Popolarità politica di D’Annunzio

Come si spiega la relativa popolarità «politica» di Gabriele D’Annunzio? È innegabile che in D’Annunzio sono sempre esistiti alcuni elementi di «popolarismo»: nei suoi discorsi come candidato al Parlamento, nel suo gesto nel Parlamento, nella tragedia La gloria, nel Fuoco (discorso su Venezia e l’artigianato), nel Canto di calendimaggio e giù giù fino alle manifestazioni (alcune almeno) politiche fiumane. Ma non mi pare che siano «concretamente» questi elementi di reale significato politico (vaghi, ma reali) a spiegare questa relativa popolarità. Altri elementi hanno concorso: 1) l’apoliticità fondamentale del popolo italiano (specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali), apoliticità irrequieta, riottosa, che permetteva ogni avventura, che dava a ogni avventuriero la possibilità di avere un seguito di qualche decina di migliaia di uomini, specialmente se la polizia lasciava fare o si opponeva solo debolmente e senza metodo; 2) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito politico di massa, che non esistevano cioè «direttive» storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3) la situazione del dopoguerra, in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché dopo quattro anni di guerra decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente «vagabondi», disancorati, avidi di sensazioni non piú imposte dalla disciplina statale, ma liberamente e volontariamente scelte a se stessi; 4) quistioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente: le donne di Fiume attiravano molto (e su questo elemento insiste stranamente anche Nino Daniele nel suo volumetto su D’Annunzio). Questi elementi sembrano inetti solo se non si pensa che i ventimila giovani raccoltisi a Fiume non rappresentavano una massa socialmente e territorialmente omogenea, ma erano «selezionati» da tutta Italia, ed erano delle origini piú diverse e disparate; molti erano giovanissimi e non avevano fatto la guerra ma avevano letto la letteratura di guerra e i romanzi di avventura. Tuttavia, al di sotto di queste motivazioni momentanee e d’occasione pare si debba anche porre un motivo piú profondo e permanente, legato a un carattere permanente del popolo italiano: l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, che corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. Per apprezzare questo nazionalismo bisogna pensare alla Scoperta dell’America di Pascarella: il Pascarella è l’«aedo» di questo nazionalismo e il suo canzonatorio è il piú degno di tale epopea. Questo sentimento è diversamente forte nelle varie parti d’Italia (è piú forte in Sicilia e nel Mezzogiorno), ma è diffuso da per tutto in una certa dose, anche a Milano e a Torino (a Torino certo meno che a Milano e altrove), è piú o meno ingenuo, piú o meno fanatico, anche piú o meno «nazionale» (si ha l’impressione, per esempio, che a Firenze sia piú regionale che altrove, e cosí a Napoli, dove è anche di carattere piú spontaneo e popolare in quanto i napoletani credono di essere piú intelligenti di tutti come massa e singoli individui; a Torino poche «glorie» letterarie e piú tradizione politico-nazionale, per la tradizione ininterrotta di indipendenza e libertà nazionale). D’Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: «apoliticità» fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili, dal piú sinistro al piú destro, e l’essere D’Annunzio ritenuto popolarmente l’uomo piú intelligente d’Italia.

Sono interessanti alcune pagine del volume Per l‘Italia degli italiani, «Bottega di poesia», Milano 1923. In un punto, D’Annunzio ricorda la sua tragedia La gloria e se ne richiama per la sua politica verso i contadini che devono «regnare» perché sono i «migliori». Concetti politici reali, neanche uno: frasi ed emozioni, ecc.

A proposito delle duemila lire date per gli affamati della carestia del 1921, cerca, in fondo, di farle dimenticare, presentando l’offerta come un tratto di politica «machiavellica»: avrebbe dato per ringraziare di aver liberato il mondo da un’illusione, ecc. Si potrebbe studiare la politica di D’Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè, per condurre le grandi masse all’«idea» nazionale o nazionalista imperialista).

 

Da Passato e presente, pp. 30-32.