Gioda o del romanticismo

Ho letto il piú recente brano di prosa di Mario Gioda, la lettera aperta che Mario Gioda, unico animatore e duce del fascismo torinese, dopo la dipartita di Cesare Maria De Vecchi, ha inviato al comm. Fragola, direttore del grande quotidiano Piemonte. Ho letto e ho gustato. Ho letto, assaporandole voluttuosamente, parole e frasi che non leggevo piú da anni e anni (quanto tempo è passato!): «Un botoletto ringhioso e sdentato», «La palta anonimamente lanciata ricade sul gru-gno…» del botoletto, «Fognose rodomontate pennaiole»…

Mario Gioda, Gioda Mario, Paolo Valera, l’amico di Vautrin, Ulisse Barbieri, sangue, sangue, sangue, quarti di disfattista appesi ai ganci delle pubbliche macellerie, uno sputo di Francesco Barberis sulla piattaforma del tramvai, il quarto moschettiere, l’uomo che si risveglia da un sonnellino con un baffo piegato alla Guglielmo, Mario Gioda, Gioda Mario…

Mario Gioda è un microcosmo. La vita degli uomini e delle cose, la storia dei popoli e della natura hanno avuto un solo fine: creare Mario Gioda. L’intelligenza di quest’uomo è un filtro portentoso che trattiene tutta la polvere d’oro della corrente universale della vita e della storia. Ma ogni uomo, e per forza maggiore ogni creatura eletta, ha il suo grano di follia, ha la sua debolezza; Mario Gioda mette mano alla spada del moschettiere, mette mano allo spiedo del cacciatore di Ossian, mette mano alla livida lama del vagabondo che esce sempre fuori dalle fogne dei bassifondi sociali, e squarta, buca pancini, appende ai ganci della sua fantastica macelleria le membra sanguinolenti dei nemici, se i nemici gli ricordano che egli è stato impiegato in una azienda la cui modernità rifugge da ogni romanticismo di merciaioli ambulanti.

Si dice — ogni intenditore profondo, ogni attento scrutatore del fascismo ripete — che il fascismo sia un movimento romantico, che il fascismo sia addirittura il romanticismo italiano. Pur essendo persuaso che il fascismo sia un movimento sociale, cioè politico-economico, che in Italia si è verificato e ha potuto trionfare per una congiuntura storica eccezionale, non mi sento di rigettare questa profonda visione sintetica del fascismo. L’ambiente in cui i singoli fascisti si sono formati, l’ideologia di cui si sono abbondantemente nutricati, possono essere chiamati romanticismo; ma parlo dei fascisti come Mario Gioda, non come Cesare Maria De Vecchi, come Massimo Rocca, come Cesare Forni, dei fascisti del vecchio mussolinismo, dei fascisti che erano anarchici, sindacalisti, socialisti rivoluzionari fino all’agosto 1914, che sono diventati interventisti per la guerra rivoluzionaria, che sono diventati fascisti della prima ora, ecc., ecc., non dei fascisti d’origine agraria, che poi hanno conquistato il fascismo e non lo vogliono mollare a nessun costo. Massimo Rocca era impiegato di casa Sonzogno, ha tradotto, ha collaborato alla diffusione di migliaia e decine di migliaia di romanzi di Ponson du Terrail, di Ettore Malot, di Enrico Richebourg, di Eugenio Sue. Mario Gioda era l’«Amico di Vautrin» della Folla di Paolo Valera, era il discepolo piú geniale e promettente di Paolo Valera, deve avere ancora nel cassetto un grosso romanzo sui bassifondi di Torino, un romanzo come I misteri di Parigi di E. Sue, un romanzo in cui, col metodo estentivo di Carolina Invernizio, una pacifica città provinciale di onesti lavoratori, di pacifici piccolo-borghesi pensionati dello Stato, diventa una sentina di vizi, un acquario di serpente di mare, una corte dei miracoli di tutti i mostri sociali. Ecco il romanticismo, ecco l’ambiente romantico in cui si è formata l’anima fascista. Perché il romanzo d’appendice, tipo casa Sonzogno, era cosí popolare in Italia prima della guerra? Perché Il secolo è stato il giornale piú diffuso? Perché Carolina Invernizio è stata la romanziera (e il romanziere) piú letta? Perché ha ancora tanta fortuna il teatro di Dario Niccodemi? Perché il sovversivismo italiano era prima della guerra prevalentemente «criminalista» e pareva fine della rivoluzione quello di riformare le prigioni e i manicomi? Perché il piú grande sforzo teorico e oratorio di Filippo Turati è stato rivolto ad ottenere il voto alle prostitute, con estrema eleganza chiamate «salariate dell’amore»? Il romanzo d’appendice, l’ideologia per cui è nato ed ha avuto enorme fortuna il romanzo d’appendice, è il romanticismo. Victor Hugo è stato un grande romantico e il piú grande scrittore di romanzi d’appendice: Scampolo è la sorella di Gavroche; Mario Gioda, Massimo Rocca sono diventati anarchici leggendo le lotte di Jean Valjean contro Javert, commovendosi all’idillio di Mario, all’eroismo materno di Fantina, alla capitolazione della nobiltà dinanzi al diritto del popolo, generoso pur nella sua abiezione e nei suoi delitti. Mario Gioda e Massimo Rocca hanno rassodato la loro concezione nei romanzi di Eugenio Sue, sono diventati anticlericali leggendo L’ebreo errante, hanno assorbito le teorie sulla delinquenza di Eugenio Sue, il piú completo rappresentante e grandiosamente imbecille di tutto questo movimento romantico, sissignori, romantico e profondamente romantico ed estensivamente romantico e socialmente romantico. Il romanticismo francese del ’48 ha anch’esso lanciato una parte della piccola borghesia sulle barricate, accanto alla classe operaia; ma la classe operaia era ancora debole, non riusì a prendere il potere; il potere fu preso da Luigi Bonaparte, la piccola borghesia romantica divenne cesarea. È questo il lato romantico del movimento fascista, dei fascisti come Mario Gioda, Massimo Rocca, Curzio Suckert, Roberto Farinacci, ecc., ecc.: una fantasia squilibrata, un brivido di eroici furori, un’irrequietezza psicologica che non hanno altro contenuto ideale che i sentimenti diffusi nei romanzi d’appendice del romanticismo francese del 48: anarchici pensavano la rivoluzione come un capitolo dei Miserabili coi suoi Grantavin, l’Aigle de Meaux e C., con contorno di Gavroche e di Jean Valjean; fascisti, vogliono fare i «principi Rodolfo» del buon popolo italiano. La congiuntura storica ha permesso che questo romanticismo diventasse «classe dirigente», che tutta l’Italia diventasse un romanzo d’appendice…

L’Unità, 28 febbraio 1924. Firmato Manalive.