L’unità nazionale

La borghesia italiana è nata e si è sviluppata affermando e realizzando il principio dell’unità nazionale. Poiché l’unità nazionale ha rappresentato nella storia italiana, come nella storia degli altri paesi, la forma di una organizzazione tecnicamente piú perfetta dell’apparato mercantile di produzione e di scambio, la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana.

Oggi, per gli intimi, insanabili conflitti creati dalla guerra nella sua compagine, la borghesia tende a disgregare la nazione, a sabotare e a distruggere l’apparato economico cosí pazientemente costruito.

Gabriele D’Annunzio, servo smesso della massoneria anglo-francese, si ribella ai suoi vecchi burattinai, racimola una compagnia di ventura, occupa Fiume, se ne dichiara «padrone assoluto» e costituisce un governo provvisorio. Il gesto di D’Annunzio aveva inizialmente un mero valore letterario: D’Annunzio preparava e viveva gli argomenti di un futuro poema epico, di un futuro romanzo di psicologia sessuale e di una futura collezione di «Bollettini di guerra» del comandante Gabriele D’Annunzio.

Niente di straordinario e di mostruoso nell’avventura letteraria di Gabriele D’Annunzio: è possibile che in una classe, sana politicamente e spiritualmente perché coesa e organizzata economicamente, esistano dei singoli, pazzi politicamente perché dissestati, perché non inscritti in una realtà economica concreta.

Ma il colonnello D’Annunzio trova dei seguaci, ottiene che una parte della classe borghese assuma una forma imperniando la sua attività nel gesto di Fiume. Il governo di Fiume viene contrapposto al governo centrale, la disciplina armata al potere del governo di Fiume viene contrapposta alla disciplina legale del governo di Roma.

Il gesto letterario diventa un fenomeno sociale. Come in Russia i governi di Omsk, di Ekaterinodar, di Arcangelo ecc., in Italia il governo di Fiume viene assunto come la base di una riorganizzazione dello Stato, come l’energia sana, che rappresenta il «vero» popolo, la «vera» volontà, i «veri» interessi, la quale deve scacciare dalla capitale gli usurpatori. D’Annunzio sta a Nitti come Kornilov a Kerenskij. Il gesto letterario ha scatenato in Italia la guerra civile.

La guerra civile è stata scatenata proprio dalla classe borghese che tanto la depreca, a parole. Perché guerra civile significa appunto urto dei due poteri che si disputano a mano armata il governo dello Stato, urto che si verifica, non in campo aperto tra due eserciti ben distinti, schierati regolarmente, ma nel seno stesso della società, come scontro di gruppi raccogliticci, come molteplicità caotica di conflitti armati in cui non è possibile, alla grande massa di cittadini, orizzontarsi, in cui la sicurezza individuale e dei beni sparisce e le succede il terrore, il disordine, l’«anarchia». In Italia, come in tutti gli altri paesi, come in Russia, come in Baviera, come in Ungheria, è la classe borghese che ha scatenato la guerra civile, che immerge la nazione nel disordine, nel terrore, nell’«anarchia». La rivoluzione comunista, la dittatura del proletariato sono state, in Russia, in Baviera, in Ungheria e saranno in Italia, il tentativo supremo delle energie sane del paese per arrestare la dissoluzione, per ripristinare la disciplina e l’ordine, per impedire che la società si inabissi nella barbarie bestiale inerente alla fame determinata dalla cessazione del lavoro utile durante il periodo del terrorismo borghese.

Poiché ciò è successo, poiché il gesto letterario ha dato inizio alla guerra civile, poiché l’avventura dannunziana ha rivelato e dato forma politica a uno stato di coscienza diffuso e profondo, se ne conclude che la borghesia è morta come classe, che il cemento economico che la rendeva coesa è stato corroso e distrutto dai trionfanti antagonismi di casta, di gruppo, di ceto, di regione; se ne conclude che lo Stato parlamentare non riesce piú a dare forma concreta alla realtà obbiettiva della vita economica e sociale dell’Italia.

E l’unità nazionale, che si riassumeva in questa forma, scricchiola sinistramente. Chi si meraviglierebbe leggendo domani la notizia che a Cagliari, a Sassari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, a Venezia, ad Ancona… un generale, un colonnello o anche un semplice tenente degli arditi è riuscito a far ammutinare dei reparti di truppa, ha dichiarato di aderire al governo di Fiume e ha decretato che i cittadini della sua giurisdizione non devono piú pagare le imposte al governo di Roma?

Oggi lo Stato centrale, il governo di Roma, rappresenta i debiti di guerra, rappresenta la servitù verso la finanza internazionale, rappresenta una passività di cento miliardi. Ecco il reagente che corrode l’unità nazionale e la compagine della classe borghese; ecco la causa sotterranea che illumina il fatto del come ogni atto di indisciplina «borghese», di indisciplina nell’ambito della proprietà privata, di insurrezione «reazionaria» contro il governo centrale trovi aderenze, simpatie, giornali, quattrini. Se un tenente degli arditi fonda un governo a Cagliari, a Messina, a Cosenza, a Taranto, ad Aosta, ad Ancona, a Udine, contro il governo centrale, egli diventa il perno di tutte le diffidenze, di tutti gli egoismi dei ceti proprietari del luogo, egli trova simpatie, adesioni, quattrini, perché questi proprietari odiano lo Stato centrale, vorrebbero esonerarsi dal pagamento delle imposte che lo Stato centrale dovrà imporre per pagare le spese di guerra.

I governi locali, dissidenti sulla questione di Fiume, diventeranno l’organizzazione di questi antagonismi irriducibili; essi tenderanno a mantenersi, a creare Stati permanenti, come è avvenuto nell’ex impero russo e nella monarchia austro-ungarica. I proprietari di Sardegna, di Sicilia, di Valdaosta, del Friuli, ecc. dimostreranno che i popoli sardo, siciliano, valdostano, friulano ecc. non sono italiani, che già da tempo aspiravano all’indipendenza, che l’opera di italianizzazione forzata che il governo di Roma ha condotto, con l’insegnamento obbligatorio della lingua italiana, è fallita, e manderanno memoriali a Wilson, a Clemenceau, a Lloyd George… e non pagheranno le imposte.

In tali condizioni è stata ridotta la nazione italiana dalla classe borghese, che in ogni sua attività tende solo ad accumulare profitto. L’Italia è psicologicamente nelle stesse condizioni di prima del ’59: ma non è piú la classe borghese che oggi ha interessi unitari in economia e in politica. Storicamente la classe borghese italiana è già morta, schiacciata da una passività di cento miliardi, disciolta dagli acidi corrosivi dei suoi interni dissidi, dei suoi inguaribili antagonismi. Oggi la classe «nazionale» è il proletariato, è la moltitudine degli operai e contadini, dei lavoratori italiani, che non possono permettere il disgregamento della nazione, perché la unità dello Stato è la forma dell’organismo di produzione e di scambio costruito dal lavoro italiano, è il patrimonio di ricchezza sociale che i proletari vogliono portare nell’Internazionale comunista. Solo lo Stato proletario, la dittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione della unità nazionale, perché è l’unico potere reale che possa costringere i borghesi faziosi a non turbare l’ordine pubblico, imponendo loro di lavorare, se vogliono mangiare.

L’Ordine nuovo, 4 ottobre 1919. Non firmato.