L’esperienza dei metallurgici a favore dell’azione generale

Il conflitto nel quale si trova attualmente impegnato il proletariato metallurgico assurge, per asprezza e per estensione, al livello delle grandi lotte del passato. Il proletariato metallurgico è stato il primo, dopo l’armistizio, a conquistare le otto ore. Il proletariato metallurgico è stato anche il primo a conquistare all’operaio migliori condizioni di esistenza nell’officina ed il primo anche a subire l’urto iniziale dell’offensiva industriale. Dopo le giornate di settembre, abbassate le bandiere rosse dai camini delle officine, in queste erano rientrati i padroni e non certo con propositi di conciliazione con la classe operaia, che aveva tentato di espropriarli. Sarebbe stupido pretendere che i capitalisti creino agli operai facili condizioni per la loro lotta e non pensino a rinsaldare soprattutto il proprio potere, quando questo è minacciato dalle basi. Che cosa ora poteva accadere dopo settembre nelle officine? Doveva prevedersi: settembre non era stato per gli operai una vittoria, ma una sconfitta. Come in tutti gli eserciti che ripiegano, era compito dei dirigenti operai preparare la ritirata in modo che questa non si verificasse con disordine, non determinasse panico nelle file dei combattenti. Condotta con abilità, la ritirata doveva arrestarsi su una linea di difesa, alla cui fortificazione dovevano rivolgersi tutti gli sforzi nella retrovia. Invece dopo settembre la classe operaia è stata abbandonata a se stessa; si è trovata di fronte alle piú difficili situazioni senza una parola d’ordine precisa che le indicasse la via da seguire. La ritirata degli operai avvenuta inizialmente nel piú grande disordine non poteva non avere conseguenze funeste per la vita delle organizzazioni. Vennero infatti le prime lotte contro i licenziamenti. I metallurgici compresero che già fin da allora era necessario fermare la ritirata e resistere alla pressione del nemico. Subire i licenziamenti, come volevano gli industriali, significava prepararsi a breve scadenza ad una diminuzione di salari. La lotta appariva come una necessità urgente di difesa per tutto il proletariato. Senza volere qui indagare ancora ciò che abbiamo mille volte messo a nudo, ci accontentiamo di rilevare che gli operai metallurgici vennero lasciati soli a combattere e dovettero anche questa volta ripiegare. I licenziamenti furono fatti, ma i padroni non erano ancora contenti della forza riacquistata nell’officina. Essi volevano affermare in modo ancora piú brutale il loro potere e pensavano a nuove umiliazioni da infliggere alla classe operaia. Ed ecco giungere il turno dei salari. I metallurgici resistono: in molte parti incrociano le braccia, fermi e decisi a combattere.

Ma anche questa volta agli operai viene a mancare una parola d’ordine, sicché essi si trovano di nuovo slegati, incerti nella lotta. E gli industriali, abusando della loro forza, rompono i patti, attuano riduzioni di salario, violano anche le otto ore. Questa situazione non è stata però legalizzata da nessun concordato. Gli industriali si sentono sempre vincolati da un patto, anche se essi non lo rispettano piú. E perciò vogliono che l’organizzazione riconosca questo stato di fatto e danno battaglia per l’abolizione del carovita da includersi nei nuovi patti di lavoro. La lotta da sotterranea diventa palese, da tacita scoppia in tutta la sua crudezza. A questo punto l’organizzazione non può piú ignorare che sono avvenute delle riduzioni di salari e che gl’industriali dopo aver strappato i concordati vogliono rendere legittimo questo stato di fatto creato con la violenza. Per l’organizzazione il problema è uno solo: acconsentire o lottare? Un anno di esperienza del proletariato metallurgico, al quale si riannodano le sorti di tutte le altre categorie operaie, sta a dimostrare che oggi non è piú possibile rimandare la lotta. Gl’industriali non rispettano piú alcun concordato; essi agiscono secondo che si sentono forti. L’organizzazione non può nemmeno piú fare affidamento nei patti che essa stessa stipula con la parte padronale, se questa non diventa consapevole della sua forza. La lotta è il solo mezzo che resti agli operai ed all’organizzazione, per porre un termine alla ritirata di settembre. Ma la lotta non dev’essere intesa come lo sforzo di una categoria. La realtà di questi mesi ha mostrato come sia fallace la tattica di condurre a scaglioni gli operai alla lotta. I tessili, gli operai chimici, i metallurgici della Lombardia, della Liguria, della Venezia Giulia sanno cosa è costato loro l’aver lottato da soli contro la classe padronale. Nessuna propaganda per il fronte unico è stata migliore di quella fatta in questi ultimi mesi dalla realtà degli avvenimenti medesimi. Si sono rovesciati diversi ministeri, si è creduto di trovare un limite alle pretese industriali, nominando un’apposita commissione d’inchiesta, ma tutte le promesse, tutti i tentativi si sono risolti su questo terreno a danno degli operai. La realtà dunque ha persuaso il proletariato alla lotta generale. Sotto la spinta di questa convinzione, penetrata nella coscienza degli operai, anche i piú avversi al fronte unico hanno dovuto modificare il loro atteggiamento ed orientarsi, nolenti o volenti, verso l’azione di tutte le forze operaie, schierate su un unico campo di lotta. La medesima forza suggestiva dell’unità ha dato origine in Italia all’organismo dell’Alleanza del lavoro, in cui gli operai ripongono oggi tutte le loro speranze di lotta. L’Alleanza del lavoro è come la nuova fortezza, nella quali la classe operaia spera finalmente di trovare la ragione della sua sicurezza. Grande è perciò il compito dell’Alleanza del lavoro in questo momento decisivo per la vita del proletariato italiano. I metallurgici del Piemonte e della Lombardia chiedendo a fianco loro l’intervento dell’Alleanza del lavoro, non lo hanno fatto certamente a scopo di minaccia, per ottenere un atto di solidarietà molto vaga, ma nella ferma persuasione che solo combattendo sotto la bandiera dell’unità proletaria oggi è possibile fronteggiare l’offensiva padronale. Se ciò non intendono oggi coloro che hanno la responsabilità dell’estrema disfatta della classe operaia, questa ha ben diritto di chiedere domani conto ad essi, facendone espiare con il sangue le colpe di viltà e di tradimento.

Tutto oggi è a favore della lotta generale: l’esperienza del passato e la realtà presente; la volontà delle masse e le condizioni di vita in cui le vorrebbe spingere la classe padronale. Non intendere questo, opporsi anche oggi alla unità delle forze operaie, impedirne con vani compromessi la realizzazione, significa macchiarsi di un delitto che nella storia si paga di persona.

L’Ordine Nuovo, 23 maggio 1922. Non firmato.