi, ed è esasperata, furiosa, imbestialita: vuole vendicarsi, genericamente, incapace com’è di identificare le cause reali del marasma in cui è piombata la nazione. I fautori del ritorno di Giolitti al potere, gli scrittori della Stampa, in quanto partecipano di questa diffusa psicologia delle classi medie, ne hanno dato una efficacissima espressione letteraria e hanno cercato di presentarla come un programma di governo. I giolittiani sono gente che ricorda, sono gente che vuole ricordare, che non aspira ad altro che a frugare affannosamente nel passato; questa mania da vecchi senza avvenire, i giolittiani la chiamano arte di governo, la sola arte di governo che restaurerà il prestigio dello Stato, che ripristinerà il potere delle istituzioni. Anche da questo punto di vista il ritorno di Giolitti è un segno vistoso della decadenza delle classi dirigenti italiane, è un documento della scaduta capacità politica della casta governativa italiana. Era un assioma politico che ai governi borghesi conviene piú dimenticare che ricordare: il principio di prescrizione era diventato ragion di Stato; la mania moralisteggiante era posta in ridicolo e rappresentata come propria delle epoche di decadenza, dei paesi in dissolvimento. In Italia forse piú che in ogni altro paese il principio di prescrizione era diventato metodo di ordinaria amministrazione: l’Italia era il paese classico delle amnistie, degli indulti, delle grazie sovrane. Giolitti vuole vendicarsi; la piccola borghesia vuole vendicarsi; gli scrittori della Stampa solleticano e aizzano questo spirito di vendetta, che è espressione di timor panico, non di forza, che è creatore di marasma, non principio d’ordine. Cosí l’avvento di Giolitti al potere, di questo vecchiardo senza avvenire, di questo vecchiardo che vede solo il passato e non può fare previsioni a lunga scadenza nel futuro, di questo vecchiardo che ha avuto paura e vuole fare paura, cosí l’avvento di Giolitti al potere può essere veramente assunto a simbolo dello sfacimento della società italiana, del dissolversi delle classi dirigenti, della decadenza della cultura e dell’intelligenza della casta governativa italiana.

Gli scrittori della Stampa sperano di coinvolgere il proletariato in questa sarabanda di imbestialiti e di epilettici in preda al timor panico. Ma il proletariato ha una dottrina, il comunismo critico, che gli dà un orientamento, ha una concezione reale della storia che lo pone fuori da queste crisi di pazzia furiosa. Il proletariato sa che la guerra mondiale non fu un errore, ma una necessità dello sviluppo storico del capitalismo giunto alla fase imperialista, alla fase in cui le economie nazionali non possono piú sussistere, ma tendono a evadere dai limiti nazionali per organizzarsi internazionalmente, alla fase caratterizzata dai monopoli e dai trusts, alla fase in cui la banca diventa la forma dell’organizzazione dell’apparecchio nazionale di produzione e distribuzione. Il fallimento della guerra e della vittoria significa che questa organizzazione dell’economia non è possibile in regime di proprietà privata; in regime di proprietà privata, essa è uno spaventoso strumento di oppressione, di sfruttamento, di avvilimento della stragrande maggioranza della popolazione: pochi individui stabiliscono i piani di produzione e di distribuzione per il loro profitto, per il loro arricchimento individuale, pochi individui accentrano nelle loro mani i destini delle masse sterminate della popolazione lavoratrice e usano ogni mezzo di violenza e di frode per mantenere questo potere, per dominare questa fonte della loro ricchezza. Il proletariato non vuole, come i piccoli borghesi interroriti, distruggere questo apparecchio perfezionato dell’economia, vuole espropriarlo e socializzarlo, vuole svilupparlo ancor di piú e farne lo strumento della sua totale emancipazione, vuole con esso, emancipando sé, liberare anche tutte le altre classi oppresse, anche la piccola borghesia che oggi è diventata epilettica e aspira solo ad accumulare altre rovine sulle rovine, a determinare nuovo marasma nel marasma già esistente.

L’Ordine Nuovo, 12 giugno 1920. Non firmato.