Le idee di Agnelli

Alcune osservazioni preliminari sul modo di porre il problema tanto da parte di Agnelli[1] che di Einaudi: 1) Intanto il progresso tecnico non avviene «evolutivamente», un tanto per volta, per cui si possono fare delle previsioni oltre certi limiti: il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se fosse cosí come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe all’ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono senza lavoro alcuno. 2) La quistione poi piú importante è quella della produzione di alimenti: non si pensa che «finora» data la molteplicità di livelli di lavoro tecnicamente piú o meno progrediti, il salario è stato «elastico» solo perché è stata permessa, entro certi limiti, una ridistribuzione degli alimenti e specialmente di alcuni di essi, di quelli che danno il tono alla vita (con gli alimenti occorre porre l’abbigliamento e l’abitazione). Ora nella produzione degli alimenti i limiti alla produttività del lavoro sono piú segnati che nella produzione dei beni manufatti (e si intende «quantità globale» degli alimenti, non loro modificazioni merceologiche, che non ne aumentano la quantità). Le possibilità di «ozio» (nel senso dell’Einaudi) oltre certi limiti, sono date dalla possibilità della moltiplicazione degli alimenti come quantità e non dalla produttività del lavoro, e la «superficie della terra» con il regime delle stagioni ecc., pongono limiti ferrei, quantunque sia da ammettere che prima di raggiungere tali limiti ci sia ancora molto viaggio.

Le polemiche tipo Agnelli-Einaudi fanno pensare al fenomeno psicologico che durante la fame si pensa di piú all’abbondanza di cibo: sono ironiche, per dire il meno. Intanto la discussione è sbagliata psicologicamente, perché tende a far credere che l’attuale disoccupazione sia «tecnica», mentre ciò è falso. La disoccupazione «tecnica» è poca cosa in confronto della disoccupazione generale. Inoltre, il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di «lavoratori» e di «industriali» (datori di lavoro in senso stretto, tecnico), ciò che è falso e porta a ragionamenti illusori. Se cosí fosse, dato che l’industriale ha bisogni limitati, la quistione sarebbe semplice realmente: la quistione di ricompensare l’industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell’eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti. Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore). Dato il rapporto prima notato sul progresso tecnico nella produzione degli alimenti, avviene una selezione dei consumatori di alimenti, in cui i «parassiti» entrano nel conto prima dei lavoratori effettivi e specialmente prima dei lavoratori potenziali (cioè attualmente disoccupati). È da questa situazione che nasce il «fanatismo» dell’eguaglianza, e rimarrà «fanatismo» cioè tendenza estrema e irrazionale, finché tale situazione durerà. Si vede che esso scompare già dove si vede che per lo meno si lavora a far scomparire o attenuare tale situazione generale.

Il fatto che la «società industriale» non è costituita solo di «lavoratori» e di «imprenditori», ma di «azionisti» vaganti (speculatori) turba tutto il ragionamento di Agnelli: avviene che se il progresso tecnico permette un piú ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma «sempre» irrazionalmente agli azionisti e affini. Né oggi si può dire che esistano «imprese sane». Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa «grandezza» del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è cosí grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di «follia» (panico, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel «boom», nel «run» ecc.) e la speculazione diventa una necessità tecnica, piú importante del lavoro degli ingegneri e degli operai.

L’osservazione sulla crisi americana del 1929 appunto questo ha messo in luce: l’esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende «sane», per cui si può dire che «aziende sane» non ne esistono piú: si può pertanto usare la parola «sana» accompagnandola da un riferimento storico: «nel senso di una volta», cioè quando esistevano certe condizioni generali che permettevano certi fenomeni generali non solo in senso relativo, ma anche in senso assoluto[2].

Luigi Einaudi ha raccolto in volume i saggi pubblicati in questi anni di crisi. Uno dei motivi su cui l’Einaudi ritorna piú spesso è questo: che dalla crisi si uscirà quando l’inventività degli uomini avrà ripreso un certo slancio. Non pare che l’affermazione sia esatta da nessun punto di vista. È certo che il periodo di sviluppo delle forze economiche è stato caratterizzato anche dalle invenzioni, ma è esatto che in questo ultimo periodo le invenzioni siano state meno essenziali e anche meno numerose? Non pare: si può dire tutt’al piú che hanno colpito meno le immaginazioni, appunto perché precedute da un periodo di tipo simile, ma piú originale. Tutto il processo di razionalizzazione non è che un processo di «inventività», di applicazione di nuovi ritrovati tecnici e organizzativi. Pare che l’Einaudi intenda per invenzioni solo quelle che portano all’introduzione di nuovi tipi di merci, ma anche da questo punto di vista forse l’affermazione non è esatta. In realtà però le invenzioni essenziali sono quelle che determinano una diminuzione dei costi, quindi allargano i mercati di consumo, unificano sempre piú vaste masse umane, ecc.; da questo punto di vista quale periodo è stato piú «inventivo» di quello della razionalizzazione? Anche troppo inventivo, a quanto pare, fino all’«invenzione» della vendita a rate e della creazione artificiosa di nuovi bisogni nel consumo popolare. La verità è che pare quasi impossibile creare «bisogni» nuovi essenziali da soddisfare, con nuove industrie completamente originali, tali da determinare un nuovo periodo di civiltà economica corrispondente a quello dello sviluppo della grande industria. Oppure questi «bisogni» sono propri di strati della popolazione socialmente non essenziali e il cui diffondersi sarebbe morboso[3].

Da Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, pp. 324-327.


  1. Cfr. Riforma sociale, gennaio-febbraio 1933 (n. d. a,)
  2. È da vedere il libro di sir Arthur Salter, Ricostruzione: come finirà la crisi, Milano, Bompiani, 1932, pp. 398 (n. d. a.).
  3. Cfr. l'invenzione della «seta artificiale» che soddisfa il bisogno di un lusso apparente dei ceti medio borghesi (n. d. a.).