Concordati e trattati internazionali

La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto una interferenza di sovranità in un solo territorio statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo degli Stati contrattanti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione (sia pure di una speciale determinata giurisdizione). Che poteri ha acquistato il Reich sulla Città del Vaticano in virtù del recente concordato? E ancora la fondazione della Città del Vaticano dà un’apparenza di legittimità alla finzione giuridica che il concordato sia un comune trattato internazionale bilaterale. Ma si stipulavano concordati anche prima che la Città del Vaticano esistesse, ciò che significa che il territorio non è essenziale per l’autorità pontificia (almeno da questo punto di vista). Un’apparenza, perché mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dell’altra parte: se limitazione esiste per quest’altra parte, essa si riferisce all’attività svolta nel territorio del primo Stato, sia da parte dei cittadini della Città del Vaticano, sia cittadini dell’altro Stato che si fanno rappresentare dalla Città del Vaticano. Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale. Non si tratta certo piú della stessa forma di sovranità supernazionale (suzeraineté), quale era formalmente riconosciuta al papa nel medioevo, fino alle monarchie assolute e in altra forma anche dopo, fino al 1848; ma ne è una derivazione necessaria di compromesso.

D’altronde, anche nei periodi piú splendidi del papato e del suo potere supernazionale, le cose non andarono sempre molto lisce: la supremazia papale, anche se riconosciuta giuridicamente, era contrastata di fatto in modo spesso molto aspro e, nell’ipotesi piú ottimistica, si riduceva ai privilegi politici, economici e fiscali dell’episcopato dei singoli paesi.

I concordati intaccano in modo essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene nel suo stesso territorio per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini. Lo Stato ottiene (e in questo caso occorrerebbe dire meglio il governo) che la Chiesa non intralci l’esercizio del potere, ma anzi lo favorisca e lo sostenga, cosí come una stampella sostiene un invalido. La Chiesa cioè si impegna verso una determinata forma di governo (che è determinata dall’esterno, come documenta lo stesso concordato) di promuovere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter ottenere con mezzi propri: ecco in che consiste la capitolazione dello Stato, perché di fatto esso accetta la tutela di una sovranità esteriore di cui praticamente riconosce la superiorità. La stessa parola «concordato» è sintomatica…

Gli articoli pubblicati nei Nuovi studi sul concordato sono tra i piú interessanti e si prestano piú facilmente alla confutazione. (Ricordare il «trattato» subito dalla repubblica democratica georgiana dopo la sconfitta del generale Denikin).

Ma anche nel mondo moderno, cosa significa praticamente la situazione creata in uno Stato dalle stipulazioni concordatarie? Significa il riconoscimento pubblico a una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è piú quella medioevale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto un monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell’educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato, poiché assicura alla casta posizioni e condizioni preliminari che con le sole sue forze, con l’intrinseca adesione della sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere e avere.

S’intende quindi la lotta sorda e sordida degli intellettuali laici e laicisti contro gli intellettuali di casta, per salvare la loro autonomia e la loro funzione. Ma è innegabile la loro intrinseca capitolazione e il loro distacco dallo Stato. Il carattere etico di uno Stato concreto, di un determinato Stato, è definito dalla sua legislazione in atto e non dalle polemiche dei franchi tiratori della cultura. Se questi affermano: «Lo Stato siamo noi», essi affermano solo che il cosí detto Stato unitario è solo appunto «cosí detto», perché di fatto nel suo seno esiste una scissione molto grave, tanto piú grave in quanto è affermata implicitamente dagli stessi legislatori e governanti i quali infatti dicono che lo Stato è nello stesso tempo due cose: quello delle leggi scritte e applicate e quello delle coscienze che intimamente non riconoscono quelle leggi come efficienti e cercano sordidamente di svuotarle (o almeno limitarle nell’applicazione) di contenuto etico. Si tratta di un machiavellismo da piccoli politicanti; i filosofi dell’idealismo attuale, specialmente della sezione pappagalli ammaestrati dei Nuovi studi, si possono dire le piú illustri vittime del machiavellismo. È utile da studiare la divisione del lavoro che si cerca di stabilire tra la casta e gli intellettuali laici: alla prima viene lasciata la formazione intellettuale e morale dei giovanissimi (scuole elementari e medie), agli altri lo sviluppo ulteriore del giovane nell’università. Ma la scuola universitaria non è sottoposta allo stesso regime di monopolio cui invece sottosta la scuola elementare e media. Esiste l’università del Sacro Cuore e potranno essere organizzate altre università cattoliche equiparate in tutto alle università statali. Le conseguenze sono ovvie: la scuola elementare e media è la scuola popolare e della piccola borghesia, strati sociali che sono monopolizzati educativamente dalla casta, poiché la maggioranza dei loro elementi non giungono all’università, cioè non conosceranno l’educazione moderna nella sua fase superiore critico-storica, ma solo conosceranno l’educazione dogmatica.

L’università è la scuola della classe (e del personale) dirigente in proprio, è il meccanismo attraverso il quale avviene la selezione degli individui delle altre classi da incorporare nel personale governativo, amministrativo, dirigente. Ma con l’esistenza a parità di condizioni di università cattoliche anche la formazione di questo personale non sarà piú unitaria e omogenea. Non solo: ma la casta, nelle università proprie, realizzerà una concentrazione di cultura laico-religiosa, quale da molti decenni non si vedeva piú e si troverà di fatto in condizioni molto migliori della concentrazione laico-statale. Non è infatti neanche lontanamente paragonabile l’efficienza della Chiesa, che sta tutta come un blocco a sostegno della propria università, con l’efficienza organizzativa della cultura laica. Se lo Stato (anche nel senso piú vasto di società civile) non si esprime in una organizzazione culturale secondo un piano centralizzato e non può neanche farlo, perché la sua legislazione in materia religiosa è quella che è, e la sua equivocità non può non essere favorevole alla Chiesa, data la massiccia struttura di questa e il peso relativo e assoluto che da tale struttura omogenea si esprime, e se i titoli dei due tipi di università sono equiparati, è evidente che si formerà la tendenza a che le università cattoliche siano esse il meccanismo selettivo degli elementi piú intelligenti e capaci delle classi inferiori da immettere nel personale dirigente.

Favoriranno questa tendenza: il fatto che non c’è discontinuità educativa tra le scuole medie e l’università cattolica, mentre tale discontinuità esiste per le università laico-statali; il fatto che la Chiesa, in tutta la sua struttura, è già attrezzata per questo lavoro di elaborazione e selezione dal basso. La Chiesa, da questo punto di vista, è un organismo perfettamente democratico (in senso paternalistico): il figlio di un contadino o di un artigiano, se intelligente e capace, e se duttile abbastanza per lasciarsi assimilare dalla struttura ecclesiastica e per sentirne il particolare spirito di corpo e di conservazione e la validità degli interessi presenti e futuri, può, teoricamente, diventare cardinale e papa. Se nell’alta gerarchia ecclesiastica l’origine democratica è meno frequente di quanto potrebbe essere, ciò avviene per ragioni complesse, in cui solo parzialmente incide la pressione delle grandi famiglie aristocratiche cattoliche o la ragione di Stato (internazionale); una ragione molto forte è questa: che molti seminari sono assai male attrezzati e non possono educare compiutamente il popolano intelligente, mentre il giovane aristocratico dal suo stesso ambiente familiare riceve senza sforzo di apprendimento una serie di attitudini e di qualità che sono di primo ordine per la carriera ecclesiastica: la tranquilla sicurezza della propria dignità e autorità, e l’arte di trattare e governare gli altri.

Una ragione di debolezza della Chiesa nel passato consisteva in ciò: che la religione dava scarse possibilità di carriera all’infuori della carriera ecclesiastica, il clero stesso era deteriorato qualitativamente dalle «scarse vocazioni», o dalle vocazioni di soli elementi intellettualmente subalterni. Questa crisi era già molto visibile prima della guerra; era un aspetto della crisi generale delle carriere a reddito fisso con organici lenti e pesanti, cioè dell’inquietudine sociale dello strato intellettuale subalterno (maestri, insegnanti medi, preti, ecc.) in cui operava la concorrenza delle professioni legate allo sviluppo dell’industria e dell’organizzazione privata capitalistica in generale (giornalismo, per esempio, che assorbe molti insegnanti, ecc.). Era già incominciata l’invasione delle scuole magistrali e delle università da parte delle donne e con le donne dei preti, ai quali la Curia (dopo le leggi Credaro) non poteva proibire di procurarsi un titolo pubblico che permettesse di concorrere anche a impieghi di Stato e aumentare cosí la «finanza» individuale. Molti di questi preti, appena ottenuto il titolo pubblico, abbandonarono la Chiesa (durante la guerra, per la mobilitazione e il contatto con ambienti di vita meno soffocanti e angusti di quelli ecclesiastici, questo fenomeno acquistò una certa ampiezza).

L’organizzazione ecclesiastica subiva dunque una crisi costituzionale che poteva essere fatale alla sua potenza, se lo Stato avesse mantenuto integra la sua posizione di laicità, anche senza bisogno di una lotta attiva. Nella lotta tra le forme di vita, la Chiesa stava per perire automaticamente, per esaurimento proprio. Lo Stato salvò la Chiesa.

Le condizioni economiche del clero furono migliorate a piú riprese, mentre il tenore della vita generale, ma specialmente dei ceti medi, peggiorava. Il miglioramento è stato tale che le «vocazioni» si sono meravigliosamente moltiplicate, impressionando lo stesso pontefice, che le spiegava appunto con la nuova situazione economica. La base della scelta degli idonei al clericato è stata quindi ampliata, permettendo piú rigore e maggiori esigenze culturali. Ma la carriera ecclesiastica, se è il fondamento piú solido della potenza vaticana, non esaurisce le sue possibilità. La nuova struttura scolastica permette l’immissione nel personale dirigente laico di cellule cattoliche che andranno sempre piú rafforzandosi, di elementi che dovranno la loro posizione solamente alla Chiesa. È da pensare che l’infiltrazione clericale nella compagine dello Stato sia per aumentare progressivamente, poiché nell’arte di selezionare gli individui e di tenerli permanentemente a sé legati la Chiesa è quasi imbattibile. Controllando i licei e le altre scuole medie, attraverso i suoi fiduciari, essa seguirà, con la tenacia che le è caratteristica, i giovani piú valenti delle classi povere e li aiuterà a proseguire gli studi nelle università cattoliche. Borse di studio, sussidiate da convitti, organizzati con la massima economia, accanto alle università, permetteranno questa azione.

La Chiesa, nella sua fase odierna, con l’impulso dato dall’attuale pontefice all’Azione cattolica, non può accontentarsi solo di creare preti, essa vuole permeare lo Stato (ricordare la teoria del governo indiretto elaborata dal Bellarmino) e per ciò sono necessari i laici, è necessaria una con-centrazione di cultura cattolica rappresentata da laici. Molte personalità possono diventare ausiliari della Chiesa piú preziosi come professori d’università, come alti funzionari dell’amministrazione, ecc., che come cardinali o vescovi.

Allargata la base di scelta delle «vocazioni», una tale attività laico-culturale ha grandi possibilità di estendersi. La università del Sacro Cuore e il centro neoscolastico sono solo le prime cellule di questo lavoro. È intanto stato sintomatico il congresso filosofico del 1929: vi si scontrarono idealisti attuali e neoscolastici e questi parteciparono al congresso animati da spirito battagliero di conquista. Il gruppo neoscolastico, dopo il concordato, voleva appunto apparire battagliero, sicuro di sé per interessare i giovani. Occorre tener conto che una delle forze dei cattolici consiste in ciò, che essi s’infischiano delle «confutazioni perentorie» dei loro avversari non cattolici: la tesi confutata essi la riprendono imperturbati e come se nulla fosse. Il «disinteresse» intellettuale, la lealtà e onestà scientifica, essi non le capiscono o le capiscono come debolezza e dabbenaggine degli altri. Essi contano sulla potenza della loro organizzazione mondiale che si impone come fosse una prova di verità, e sul fatto che la grande maggioranza della popolazione non è ancora «moderna», è ancora tolemaica come concezione del mondo e della scienza.

Se lo Stato rinunzia a essere centro attivo e permanentemente attivo di una cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare sostanzialmente. Ma lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa che abbia la capacità di limitarne il dominio spirituale sulle moltitudini. Si può prevedere che le conseguenze di una tale situazione di fatto, restando immutato il quadro generale delle circostanze, possono essere della massima importanza.

La Chiesa è uno Shylok anche piú implacabile dello Shylok shakespeariano: essa vorrà la sua libbra di carne, anche a costo di dissanguare la sua vittima e con tenacia mutando continuamente i suoi metodi, tenderà a raggiungere il suo programma massimo. Secondo l’espressione di Disraeli: «I cristiani sono gli ebrei piú intelligenti, che hanno capito come occorreva fare per conquistare il mondo».

La Chiesa non può essere ridotta alla sua forza «normale» con la confutazione in sede filosofica dei suoi postulati teorici e con le affermazioni platoniche di una autonomia statale (che non sia militante); ma solo con l’azione pratica quotidiana, con l’esaltazione delle forze umane creatrici in tutta l’area sociale.

Un aspetto della quistione che occorre ben valutare è quello delle possibilità finanziarie del Centro vaticano. L’organizzazione sempre piú in sviluppo del cattolicismo negli Stati Uniti dà la possibilità di raccogliere fondi molto vistosi, oltre alle rendite normali ormai assicurate (che però dal 1937 diminuiranno di 15 milioni all’anno per la conversione del debito pubblico dal 5% al 3,50%) e all’obolo di san Pietro. Potrebbero nascere quistioni internazionali a proposito dell’intervento della Chiesa negli affari interni dei singoli paesi, con lo Stato che sussidia permanentemente la Chiesa? La quistione è elegante, come si dice. La quistione finanziaria rende molto interessante il problema della cosí detta indissolubilità tra trattato e concordato proclamata dal pontefice. Ammesso che il papa si trovasse nella necessità di ricorrere a questo mezzo politico di pressione sullo Stato, non si porrebbe subito il problema della restituzione delle somme riscosse (che sono legate appunto al trattato e non al concordato)? Ma esse sono cosí ingenti ed è pensabile che saranno state spese in gran parte nei primi anni, che la loro restituzione può ritenersi praticamente impossibile. Nessuno Stato potrebbe fare un cosí gran prestito al pontefice per trarlo d’imbarazzo, e tanto meno un privato o una banca. La denunzia del trattato scatenerebbe una tale crisi nella organizzazione pratica della Chiesa, che la solvibilità di questa, sia pure a grande scadenza, sarebbe annientata. La convenzione finanziaria annessa al trattato deve essere pertanto considerata come la parte essenziale del trattato stesso, come la garanzia di una quasi impossibilità di denunzia del trattato, prospettata per ragioni polemiche e di pressione politica.

Brano di lettera di Leone XIII a Francesco Giuseppe: «E non taceremo, che in mezzo a tali impacci Ci manca pure il modo di sopperire del proprio alle incessanti e molteplici esigenze materiali, inerenti al governo della Chiesa. Vero è che ne vengono in soccorso le offerte spontanee della carità; ma Ci sta sempre innanzi con rammarico il pensiero che esse tornano di aggravio ai Nostri figli, e d’altra parte non si deve pretendere che inesauribile sia lo carità pubblica». «Del proprio» significa: «riscosse con imposte» dai cittadini di uno Stato pontificio, per i cui sacrifizi non si prova rammarico, a quanto pare; sembra naturale che le popolazioni italiane paghino le spese della Chiesa universale.

Nel conflitto tra Bismarck e la Santa Sede si possono trovare gli spunti dì una serie di quistioni che potrebbero essere sollevate per il fatto che il Vaticano ha la sede in Italia ed ha determinati rapporti con lo Stato italiano. Bismarck «fece lanciare dai suoi giuristi — scrive il Salata, op. cit., p. 271 — la teoria della responsabilità dello Stato italiano per i fatti politici del papa, che l’Italia aveva costituito in tale condizione di invulnerabilità e irresponsabilità per danni ed offese recati dal pontefice ad altri Stati».

Da Note sul Machiavelli, pp. 327-336.