Curzio Malaparte

Il suo vero nome è Kurt Erich Suckert, italianizzato verso il 1924 in Malaparte, per un bisticcio con i Buonaparte.

Nel primo dopoguerra sfoggiò il nome straniero. Appartenne all’organizzazione di Guglielmo Lucidi, che arieggiava al gruppo francese di Clarté di Henri Barbusse e al gruppo inglese del Controllo democratico; nella collezione della rivista del Lucidi intitolata Rassegna (o Rivista) internazionale pubblicò un libro di guerra, La rivolta dei santi maledetti. una esaltazione del presunto atteggiamento disfattista dei soldati italiani a Caporetto, brescianamente corretta in senso contrario nella edizione successiva e quindi ritirata dal commercio.

Il carattere prevalente del Suckert è uno sfrenato arrivismo, una smisurata vanità e uno snobismo camaleontesco: per aver successo il Suckert era capace di ogni scelleraggine. Suoi libri sull’Italia barbara e sua esaltazione della Controriforma: niente di serio e di meno che superficiale.

A proposito dell’esibizione del nome straniero (che a un certo punto cozzava con gli accenni a un razzismo e popolarismo di princisbecco e fu perciò sostituito dallo pseudonimo, in cui Kurt [Corrado] viene latinizzato in Curzio) è da notare una corrente abbastanza diffusa in certi intellettuali italiani del tipo «moralisti» o moralizzatori: essi erano portati a ritenere che all’estero si era piú onesti, piú capaci, piú intelligenti che in Italia. Questa «esteromania» assumeva forme tediose e talvolta repugnanti in tipi invertebrati come il Graziadei, ma era piú diffusa che non si creda e dava luogo a pose snobistiche rivoltanti; è da ricordare il breve colloquio con Giuseppe Prezzolini a Roma nel 1924 e la sua esclamazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese!» o qualcosa di simile. Tale stato d’animo pare non sia stato caratteristico solo di alcuni gruppi intellettuali italiani, ma si sia verificato, in certe epoche di avvilimento morale, anche in altri paesi. In ogni modo è un segno rilevante di assenza di spirito nazionale-popolare, oltre che di stupidaggine. Si confonde tutto un popolo con alcuni strati corrotti di esso, specialmente della piccola borghesia (in realtà poi questi signori, essi stessi, appartengono essenzialmente a questi strati) che nei paesi essenzialmente agricoli, arretrati civilmente e poveri, è molto diffusa e può paragonarsi al Lumpenproletariat delle città industriali; la camorra e la, «mafia» non è altro che una simile forma di malavita, che vive parassitariamente sui grandi proprietari e sul contadiname. I moralizzatori cadono nel pessimismo piú scempio, perché le loro prediche lasciano il tempo che trovano; i tipi come Prezzolini, invece di concludere alla propria inettitudine organica, trovano piú comodo giungere alla conclusione della inferiorità di un intero popolo, per cui non rimane altro che accomodarsi: «Viva Franza, viva Spagna, purché se magna!». Questi uomini, anche se talvolta mostrano un nazionalismo dei piú spinti, dovrebbero essere segnati dalla polizia tra gli elementi capaci di far la spia contro il proprio paese.

Vedi nell’Italia letteraria del 3 gennaio 1932 l’articolo di Malaparte: Analisi cinica dell’Europa. Negli ultimi giorni del 1931, nei locali dell’École de la paix a Parigi, l’ex presidente Herriot tenne un discorso sui mezzi migliori per organizzare la pace europea. Dopo Herriot parlò il Malaparte in contraddittorio: «” Siccome anche voi, sotto certi aspetti [sic] siete un rivoluzionario — dissi tra l’altro a Herriot — [scrive Malaparte nel suo articolo] penso che siate in grado di capire che il problema della pace dovrebbe essere considerato non solo dal punto di vista del pacifismo accademico, ma anche da un punto di vista rivoluzionario. Soltanto lo spirito patriottico e lo spirito rivoluzionario (se è vero, come è vero, ad esempio, nel fascismo, che l’uno non esclude l’altro) possono suggerire i mezzi di assicurare la pace europea. ” ” Io non sono un rivoluzionario — mi rispose Herriot — sono semplicemente un cartesiano. Ma voi, caro Malaparte, non siete che un patriota “».

Cosí, per Malaparte, anche Herriot è un rivoluzionario, almeno per certi aspetti, e allora diventa ancor piú difficile comprendere cosa significa «rivoluzionario» e per Malaparte e in generale. Se nel linguaggio comune di certi gruppi politici «rivoluzionario» stava assumendo sempre piú il significato di «attivista», di interventista, di volontarista, di «dinamico», è difficile dire come Herriot possa esserne qualificato e perciò Herriot con spirito ha risposto di essere un «cartesiano». Per Malaparte pare possa intendersi che «rivoluzionario» è diventato un complimento, come una volta «gentiluomo» o «grande galantuomo» o «vero gentiluomo», ecc. Anche questo è brescianesimo: dopo il ’48 i gesuiti chiamavano se stessi «veri liberali» e i liberali, libertini e demagoghi.

Vedi l’articolo di Curzio Malaparte, Una specie di accademia, nella Fiera letteraria del 3 giugno 1928: il Lavoro d’Italia avrebbe pagato 150.000 lire il romanzo Lo zar non è morto, scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il “romanzo dei Dieci” i tesserati della confederazione, in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150.000 lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano oltre i nomi del presidente e del segretario generale del “raduno” quelli del segretario nazionale e di due membri del direttorio del sindacato autori e scrittori!… Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al segretario del PNF. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei sindacati all’ora del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile.

Nell’articolo c’è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora sottosegretario all’Istruzione pubblica e contro Fedele, ministro. Nella Fiera letteraria del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un secondo articolo, Coda di un’accademia, in cui rincara sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del sindacato scrittori e che fece ridere mezzo mondo.)

Da Letteratura e vita nazionale, pp. 214-217.