Sulla struttura economica nazionale

Nella Riforma sociale del maggio-giugno 1932 è stata pubblicata una recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande industria in Italia, Bari, Laterza, 1931), recensione che contiene spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma l’autore potrebbe essere identificato nel prof. De Viti De Marco).

Si obietta prima di tutto al Morandi di non tener conto di ciò che è costata l’industria italiana: «All’economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili e altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un’epoca. L’economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare. un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifizi minori o maggiori».

È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione piú utilmente; ma tutto questo esame deve essere fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde, il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intiere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale, tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati.

Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Cosí il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l’avventura salutare nel Sud, dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all’uomo richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionista che ha consentito Io sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l’economia rurale del Sud in economia industriale. Tuttavia, si può pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime salariale», e si può vedere qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi proprietari e dell’industria molitoria, ecc.

Si rimprovera al Morandi l’eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l’indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta. Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie, ecc.), che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato. Critica molto giusta: una gran parte dell’attività della Destra storica, da Cavour al 1876, fu dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare; solo con l’avvento della Sinistra, e specialmente con Crispi, si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d’ogni genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende possibile la politica «produttivistica» successiva.

«Cosí, ad esempio non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d’opera in Lombardia nei primi decenni dopo l’unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell’economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l’incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali.» La quistione però non è cosí semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l’eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati.

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle piú importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari, ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz’altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell’Ilva, dell’Ansaldo, della Banca di sconto, della Snia Viscosa, dell’Italgas. «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rivelato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l’autore considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi, se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l’Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni dei mercati, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mete da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente, che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non s’erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possano sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l’enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel paese piú progredito — come sarebbe stato razionale — non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo, sì, ma ormai superate; e se questo fatto non si presentasse «piú utile» per gli industriali, che speculavano sul basso prezzo della mano d’opera e sui privilegi governativi piú che su una produzione tecnicamente perfezionata.

Nel fare l’analisi della relazione della Banca commerciale italiana all’assemblea sociale per l’esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella Riforma sociale, luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni: vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma il patrio protezionismo, che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita, rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di piú veniva conteso all’industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, ” ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace “, la quale consisté nel prendere a prestito ” a rotazione ” all’estero, per prestare a piú lunga scadenza all’interno. ” Una tale politica di tesoreria aveva però — dice la relazione — il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo “. Quando scoppiò la crisi mondiale, gli ” investimenti liquidi ” non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile; il risparmio estero arrestò il suo flusso; le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per piú aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931… (L’errore) antico consisteva nell’aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci ” indipendenti dall’estero “; senza riflettere che, a mano a mano che non ” dipendevamo ” dall’estero per i prodotti, si rimaneva sempre piú dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all’estero per i capitali. L’esempio di altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è possibile: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una piú rapida accumulazione. L’Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiare una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

Da Note sul Machiavelli, pp. 242-246.