Il partito popolare

 Il travaglio al quale la preparazione politica elettorale sottopone il partito popolare è degno di essere seguito con un po’ di serietà e esaminato con attenzione superiore a quella che gli prestano non soltanto gli organi del fascismo, ma anche quelli delle altre correnti politiche italiane. Si è presa l’abitudine di considerare le frazioni in cui il partito popolare si divide in un modo molto meccanico, all’infuori di ogni esame delle forze reali a cui queste correnti fanno capo. E invece quello del partito popolare è proprio il caso in cui le espressioni «destra, sinistra e centro» non significano nulla per sé, ma acquistano un significato solo in relazione con la struttura dei gruppi sociali che nell’organismo unitario del partito si sono per un certo tempo confusi. Il problema che noi riteniamo si debba porre non è quello della prevalenza della destra o della sinistra, ma quello di vedere se la preparazione politica delle elezioni potrà offrire l’occasione a questi diversi gruppi sociali di trovare ognuno la propria definizione e la propria strada.

Il fascismo considera un suo grande successo l’aver ottenuto il distacco dal tronco unitario del partito di un gruppo di «estrema destra». Si può discutere però se esso abbia ragione. Il «gruppo di estrema destra» è il gruppo dei vecchi cattolici reazionari: aristocrazia nera, proprietari di terre, già legati non tanto al rispetto della Costituzione dello Stato italiano quanto alla conservazione dell’ordine sociale esistente. Che si tratti di gruppi costituzionali, nel senso stretto della parola, lo dimostra il fatto che essi furono l’anima dell’opposizione clericale allo Stato italiano nei primi decenni della sua vita e che allo Stato italiano si ricollegarono solo quando parve e fu necessario sostenerlo per evitare la riscossa degli operai e dei contadini contro di esso. Ma Giolitti, il tipico uomo di Stato conservatore italiano, aveva risolto il problema di legare a sé questi gruppi in modo ben piú brillante di quello che ha fatto oggi il fascismo. La sua soluzione permetteva ai cattolici reazionari di mantenere le aderenze di massa che ad essi offriva l’apparato democratico della Chiesa, di sfruttare questo apparato nel periodo elettorale per la lotta contro i partiti di classe e di trasformare le forze cosí raccolte in sostegno permanente dello Stato. Il «patto Gentiloni» fu la schematizzazione evidente di questo sistema.

Fino a che la estrema destra reazionaria rimaneva nel seno del partito popolare era sempre aperta la via a una soluzione di questo genere. La sua uscita e la sua costituzione in gruppo politico autonomo può darsi sia stato un successo parlamentare contro l’autoritarismo di don Sturzo, ma ha posto il problema del partito popolare e soprattutto delle masse che vi aderiscono in modo ben diverso di prima.

Nel partito popolare vi è sempre una «destra», e noi comprendiamo in questa destra anche il cosiddetto «centro». È una destra di professionisti, di borghesi medi e piccoli, la quale ha nel dopoguerra esercitato verso le masse popolari una funzione analoga a quella che i reazionari cattolici esercitavano verso le masse aderenti ad essi attraverso l’organizzazione della Chiesa. Essa ha fatto accettare a queste masse un programma «riformista» nei confronti dello Stato italiano, cioè ha fatto credere che il soddisfacimento dei loro bisogni di liberazione economica e politica si potesse ottenere senza spezzare la macchina dello Stato, senza sostituire a uno Stato borghese, sedicente liberale, uno Stato degli operai e dei contadini, senza porre agli operai e ai contadini il problema della conquista del potere, politico. Questo gruppo è certamente responsabile della sconfitta di cui i contadini [popolari] subiscono oggi le conseguenze tanto quanto i contadini socialisti; e il suo disagio politico diventa di giorno in giorno piú grande, perché di giorno in giorno i contadini stessi si stanno convincendo che oggi un programma «riformista» non ha piú nessun significato. Il fascismo tende a dare alla dittatura di classe della borghesia una stabilità e una permanenza che derivano dalla trasformazione aperta dello Stato sedicente liberale di un tempo in organo e forma di questa dittatura. Chiunque ha un interesse economico di classe da difendere trova davanti a sé sbarrata la via inesorabilmente. Ogni contadino popolare per ciò deve oggi concludere quello che noi concludiamo: che nessuna conquista è possibile, se non come conseguenza di una lotta che si proponga di togliere di mezzo l’ostacolo unico della dittatura del fascismo. Il gruppo borghese che ha inquadrato e politicamente diretto la massa popolare nel dopoguerra viene in questo modo ad aver esaurita la propria funzione. Il contrasto tra la sua mentalità e il suo programma e la mentalità e il programma delle masse che ancora seguono il partito è destinato a diventare sempre piú profondo, via via che il fascismo procede nel suo cammino, e l’approfondimento non potrà non avvenire nella direzione da noi indicata.

La vera crisi del partito popolare sta qui. A capo di essa vi è un gruppo il quale non è piú in grado di comprendere e risolvere il problema delle masse che lo seguono. Vi è anche la sinistra, ma forse valgono per essa le stesse cose che abbiamo dette della destra. L’unica manifestazione politica della sinistra è stata la proposta di astenersi dalle elezioni, cioè una proposta che è l’indizio di mentalità esclusivamente parlamentaristica, contraria a quella che dovrebbe essere propria di un partito di masse.

Il partito popolare continua invece a essere un partito di massa e non può prescindere dalla vita che queste masse conducono e dalla mentalità che in esse si crea. È inevitabile che il suo atteggiamento di opposizione al fascismo appaia alla massa in un momento ben diverso di quello che pensano i capi, appaia come l’indizio di intenzione di lotta che nei capi non esiste; ed è inevitabile che il dissidio debba finire per portare a crisi ben piú profonde delle attuali. Una soluzione chiarificatrice si avrà solo quando nel seno stesso del partito vi sarà un gruppo che avrà il coraggio di riconoscere che il programma «riformista» degli anni passati non ha piú nessun valore oggi, e che se è vero che le masse hanno oggi bisogno di legalità e di libertà per riprendere e sviluppare le loro conquiste economiche, è pur vero che libertà e legalità oggi si acquistano solo abbattendo la dittatura del fascismo. Anche per i popolari, o almeno per quelli che operano nell’interesse delle masse che li sostengono, il programma «riformista» deve risolversi in un programma di lotta, e di lotta non per conquiste e rivendicazioni personali.

L’Unità, 22 febbraio 1924. Non firmato.